Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio (Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

La sera ti frega con l’annuncio della notte che si fa bella con l’offerta seducente del riposo. Ma è sempre la caduta in un precipizio dal quale riemergi sorpreso e incerto. Per il risveglio a chi ti affidi? In collegio: la notte è una piccola morte, stesa a ricordare quella grande. Una sorta di allenamento. E comporta una solitudine anche se il letto lo dividi, ognuno va per i suoi sogni.

Nel suo prologo di buio del vespro allungo la mano allo scaffale e: «Io, io!» – Albert Camus protende orgoglioso il suo L’uomo in rivolta. Lo evito, ho ben presente il finale delle rivolte. Friedrich Nietzsche da fiero artigliere a cavallo dell’esercito prussiano si ritrova a Torino a conversare con i cavalli. Si fa frustare in foto dalla Lou Von Salomé che gli dà buca a favore di un altro Friedrich, un certo Andreas. Questi la conquista con un recitato tentato suicidio per lei. Ma Nietzsche perde poco perché il matrimonio sarà platonico, il marito dovrà concepire la figlia con la governante. Lou è prigioniera della sua purezza che ritiene componente della libertà. Nietzsche procede, uccide Dio, crea il superuomo. Scrive i biglietti della follia ai conoscenti e viene ricoverato in una clinica psichiatrica in Svizzera. Eppure era stato esplicito: «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro».

A proposito del suo triste destino i chierici, sempre in collegio, serafici mi dicevano: «Dio non è affatto morto e si è vendicato». Ambiguo il discorso sul superuomo, la sorella Elisabeth lo imbelletta con la volontà di potenza e da buona affarista lo cede in leasing ai nazisti. Comunque adesso il superuomo è diventato il compagno remissivo della Superwoman mascolina, quella del matriarcato, e lui fattosi omino sembra la reclame di un detersivo.

No, di Camus prendo Il mito di Sisifo, mi è più familiare. Se guardo all’indietro mi rivedo a salire con entusiasmo e scendere, infinite volte. E ogni volta il masso è un affascinante miraggio che poi purtroppo si smaterializza. Quanti libri! Il retaggio della mia generazione, speravamo di trovarci il vello d’oro… Ma erano scritti da altri uomini, come poteva esserci? Eravamo proprio sciocchi.

E nel prendere Camus dalla pila cadono Aldo Capitini e Gianni Baget Bozzo. Dapprima nell’incontro c’è tensione, imbarazzo. I prelati rimproverano all’Albert il fatto che ne Lo straniero quando gli è morta la madre non ha provato dolore, alcun sentimento. Ma la cosa si stempera rifacendosi alla Menzogna del romanzo di Giuliano Gramigna. Chi parla nel romanzo? E a conferma si cita Thomas Mann: «Chi suona le campane? Non i campanari, sono le campane che suonano». Cioè ci sono costrizioni di enunciazione e grammaticali per l’autore. E Camus farfuglia: «È stato Nietzsche a scrivere che sia convenevole trattare brutalmente la propria madre». Un’accusa scagliata senza il rischio di dinieghi.

Camus è eccitato e un po’ paonazzo per il litigio con Sartre. La causa è il sangue che cola a fiotti dalla Russia di Stalin. Camus è per il socialismo pacifico, mentre Sartre non ripudia la violenza rivoluzionaria. Una faida che rumoreggia l’ambiente culturale di Parigi. Camus è un pied-noir franco algerino. Orfano, ha conosciuto la miseria. L’Algeria non è sua, è degli algerini, ma ne soffre l’esilio. È imperlato di sudore per la tubercolosi che lo perseguita fin da ragazzo. Il professore Sartre invece è un signorotto con una vasta corte. E ha una sacerdotessa tuttofare, la Simone de Beauvoir, che si presta a fargli da mezzana con le allieve.

Appianato l’inghippo della madre, Camus si rasserena e si tuffa nell’assurdo:

La condizione umana è assurda. L’uomo si pone il quesito: perché siamo qui? Non abbiamo risposte.  La religione vinceva perché offriva l’aldilà eliminando la morte. E si rimandava tutto all’infinito invece bisogna risolvere qui, nel futuro terreno.

Il continuo salire e scendere di Sisifo lo paragona alle funzioni umane ripetute: mangiare, lavorare, dormire: «Se fossi un albero o un animale farei parte del mondo invece mi ritrovo in un mondo incomprensibile e quindi sono straniero». Vorrei dirgli che conosco un sacco di gente che vive tranquillamente senza interrogativi. La vita è un dono avariato ma è inutile sprecarla a farsi domande su di essa. Ecco il suo sbaglio: insiste a considerarla assurda.  Meglio un vestito strappato che essere nudo. Non oso, è un Premio Nobel.

