Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).
Giovanni Gentile (Castelvetrano, 1875 – Firenze, 1944) all’epoca della sua nomina a ministro della Pubblica Istruzione (30 ottobre 1922), non aveva ancora aderito al Partito nazionale fascista. Vi avrebbe aderito solo nel 1923, adducendo una motivazione piuttosto interessante, per quanto possa suonare strana al pubblico del “senno di poi”: «Mi son dovuto persuadere che il liberalismo, com’io l’intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l’Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l’appunto, da Lei»[1]. Gentile non era affatto uno sprovveduto: non s’era immaginato un fascismo diverso da quello che in verità era, perché il fascismo non aveva ancora un’identità – era un condensato di suggestioni, una matassa della quale Gentile ritenne di poter trovare il bandolo. Per lui, il fascismo poteva essere il catalizzatore per compiere finalmente gli auspici del Risorgimento – cioè, in breve: creare un’unità spirituale italiana, per risollevare il paese dalle miserie di una condizione debole e incerta, e (ri)condurlo al centro della ribalta della storia. Se tra Mussolini e Gentile non ci furono “affinità elettive” a priori, certo ci fu la possibilità della convergenza: il capo del governo bramava autorevolezza istituzionale, e il suo ministro della Pubblica Istruzione poteva offrigliela. Per quanto riguardava la Pubblica Istruzione, la “rivoluzione fascista” avrebbe avuto in Giovanni Gentile il suo interprete. Queste furono le circostanze in cui fu elaborata quella riforma della scuola che da Gentile prese il nome. Grandi ambizioni incontrarono la volontà politica di assecondarle; o quantomeno così parve, in un primo momento.
Per comprendere la Riforma Gentile, occorre soffermarsi brevemente sul sistema filosofico che la innervava. L’“attualismo” di Gentile, per dirla con Emanuele Severino,
muove da Berkeley: “La realtà non è pensabile se non in relazione coll’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è soltanto oggetto possibile, ma oggetto reale, attuale di conoscenza”. […] Pensare che la realtà sia esterna al pensiero è contraddittorio ed è un’operazione nella quale ci si forma l’idea della realtà, dimenticando l’idea in cui la realtà è pensata. […] Tale principio [dell’idealità del reale] non consente la distinzione tra «il pensiero che pensa attualmente il mondo» e il «Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti». […] Non si può dare una “spiegazione” del pensiero trascendentale, perché è esso fonte di ogni spiegazione e condizione di ogni esperienza. Il pensiero trascendentale non può diventare un oggetto determinato (finito) del pensiero, perché è il soggetto di ogni oggetto, […] e non è mai “atto compiuto”, cioè finito, ma “atto in atto”, che è la nostra stessa soggettività, è noi stessi; e appunto perché non è atto compiuto, finito, oggettivato, ma atto in atto, attualità, esso è intrascendibile. […] Proprio perché non ha nulla fuori di sé, il pensiero attuale è il “creatore” della realtà. […] Gentile mostra infatti che, proprio perché il pensiero è divenire, incremento della realtà, proprio per questo non può esistere una realtà esterna indipendente dal pensiero […] il pensiero è l’essenza dell’uomo, che dunque, come pensiero attuale – come Io trascendentale, non come io empirico – contiene sì in se stesso il divenire, ma è anche al di sopra del divenire, del tempo e della morte […] Il pensiero è “l’attività integratrice” che raccoglie, sintetizza, unifica e quindi rende possibile la struttura logica della realtà; e la logica del concreto vede in questa attività del pensiero il divenire creatore della realtà, che afferma sì l’astratto, ma insieme lo nega come realtà presupposta al pensiero. Questo significa che non c’è astratto (= realtà) senza concreto (= pensiero) e viceversa. Il contenuto della logica del concreto (cioè il pensiero che sa riflettere su di sé) è identico al contenuto della logica dell’astratto (la quale pensa la verità, oggettivamente considerata come indipendente dall’atto del pensare), ma dialettizzato, ossia messo in relazione – questo contenuto – al pensiero (cioè al divenire) e quindi integrato nella negatività del pensiero pensante – la negatività cioè, che nega l’indipendenza della realtà dal pensiero[2].
