Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.

Recensione a
E. Albinati, Velo pietoso. Una stagione di retorica
Rizzoli, Milano 2021, pp. 147, €12.00.

W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura
Rizzoli, Milano 2021, pp. 265, €14.00.

Già Walter Siti, nel suo aureo libretto, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, aprile 2021), aveva mostrato tutta la sua insofferenza nei confronti della «letteratura come militanza civile o come uno degli strumenti per tale militanza», la sua estraneità allo spirito del tempo che vuole misurare il valore di quella in base alla sua capacità terapeutica e riparatrice di torti antichi e nuovi (Réparer le monde. La littérature française face au XXIe siècle, si intitola per l’appunto il voluminoso e da Siti ampiamente citato lavoro del 2017 del critico letterario Alexandre Gefen).

Questa diffidenza verso la letteratura engagée si ripresenta con andamento carsico nel, peraltro assai frammentario e aforistico, pamphlet di Edoardo Albinati, Velo pietoso. Una stagione di retorica, fresco di stampa e anch’esso edito da Rizzoli. Ai colleghi che nelle esternazioni, negli appelli, negli articoli di fondo, negli «strepitanti comizi online», si sfiniscono entusiasti nello «spasimo dello sforzo di aver ragione, di persuadere», Albinati ricorda come «privilegio, e compito, e al tempo stesso condanna di uno scrittore», dovrebbe invece essere quelli «di non dovere convincere nessuno, non dimostrare niente, tutt’al più mostrare. «Paladino di niente», si definisce quando scrive, che se «il cittadino combatte», lo scrittore, invece, «rappresenta, e quando combatte lo fa da cittadino» (anche se poi aggiunge, forse un po’ troppo ellitticamente, che, pur diversi, «il suo coraggio nel combattere e il suo coraggio nello scrivere […], talvolta, si rispecchiano l’uno nell’altro e si ritrovano insieme»).

Le avversioni e le idiosincrasie di Siti e Albinati suggeriscono qualcosa anche allo storico. Questo, a nostro avviso, dovrebbe difatti aborrire ogni suggestione etico-pedagogica, dovrebbe respingere ogni blandizia e lusinga provenienti da chi gli volesse commissionare compiti terapeutici, di rigenerazione e legittimazione di sistemi politico-istituzionali. Lo storico, se veramente tale, non deve partecipare, a parer nostro, ad alcun processo di nation building. Né costruttore di identità né dispensatore di virtù civiche, deve anzi correre il rischio che il proprio lavoro possa talvolta rivelare una contraddizione, insanabile, tra le esigenze della professione storica e i doveri civici discendenti dall’appartenenza a una comune cittadinanza.

Lo storico, come il poeta di Carmelo Bene, deve essere antisociale e anti-(non in-)civile, deve essere il guastafeste che, non invitato, si presenta alle feste, tocca il culo alle ragazze, rutta, si ingozza e vomita sul tappeto persiano, colui che si fa beffe delle giornate in memoria di questo e di quello, che rinuncia a lustrini e patacche da appuntarsi sul petto al seguito, novello galoppino, del politico di turno in occasione delle paludate e narcotizzanti celebrazioni istituzionali (e di se stesso).

La ricerca storica che non suona come moneta falsa è quella che risponde al gusto e al piacere individuali, la più onesta e quindi scientificamente più valida proprio perché non caricata di finalità extrascientifiche che, se assunte come dati di cui lo storico deve tener conto nel suo lavoro, questo non possono non condizionare, sfregiare e deturpare. Chiamato da sempre a partecipare alla costruzione e alla deificazione dello Stato-Nazione, di questo e della sua costellazione valoriale e identitaria di riferimento lo storico non può che augurarsi la progressiva consunzione.

Un sistema di valori, di tutta evidenza, più saldo è e più, esplicitamente o implicitamente, impone divieti, tabù, ostracismi a chi intenda battere percorsi e itinerari che su quella costellazione potrebbero, anche non intenzionalmente, proiettare una qualche ombra. Lo storico, insomma, non può che vedere giardini fioriti lì dove il buon cittadino non vede che deserti di valori.

