Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio (Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

Nell’ottobre del 1867 il Principe di Patti scrive all’Eccellenza Reverendissima per confermare di voler fare la spia ma recrimina. Le sentinelle hanno vietato l’accesso al cameriere impedendo la consegna delle lettere. Le armi del Comitato hanno passato il Ponte Sisto, assicura. Ed è imminente un colpo dentro la Città. Contro gli Zuavi, si suppone. Il Principe, l’oratore che scrive, è pronto a far avere i nomi dei componenti il Comitato dell’insurrezione. Con l’occasione spiega le difficoltà ad alimentare la sua famiglia e sarà gratissimo per una rimessa di denaro. In una busta sigillata usando il domestico. E si dichiara “obbidientissimo suddito”.

Roma. I popolani sussurrano della prossimità di Garibaldi e l’atmosfera è molto greve. Si teme che le sue bande ripetano il Sacco di Roma dei lanzichenecchi luterani comandati da Bourbon (Carlo III si Borbone). Saccheggi e uccisioni a non finire e il Papa Clemente VII, nipote di Lorenzo il Magnifico, dovette rifugiarsi in Castel Sant’Angelo, dove rimase rinchiuso per parecchio tempo. In questi giorni i negozi chiudono presto e in giro ci sono solo pattuglie di ronda, a piedi o a cavallo. Uno Zuavo è stato avvelenato con un sigaro! Folate di volantini sediziosi che incitano: «All’armi! Il vostro grido di guerra sia Morte al Papato Temporale. I vecchi, le donne, i fanciulli elevino le barricate…».

Il 22 ottobre un boato scuote la tranquillità dell’ora. Una mina ha distrutto gran parte del quartier generale degli Zuavi, in Borgo. Sotto le macerie una ventina di persone: elementi della banda musicale e bimbi orfani, riferiscono le fonti papaline.

Il resto dell’insurrezione a lungo studiata invece è un disastro. Gli artiglieri di Castel Sant’Angelo traditi vengono arrestati. A San Paolo i garibaldini trovano il deposito di armi vuoto, sono state spostate per una soffiata, non riescono a prelevare quelle celate nella Vigna Matteini. Fallisce l’assalto all’officina del gas, il piano era di spegnere tutte le luci di Roma. Le bande di volontari non arrivano. La rivolta una bolla di sapone che esplode senza lasciar traccia se non la rovina del Palazzo Serristori sventrato e i lamenti dei feriti. «… chi osò immaginare cotanto esecrando progetto… ché altro che anime perdute possono albergare cotanta immane ferocia».

La polizia recupera le armi, le accette, le mannaje dei sicari. Il Ministero Rattazzi, sicuro committente, è definito il Ministero delle mine e della slealtà. La controparte che si lamenta per la presunta e minacciata invasione è Papa Pio IX, Isidoro Mastai-Ferretti. La Polizia Pontificia non dorme! Nello stabilimento di panni dell’Ajani a Trastevere trova armi, polvere, bombe e anche nella Villa Cecchini. Ottocento archibugi vicino alla basilica di San Paolo, dodici bombe al Campidoglio.  Gli autori della tentata rivolta? «Pochissimi figli degeneri della più vile plebaglia. Prezzolati scherani».

Nei diversi e contrapposti proclami il popolo di Trastevere con la sua antica gloria è onorato dagli uni e dagli altri. E il Papa re può benedire il bagno di sangue, l’ironico e pungente commento della Giunta Romana d’insurrezione. Intanto nella caserma degli Zuavi si lavora a dissotterrare i sepolti ancora vivi e un “Colonello” grida loro che il Santo Padre ha dato l’assoluzione in articulo mortis.

La descrizione più cruenta di quelle pagine proviene dal lanificio Tavani, in via della Lungaretta 97 (Rione Trastevere). I frati dal campanile notano movimenti sospetti e informano la polizia. Arrivano trecento Zuavi a compiere il massacro. Il primo a cadere è Antonio Arquati, il ragazzo che è di sentinella. Gli assediati finiscono le cartucce e “gli sgherri papalini” irrompono. È una strage.

Giuditta Tavani Arquati, moglie dell’Ajani, incinta diventa l’eroina simbolo dell’epopea. Viene illustrata con i figli al seno e il revolver in pugno. La donna e i bimbi sono “scannati”  a baionettate, uccisi. I femminicidi sono atavici e ricorrenti. I combattenti catturati saranno condannati “nel capo”. I cronisti: «il figlio notante nel proprio sangue… La donna educava i figli alla setta! Mamma diceva che è meglio morire con una pistola in pugno che con la corona in mano!? Una palla di carabina colpì nel petto uno Zuavo ma finì sulla medaglia dell’Immacolata Concezione e fu meglio di una corazza». L’eccidio è immortalato nel quadro del pittore Carlo Ademollo.

Per la mina deflagrata alla caserma, a Borgo S. Spirito, le rivelazioni di spie senza nome sono numerose. Da queste  emergono pesanti indizi a carico di un tale Peppe, Giuseppe Monti, bel giovane con baffi e mosca nera, carnagione bronzina, e Gaetanino muratore, Gaetano Tognetti.  Arrestati e detenuti nelle Carceri Nuove, dopo un anno di reclusione vengono condannati alla pena capitale da eseguirsi:  nel solito piazzale de’ Cerchi. Alla notizia della pena Tognetti si dice innocente poi bacia la Pietà in costume, mette al collo lo scapolare della Madonna e si raccomanda alla Vergine Addolorata. Monti afferma di meritare anche di peggio e chiede il Padre spirituale. La notte precedente all’esecuzione alle 03 si celebra la Messa e i due Pazienti ricevono il SS.mo Viatico. Il Monti chiede di salire al patibolo scalzo, così e bendato «presenta il collo alla giustizia». Poco dopo le 7 del 24 novembre 1868 i due cristiani sono cadaveri.  Il famoso Mastro Titta, il boja de Roma, affida l’incarico al suo assistente. Veemente il grido di protesta in versi del Carducci che onora le teste insanguinate.

La vedova Lucia Monti è stretta d’assedio dai Gesuiti che vorrebbero rinchiuderla in un convento e assistere a modo loro l’orfanello.  Lucia è costretta a recarsi nella Chiesa del Gesù dove Sacerdoti pretendono da lei i nomi dei complici del marito. Cercano di convincerla che sono colpevoli della morte del marito. Ed è seguita, pedinata nei suoi percorsi. Interviene il pittore Nino Costa con un colpo di mano, può contare sull’appoggio degli amici inglesi Richmond. Questi, marito e moglie, si presentano al treno spacciando per loro figlio il bambino di Monti e Lucia come bambinaia. La Polizia Pontificia avvertita sta attenta ma nulla può davanti ai passaporti esibiti. I documenti li ha preparati Joseph Severn, console e banchiere, l’amico fraterno del poeta John Keats. La prima tappa è Terni e infine Firenze, accolti dal Costa nella sua casa di Via San Frediano.

Questa è stata l’ultima sentenza di morte dello Stato Pontificio e due anni dopo,  il 20 settembre 1870, i bersaglieri entrano in Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Edmondo De Amicis: «Ho sentito un fuoco di moschetteria; poi un lungo grido Savoia! Poi una voce lontana che gridava: Sono entrati!».

Nel 1977 il film In nome del Papa Re del regista Luigi Magni racconta le gesta seppure romanzate dei due decapitati. Sono martiri della libertà, come recita il cippo funebre del Tognetti al Pincetto antico del Verano. Eroi della nostra negletta storia e dovrebbero essere  ricordati. Ricordati.

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