Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.
Da quando nel 1963 la rappresentazione de Il Vicario di Rolf Hochhuth lanciò la leggenda nera di un Pio XII silente e indifferente verso l’Olocausto ebraico, la questione del “silenzio” vaticano sulla Shoah ha diviso storici e pubblicisti tra accusatori e difensori del pontefice e ha risentito di intrecci con polemiche politiche ed ecclesiologiche. Alle critiche della sinistra comunista alla dura politica anticomunista del pontefice seguirono negli inquieti anni Sessanta quelle della contestazione dei nuovi movimenti che investì anche la Chiesa. Sul piano ecclesiologico, il giudizio sul “silenzio” di Pio XII è influenzato da diverse visioni del ruolo della Chiesa. Le correnti “tradizionaliste” cattoliche (come pure quelle ebraiche e protestanti) difendono Pio XII in quanto rappresentante di un ruolo tradizionale della Chiesa nel quadro di una reinterpretazione dello “spirito” del Concilio Vaticano II, mentre le correnti “riformatrici” criticano lo stesso pontefice in quanto rappresentante di una Chiesa ormai superata dal medesimo Concilio.
Gli accusatori “giustizialisti” hanno denunciato il “silenzio” di Pio XII, ossia la mancata pubblica condanna del genocidio e del regime nazista, finendo per sconfinare in qualche caso in accuse al papa di filo nazismo. I difensori “apologeti” sostengono che il papa fece il possibile, con la prudenza dovuta per evitare conseguenze peggiori (così anche la linea della Santa Sede). Entrambe le correnti si confrontano sull’adeguatezza della risposta vaticana al genocidio degli ebrei, su ciò che poteva e doveva essere fatto, sull’efficacia di una condanna pubblica e sui suoi rischi.
Così impostata, sul piano storiografico la questione è mal posta. La storia non è un tribunale che sentenzia su ciò che il papa doveva fare e non è ufficio della storiografia stabilire ciò che il papa poteva fare, poiché la storiografia non avanza ipotesi, ricostruisce i fatti e propone risposte ai perché di quei fatti, nel nostro caso ciò che il papa fece e il perché delle sue scelte, poste nel momento storico e nella Chiesa del tempo. Peraltro, non si può neppure asserire che egli fece il possibile e che non aveva scelta, perché la storia è fatta dalle scelte degli uomini, non da entità metastoriche che li muovono come strumenti inconsapevoli: essi possono sempre fare altrimenti.
L’inadeguatezza dell’atteggiamento vaticano verso un male unico nella storia umana, come la Shoah, è un fatto, poiché il “riserbo” ufficiale, la diplomazia e la condanna della guerra in sé senza denunce di crimini e responsabilità individuate, non contribuirono a fermare deportazioni e sterminio. Tuttavia, una constatazione non è una spiegazione. La stessa delimitazione della questione è riduttiva, poiché, alla fine, il “silenzio” si riduce all’assenza di una posizione pubblica e trascura gli altri modi in cui il pontefice agì e parlò: i contatti diplomatici, le direttive ecclesiali, i colloqui e le corrispondenze riservate con i vescovi e con personaggi influenti interni e esterni alla Chiesa, iniziative accompagnate per natura dal “riserbo”.
L’ambito è storiograficamente limitato anche rispetto ai soggetti. L’indagine non può limitarsi alla persona del pontefice, che per quanto centrale nel governo della Santa Sede, non poteva evitare un’interazione dialettica con le gerarchie ecclesiastiche, soprattutto con gli episcopati nazionali, in particolare quello tedesco. Questi altri soggetti hanno influito sulle decisioni e sugli orientamenti papali, dal punto di vista storico hanno partecipato all’atteggiamento della Santa Sede.