«Il comunismo è la religione senza Dio», afferma. Il partito comunista non comprende i suoi sofismi e lo caccia. Anche perché lui auspica un compromesso tra coloni e algerini sperando che possano vivere insieme. Si lamenta per le vittime tra i civili  e lo accusano di umanità. Termina il suo pistolotto compiaciuto: «Dall’assurdo ho ottenuto la ribellione, la libertà e la passione». Ha dimostrato che l’umanità non è felice ed è felice di non essere felice. La sua soluzione? Un girotondo sociale di uomini che sono assurdi ma, non si sa come, un giorno vinceranno l’assurdo e il nulla.

Capitini è definito il Gandhi italiano per la sua dedizione alla nonviolenza e lo denuncia anche la veste tipografica striminzita. Opta per il turismo: fuori Gerusalemme c’è la Geenna, una valle ove si gettano carogne di animali, cadaveri di criminali e suicidi… E c’è un fuoco continuo, eterno: ecco! Da qui, insinua, che Gesù lo abbia visto come inferno. Ma che dice, non è mica Dante! E poi si addentra nella faccenda del perdono. L’inferno è il luogo dove sono eternamente puniti gli angeli ribelli e gli uomini morti in peccato mortale, ribadisce la Chiesa romana. Il Papa Pio XII conferma che non ci saranno amnistie o condoni di pena. Ma questo contraddice l’infinito amore di Dio, con una riunione finale di tutti. Il Dio della vendetta, quello che chiedeva di uccidere il figlio, è arcaico.

Capitini è isterico, nega tutto della religione e in tutto trova religiosità. Altrimenti come vivrebbe, di cosa vivrebbe? E a Camus che afferma: «Finchè vivi, il tuo è un caso dubbio», ribadisce che «l’immortalità non è soggetta a dubbi». Capitini tratta la religione come un’amante dalla quale si pretende di più. Chiede maggior condiscendenza per l’uomo che alle volte commette il male ed è infedele, ma è pur sempre una sua creatura con un “intimo” aperto a Dio. E suggerisce: se la vita è un inferno perché dovrebbe continuare nell’aldilà?

L’uscita di Baget Bozzo dalla libreria è complessa. Un famiglio in pratica lo tiene gelosamente sequestrato perché vuole che lo faccia eleggere deputato e cerca di riprenderlo dal pavimento. Per unirsi a noi deve garantirgli l’appoggio. Gianni è compromesso dalla sua bontà che si estende oltre la misericordia cristiana. È espansivo in maniera esagerata anche con quelli del suo sesso, provocando i rimproveri di Difesa della famiglia e di Civiltà Cattolica (allora). Scandaloso ed esplosivo per quei tempi il suo: «Un omosessuale può essere santo».

Ordinato solo in età matura, a 42 anni, con le autorità religiose è Intermittente come un faro marino, la sua Lanterna. Raccoglie una sospensione a divinis con rientro per il suo impegno politico. Ricordo la sua confessione di officiare la santa messa in casa, con un altare improvvisato. Dopo una danza sfrenata nelle correnti della Dc trova Craxi: «la sua politica ha per sé il presente, il futuro, l’eterno», e infine trasloca con l’abbraccio a Silvio Berlusconi. Questi è per lui: «Il politico del secolo».

Chiedo scusa a don Gianni, con lui si finisce sempre a far prevalere il gossip deprezzando il suo percorso intellettuale.  Ha tenuto la cattedra di teologia dogmatica, con la sua vivacità ha liberato il voto dei cattolici e troncata la vedovanza degli ideali cattolici nella politica. La sua agorà era affollata da cittadini che discutevano, anche in subbuglio, e lui vaticinava il suo liberismo popolare. Non temeva nel 1960 la tracotanza dei portuali, i camalli con i ganci, ed era con Tambroni.

Senza vanteria ci spiega che lotta per il matrimonio delle città predicate da sant’Agostino, con sposi apparentemente inconciliabili.  La città di Dio e la città terrena, la città degli uomini giusti con la città degli uomini ingiusti, nella speranza di una conversione corale. Non importa se ricorrendo a mezzi mediatici impropri ed anche kitsch. Forte è il suo avvertimento contro l’ambiguità che sta regnando, contro il «mercato degli inganni, questa terra di nessuno è la terra dell’Anticristo». La salvezza? Le tradizioni cristiane, un ritorno dal sacro al mistico. La voce si fa roca, forse si commuove. E mi piace estendere il suo monito, quasi un anatema, contro il nichilismo, il relativismo.

Capitini parla del suo prossimo incontro con Giorgio La Pira, il sindaco di Firenze. Gli esporrà il suo progetto di una marcia per la pace, è infervorato. I saluti e l’invito per un cremino affogato nell’opima pasticceria attaccata al portone di Baget Bozzo. «A Satana la glicemia!», il vivace sfottò. Al commiato, quasi un mio presagio: «Albert attento con l’auto!». Invano. Una spolverata di vaghezza sull’incidente mortale. Il possibile zampino del Kgb per la sua denuncia dell’invasione sovietica in Ungheria e i discorsi a favore del Nobel a Pasternak.

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