Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.

Recensione a: P. Citati, La ragazza dagli occhi d’oro, Adelphi, Milano 2022, pp. 390, € 25,00; G. Cambiano, Filosofia greca e identità dell’Occidente. Le avventure di una tradizione, il Mulino, Bologna 2022, pp. 798, € 50,00.

Diverse le pepite disseminate tra le pagine del postumo La ragazza dagli occhi d’oro di Pietro Citati. Tra queste vogliamo ricordare quelle dedicate a Seneca, perché dal corpus delle opere del filosofo di Cordova Citati ricava a beneficio del lettore piste, viottoli, sentieri, attraverso cui questo possa cimentarsi nel perfezionamento della propria autonomia spirituale e al contempo sdegnare aristocraticamente ogni tentativo altrui di indottrinamento: «Viveva soltanto nella incessante metamorfosi, nella continua instabilità, sebbene esaltasse, nella Vita felice, […] la solidità e la fermezza. Condannava la varietà, ma l’amava e la coltivava: ondeggiava, sebbene sapesse che il saggio non ondeggia mai; la sua anima era flessibile, più duttile di tutti i fluidi dell’universo». E poi: «era inquieto, agitato, sempre attivo […] era diviso: una serie di frammenti» condannati a non ricomporsi. «Vorrei non aver fatto ciò che ho fatto finora – scriveva –: maledico ciò che ho detto, ciò che ho desiderato, ciò che ho compiuto».

Stoico, non mancava, osserva Citati, di riconoscere debiti e riservare apprezzamenti nei confronti di Epicuro. L’appartenenza alla scuola stoica di Seneca non era mai, ricorda infatti Giuseppe Cambiano nella sua ponderosa Filosofia greca e identità dell’Occidente. Le avventure di una tradizione, «adesione passiva», conformistica reiterazione del pensiero di altri. Nelle Epistulae morales ad Lucilium, con le quali asseriva di aver dato vita a un nuovo genere letterario, l’epistolario filosofico, Seneca affermava come, seppure noster fosse Zenone, «non sumus sub rege».

Non ottuso ripetitore di tesi altrui deve essere colui che apprende («“Hoc Zenon dixit”: tu quid? “Hoc Cleanthes”: tu quid?») e soprattutto diffidente di coloro che si rivelano essere «numquam auctores, semper interpretes», che allenano «la memoria su cose scritte da altri» (perché  «una cosa è ricordare, un’altra sapere […]; sapere è anche non essere legato a un modello») e non comprendono come debba esserci «qualche differenza tra te e il libro». Chi difatti segue pedissequamente «un altro, non trova nulla, anzi, neppure cerca» e coloro che ci hanno preceduto non sono «nostri padroni, ma guide».

Seneca esortava l’amico a fare scorrerie e a saccheggiare il pensiero altrui, se questo pensiero  aveva veramente qualcosa di nuovo da dire, e ad infischiarsene delle appartenenze filosofiche («in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator»), perché «quod verum est meum est». Assistiamo, qui, alle prime, possenti picconate al principio dell’«ipse dixit», la cui demolizione sarebbe stata portata a compimento, ricorda ancora Cambiano, da Giordano Bruno nel De triplici minimo et mensura e ancor prima da Pietro Aretino nel cui epistolario si può leggere come allo stanco discepolo di Platone e Aristotele debba rispondersi «e tu che dici, asino? E tu che rispondi, bue? […]. Altro è il saper da sé, altro il mendicarlo dal maestro». Perle queste, dicevamo, da distribuire a piene mani ancor oggi, perché potentissimo antidoto agli ismi di qualsiasi segno e ai loro dogmatici e rancorosi banditori.

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