L’ambito storiografico è limitato anche rispetto all’oggetto. L’atteggiamento verso l’Olocausto non può essere isolato dalla complessiva politica vaticana nel conflitto mondiale. La Santa Sede seguiva una linea di riserbo e imparzialità nei conflitti bellici, evitando attentamente di schierarsi e riservandosi un ruolo umanitario. Un papa “diplomatico” come Pacelli accentuava il peso di questa tradizione, già impostata da Benedetto XV nella Prima guerra mondiale, ma che era il risultato di un lungo processo storico. La fine della Res Publica Christiana e la formazione degli Stati nazionali che non riconoscevano autorità superiori avevano lasciato al papa un’autorità morale ormai priva di un ruolo arbitrale. Inoltre, l’allineamento dei cattolici alle rispettive patrie in guerra suggeriva la neutralità: prese di posizione pubbliche della Chiesa rischiavano di porre in conflitto nelle comunità cattoliche nazionali il sentimento religioso con quello patriottico formatosi di pari passo con gli Stati-nazione, minacciando la devozione dei fedeli verso le gerarchie ecclesiastiche.
La neutralità ufficiale confermata da Pacelli nella seconda guerra mondiale mirava anche a salvaguardare una posizione super partes in quanto requisito del ruolo di mediazione cui il papa si candidava implicitamente con i suoi accorati appelli alla pace e con le sue iniziative diplomatiche. La Chiesa non misurava appieno un’epoca che dopo la Prima guerra mondiale non confrontava solo Stati con conflitti particolari conciliabili da un mediatore super partes, ma Stati portatori di diverse e inconciliabili visioni del mondo, alcune delle quali sfidavano la stessa identità cristiana.
L’ambito dell’indagine richiede inoltre di allargarsi a un periodo più ampio del pontificato di Pacelli. Pio XII ereditava il progetto ierocratico di recupero di un ruolo guida della Chiesa nel mondo moderno, impostato dal predecessore Pio XI, che aveva assegnato alla politica concordataria non solo la tutela delle prerogative ecclesiali, ma anche una prospettiva di riconquista cattolica di una società vieppiù secolarizzata. A questa politica Pacelli aveva contribuito da diplomatico e segretario di Stato e la prospettiva di una civiltà cristiana guidata dal magistero della Chiesa trovò un eco nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (20 ottobre 1939). Questa prospettiva richiedeva una neutralità super partes nei conflitti tra gli Stati in quanto premessa di un unanime riconoscimento del ruolo universale di guida morale e arbitrale della Chiesa, supremo regolatore della vita degli Stati.
L’ulteriore esplorazione degli archivi vaticani relativi al pontificato di Pio XII, aperti alla consultazione nel marzo 2020, potrà apportare nuovi particolari sull’atteggiamento del Vaticano e di Pio XII nella seconda guerra mondiale, anche in relazione al genocidio degli ebrei. Tuttavia, esistono già da tempo fonti imponenti. Da diversi anni è disponibile l’archivio del predecessore Pio XI, così come gli archivi diplomatici italiani, americani e inglesi; la storiografia tedesca ha raccolto ampie fonti sul periodo del nazismo e l’episcopato tedesco ha promosso la pubblicazione di una numerosa serie di volumi di fonti sui rapporti con il Terzo Reich; infine, restano utili i volumi degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, una raccolta voluta da Paolo VI in risposta alle polemiche scatenate dal Vicario.
Queste fonti hanno ormai consentito alla storiografia di consolidare dei punti fermi. La Santa Sede sapeva, era consapevole della misura e novità “qualitativa” dello sterminio, un genocidio non inseribile nelle temperie belliche ma motivato da un’ideologia razzista e pagana ostile agli stessi principi cristiani. Il Vaticano avallò con discrezione l’opera di soccorso e rifugio di istituti religiosi verso i perseguitati, certo con il tacito consenso papale. Era il tradizionale ruolo umanitario della Chiesa, rivolto non solo agli ebrei, difeso talvolta con energia, talvolta con incertezza, facendo valere l’extraterritorialità dei luoghi ecclesiastici per proteggere le aree di rifugio.
