Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.
Recensione a: M. Scott, Mondi antichi. Una storia epica d’Oriente e d’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 443, € 26,00.
Sotto i cieli della storia delle civiltà antiche vanno moltiplicandosi i lavori che esplorano ibridazioni, connessioni, interazioni tra società sorte a migliaia di chilometri di distanza e in continenti diversi, costringendo studiosi e lettori a una continua opera di retrodatazione e puntualizzazione dei processi di compenetrazione e globalizzazione delle culture.
Vogliamo allora qui segnalare, perché a nostro avviso non sufficientemente apprezzato, un testo di qualche anno fa: Mondi antichi. Una storia epica d’Oriente e d’Occidente, di Michael Scott. Riferendosi al campo degli studi del mondo antico greco-romano, campo prediletto dall’autore (che insegna Storia Antica all’università di Warwick in Gran Bretagna), Scott registra la proliferazione di libri sulla cui copertina campeggia spesso la locuzione «[…] nel mondo antico» ma che, «a un’ispezione più attenta», volgono lo sguardo al solo «mondo greco-romano del bacino mediterraneo, dove greci e romani vivevano come rane attorno a uno stagno» (p. 14), rivelando così un approccio rigidamente eurocentrico che vede troppo spesso le radici dell’albero europeo non estendersi oltre Atene e Roma. Medesimo limite palesano sovente i cultori delle antiche civiltà sviluppatesi nell’Asia centrale, in Cina e India che, nonostante alcuni pregevoli lavori di taglio comparatistico, prediligono una lettura che fa della cultura esaminata un universo autonomo, a sé stante. «Nei dipartimenti universitari, nei vari paesi – aggiunge Scott –, intere tribù di storici studiano e scrivono dei rispettivi mondi senza avvertire alcun bisogno di alzare lo sguardo sul più ampio contesto delle civiltà umane che vivono e respirano nello stesso tempo in tutto il globo, neppure quando la connessione è palesemente di fronte ai nostri occhi» (p. 15).
Eppure, ed è solo un esempio ma, riteniamo, assai significativo, proprio l’espressione Via della Seta ritornata recentemente agli onori delle cronache dovrebbe convincere lo spirito curioso a ricercare le ragioni storiche di quell’espressione. Se ciò avvenisse, scoprirebbe come già nel primo secolo d.C. aristocratici e aristocratiche romani e cartaginesi indossassero seta cinese in virtù di reti commerciali già consolidatesi da circa un secolo e che collegavano la Roma antica, Tiro in Libano e la Cina e come tali nuove vie della seta «si sarebbero rivelate fondamentali per il commercio mondiale per buona parte dei successivi 1500 anni, finché Colombo non scoprì l’America e Vasco da Gama non riuscì a circumnavigare la punta meridionale dell’Africa, aprendo così nuove rotte e nuovi mercati per il commercio a est e ovest» (p. 230).
Ma le commistioni attraverso la Via della Seta non si sarebbero limitate alla dimensione commerciale. All’interno del continente asiatico lungo quella rotta e via mare si diffuse a partire dal IV secolo d.C. nell’India induista e, affiancandosi al confucianesimo, in Cina il buddhismo, e su quella collaudata rete commerciale che univa l’Occidente e l’Oriente, missioni cristiane avrebbero contribuito a plasmare scuole buddhiste e influenze buddhiste sarebbero penetrate ad Alessandria d’Egitto mentre il Cristianesimo, sulla scorta dell’espansionismo dell’impero romano, si radicava nel Regno d’Armenia, regione cerniera tra Europa e Asia, e in Africa, soprattutto in Nubia ed Etiopia.
Commistioni religiose, quindi, ma anche artistiche se l’estetica greco-romana, diffusa in Asia centrale fin dall’epoca delle invasioni di Alessandro Magno, fu capace di influenzare in modo cospicuo e soprattutto nei primi quattro secoli d.C. le rappresentazioni iconografiche del Buddha.
Volume prezioso, dunque, questo di Scott, per la vastità dei paesaggi che squaderna davanti agli occhi del lettore, circostanza che rende assolutamente trascurabili alcune imprecisioni, già rilevate (si rinvia in proposito a Marco Cristini, in https://www.morcelliana.net/img/cms/Humanitas/2018/4%202018/41_H18,4_Rec.pdf), addebitabili peraltro spesso non all’autore ma alla traduzione italiana.