E così, Dio stesso, la natura o la storia non vanno pensati come “esteriori” al pensiero, già dati anteriormente ad esso, bensì come prodotti dell’attività stessa dell’Io trascendentale. L’intera “oggettività” è in verità un’“oggettivizzazione”, un prodotto del pensiero – necessario come contrappunto dialettico al pensiero stesso, perché il soggetto spirituale ha bisogno di oggettivarsi per scoprirsi appunto quale soggetto. L’atto del pensiero è spirito, e lo spirito è reso immanente proprio dallo scoprirsi come irriducibile atto del pensiero, secondo un continuo divenire che genera la storia stessa dell’Uomo.
Quando Gentile si approcciò alla sua riforma della scuola, non lo fece come un laico devoto a qualche esigenza politica particolare, bensì procedendo proprio dal suo sistema filosofico. Esso ha un corollario importante: Gentile ritiene che le forme spirituali (cioè le attività di pensiero) più alte siano l’arte, la religione e la filosofia. Ma l’arte, intesa come dominio della soggettività libera; e la religione, intesa come oggettività radicale che annulla ogni soggettività di fronte a un Oggetto assoluto – sarebbero destinate a conciliarsi nella filosofia, la quale integrerebbe superando la loro opposta unilateralità riconoscendo tanto la necessità della soggettività quanto dell’oggettività. Evidentemente, Gentile concepisce la filosofia come l’attività del pensiero per eminenza, quella in cui si compie e si rivela a se stesso il senso della realtà. Lo spirito si manifesta nella filosofia, e la filosofia è l’attività spirituale par excellence. Interpreti di quest’attività spirituale sono i singoli “io”, cioè le singole persone. Ma non tutte ne hanno coscienza – a maggior ragione quando la loro attività spirituale è viziata da pregiudizi scientisti, come quelli che dominavano all’epoca la cultura istituzionale italiana, da circa cinquan’tanni. Era senz’altro anche per questo che l’Italia, o meglio: gli italiani, erano scivolati nella penombra civile. Riscattarli significava ridestare la coscienza della capacità poietica dello spirito, che costruisce le civiltà. Tradotto in prassi, significava formarli attraverso la filosofia alla filosofia, riproducendo il circolo virtuoso dell’“atto in atto” del pensiero. Insomma, ciò che Gentile auspicava era che gli italiani potessero risvegliare la loro potenza spirituale, e ciò era possibile solo educandoli all’attività del pensiero, cioè alla filosofia.
La chiave per comprendere il senso intimo della Riforma Gentile è proprio in quest’auspicio. Auspicio tradotto in prassi nella conversione di tutto il sistema scolastico ad un’impostazione radicalmente umanistica – essendo l’“uomo” gentiliano «uomo morale», protagonista consapevole dell’attività del suo spirito che si dipana in tutti gli ambiti civili, da quelli tecnico/pratici fino all’attività in cui il pensiero scruta se stesso, cioè la filosofia. Dunque, il prisma della Riforma gentiliana dev’essere osservato da quest’angolazione, il cui vertice è la filosofia. La scuola era impostata filosoficamente, e proprio la filosofia ne era l’architrave[3]. La scuola avrebbe dovuto mirare alla promozione di uno spirito critico e sistematico, e non ad un accumulo di conoscenze; in un certo senso, avrebbe dovuto promuovere la vita, che per Gentile era eminentemente vita dello spirito, fecondando le menti degli studenti lasciando che esse si fecondassero nella loro attività di pensiero. Questo approccio lo si può riscontrare nella riforma specifica della didattica della filosofia: tanto per incominciare, venne abolita la prescrittività dei programmi d’insegnamento, cioè lasciata piena libertà al docente di selezionare gli argomenti da trattare. Venne respinta l’idea che la filosofia potesse essere insegnata nella forma degli “elementi” di filosofia, quelle che noi oggi chiameremmo “nozioni” – l’idea era che bisognasse cercare la profondità del pensiero, il confronto con le questioni essenziali. Venne rifiutato il ricorso ad un manuale, perché la filosofia doveva essere studiata direttamente sui testi dei filosofi – affinché il pensiero dello studente incontrasse il pensiero dell’autore, e si potesse così dialetticamente sviluppare. Queste le basi, teoriche e didattiche, della Riforma Gentile.
Note:
[1] Lettera del 31 maggio 1923 a Benito Mussolini, cit. in G. Gentile, La riforma della scuola in Italia, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 94-95
[2] E. Severino, La filosofia contemporanea, BUR, Milano 2017, pp. 211-217.
[3] A. Gaiani, Il pensiero e la storia, Claup, Padova 2014, p. 43