Pio XII scelse deliberatamente il riserbo ed evitò una condanna pubblica e diretta del regime nazista, dei suoi crimini e del genocidio ebraico, sollecitata da più parti, anche interne alla Chiesa. Non fu indifferente alla possibilità di un intervento pubblico di condanna, ma riteneva necessaria la partecipazione ad esso dei vescovi tedeschi. La concezione “universalista” che Pacelli aveva del ruolo del papa lo tratteneva dall’intervenire sulle situazioni di singoli paesi e riservava al pontefice l’attesa o il sollecito e l’approvazione di interventi affidati alla misura degli episcopati locali. Sondò l’episcopato tedesco per suggerire l’opportunità di una condanna pubblica dei crimini nazisti, ricevendo una scoraggiante conferma delle incertezze e divisioni tra i vescovi tedeschi. Prelati come il capo dell’episcopato Bertram nutrivano dubbi e invitavano alla prudenza, altri come l’arcivescovo di Berlino von Preysing erano più sensibili alla necessità di un intervento pubblico del magistero cristiano.
La storiografia ha già proposto una serie di fattori dell’atteggiamento vaticano, oltre alla ricordata tradizione di riserbo e imparzialità. Senz’altro incombeva il timore, più volte addotto dalle gerarchie e dallo stesso papa, di provocare mali peggiori con uno scontro aperto con un regime che aveva già dimostrato la propria feroce determinazione, ma altri motivi condizionavano le scelte vaticane. A frenare una condanna pubblica del nazismo c’era il timore di uno scisma della comunità cattolica tedesca, qualora fosse posta davanti alla scelta tra fedeltà alla Chiesa e fedeltà alla patria. L’esempio della comunità protestante, scissa tra la Chiesa del Reich allineata al regime e la Chiesa confessante, contraria al nazismo e perseguitata, era lì a dimostrare il pericolo. Lo scisma peraltro non avrebbe salvato il cattolicesimo tedesco dall’accusa di complicità con il nazismo, poiché una parte sarebbe rimasta comunque fedele al regime. L’“ecclesiocentrismo” che dettava la priorità della salvaguardia dell’unità della Chiesa prevalse sugli auspici di una Chiesa schierata nell’aperta difesa del magistero.
Preoccupazioni relative all’espansionismo russo facevano la loro parte, ponendo un freno a rotture diplomatiche con la Germania. Il Vaticano, davanti ai due nemici del paganesimo nazista e del materialismo ateo comunista, auspicava la sconfitta del nazismo, ma non un annichilimento della Germania che avrebbe favorito uno straripamento sovietico in Europa. Una Germania denazificata poteva essere recuperata in un fronte occidentale antisovietico.
Non ultimo, pesava l’antigiudaismo di lunga tradizione nella storia della Chiesa e presente anche nelle gerarchie ecclesiastiche. La condanna del razzismo nazista da parte della Chiesa rimarcava implicitamente la differenza tra questo antico antigiudaismo, culturale e religioso, e l’antisemitismo del nazismo, biologico e razziale. Tuttavia, l’antigiudaismo cattolico perpetuava una percezione di diversità ed estraneità dell’ebreo presso l’opinione cattolica e le stesse gerarchie che indeboliva resistenze e opposizioni alle persecuzioni antiebraiche. Esso assecondava l’equivoco delle gerarchie, che sottovalutarono le politiche antiebraiche, non solo in Germania, e tardarono a cogliere nell’antisemitismo dei nazisti i rischi dei suoi sviluppi genocidari.
Timori di causare il peggio, incertezza sull’efficacia e sui rischi di interventi pubblici di condanna, retaggi di tradizioni culturali, aspirazione di ruoli storici irrecuperabili, preoccupazioni diplomatiche, priorità “ecclesiocentriche”, circospezione dei doveri patriottici dei fedeli, condizionavano le scelte della Chiesa. La molteplicità di condizionamenti e di fattori irretiva l’atteggiamento vaticano in una posizione che impedì alla “questione ebraica”, che pure aveva assunto il volto della Shoah, di entrare tra le priorità della Santa Sede.
Alla fine, i “silenzi” di Pio XII derivarono dai suoi irrisolti “dilemmi”, generati da una serie di molteplici fattori, il cui concorso frenava, ritardava, talvolta bloccava il viatico decisionale del papa e non consente oggi allo storico di risolvere la questione con il privilegio di uno di essi né con la personalizzazione di una leggenda nera, bensì richiede una problematica lettura della loro concomitanza dialettica.