Marc Bloch nell’Apologia della storia o Mestiere di storico[1] ha scritto che «quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso»[2]; che spesso «si dimentica che un giudizio di valore non ha ragion d’essere se non come preparazione a un’azione»[3] (e allo storico, quindi, che in quanto tale studia ma non agisce la formulazione di giudizi di valore non compete[4]); che «un motto, in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “comprendere”. Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni; ha per lo meno quella»[5]. Lo storico francese ha anche ammesso che lo stimolo alla ricerca, ancor «prima del desiderio di conoscenza», origina dal «semplice gusto»[6]: «nessuno, credo, si azzarderebbe più a dire, oggi, con i positivisti di stretta osservanza, che il valore di una ricerca si misura, in tutto e per tutto, dalla sua capacità di servire all’azione […]. Sarebbe infliggere all’umanità una ben strana mutilazione il rifiutarle il diritto di cercare, al di fuori di ogni preoccupazione di benessere, l’appagamento dei suoi appetiti intellettuali. Dovesse anche la storia essere eternamente indifferente all’homo faber o politicus, basterebbe, a sua difesa, esser riconosciuta come necessaria al pieno dispiegarsi dell’homo sapiens»[7].

«Anche indipendentemente da ogni possibilità di applicazione alla condotta pratica»[8], continua Bloch, la storia sarà conoscenza «nella misura in cui essa ci consentirà, invece di una semplice enumerazione, senza nessi e quasi senza limiti, una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità»[9]. È vero, ammette ancora Bloch, «un’antica inclinazione, cui si vorrà concedere almeno valore di istinto, ci spinge a richiederle i mezzi per guidare la nostra azione; e dunque, a indignarci contro di essa, […] se, per caso, essa sembri manifestare la sua impotenza a fornirceli»[10]. Bene, se d’istinto si tratta, dovere dello storico, in quanto studioso e quindi deontologicamente costretto ad assumere un habitus il più razionale possibile, è quello di resistergli e portare orgogliosamente sugli scudi le indicazioni del fondatore dell’acribia storica, quel Pierre Bayle, che nel suo Dizionario storico e critico del 1697 avvertiva che lo storico «insensibile a tutto il resto, deve essere attento solo agli interessi della verità e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria. Deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato allevato in una certa comunità, che deve la sua fortuna a questo e a quello, e che questi e quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è, come Melchisedec, senza padre, senza madre, senza genealogia. Se gli si domanda: di dove sei? Bisogna che risponda: non sono né francese né tedesco né inglese né spagnolo, ecc.; sono abitante del mondo. Non sono né a servizio dell’imperatore né a servizio del re di Francia, ma solo al servizio della verità. È la mia sola regina, e solo ad essa ho prestato giuramento di obbedienza. Tutto ciò che lo storico dà all’amore di patria lo toglie agli attributi della storia, e diviene un cattivo storico a misura che si dimostri un buon suddito»[11].

Note:

[1] Torino, Einaudi, 2009. Com’è noto, l’opera, incompiuta, fu pubblicata per la prima volta nel 1949.

[2] Ivi, p. 104.

[3] Ivi, p. 105. Nella pagina precedente Bloch osservava: «non si può condannare o assolvere senza schierarsi per una tavola di valori che non deriva più da alcuna scienza positiva».

[4] Bloch cita il giudizio di Montaigne: «Non appena il giudizio pencola da una parte, non ci si può trattenere dal tratteggiare e distorcere la narrazione in quel senso» (ivi, p. 106).

[5] Ivi, p. 107.

[6] Ivi, p. 9.

[7] Ivi, p. 11.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, pp. 11-12.

[10] Ivi, p. 12.

[11] Citato in N. Abbagnano, Storia della filosofia, 3, Il pensiero moderno: da Cartesio a Kant, L’Espresso, Roma 2006, p. 460.

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