Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio (Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

Nel novembre del 1966 Che Guevara entra in Bolivia con un documento falso. Si chiama Ramon Benitez, “comerciante”. Nella foto porta gli occhiali e non ha la barba. Il suo diario dettaglia subito le difficoltà: “Il flagello è infernale e ci obbliga a ripararci nell’amaca con la zanzariera. Tumaini ha comprato galline, tacchini… Le punture infettate della zanzare e delle zecche cominciano a formare delle piaghe.” Qualche scaramuccia e i soldati boliviani, inesperti, cadono come birilli. “… due giorni di estrazioni dentali mi hanno reso famoso come Fernando Cavadenti, alias Chaco.”

Ernesto Che Guevara pellegrino nella giungla amazzonica, a sfidare una natura impervia, ostile, ad oltre mille metri di altezza. Canaloni con vegetazione selvaggia, intricata e spinosa,  fiumi da attraversare. “Al principio della marcia mi è venuta una colica fortissima con vomito e diarrea. Me l’hanno bloccata con demerol.” Comanda un minuscolo drappello di improvvisati guerriglieri. Di loro scrive: “Nell’accampamento regna un’atmosfera di disfatta, un’impressione di caos. El Chino domanda cinquemila dollari al mese per sei mesi.” Alcuni di essi diserteranno. Perché si trova lì?

Lui è l’abile stratega della battaglia a Santa Clara vinta contro l’esercito del dittatore Fulcencio Batista, ed erano uno contro dieci. Con i trattori sradica i binari e fa deragliare il treno blindato. Con le molotov lo fa diventare un forno. Gli ufficiali vengono arrestati, i soldati semplici fraternizzano con i ribelli. L’entrata festosa e trionfante dei barbudos all’Avana. “Gracias Fidel!” Fidel ha dichiarato che finita la rivoluzione ritornerà a fare l’avvocato. E più avanti: “Elezioni? A cosa servono?”

La vittoria e il dopo penoso… Castro nomina Guevara comandante della fortezza militare La Cabaña. Il Che è procuratore militare e nei processi funge da accusatore. Processi farsa a tutti gli oppositori, una pura formalità. Sarà definito il macellaio di quel carcere mattatoio. Esecuzioni in massa: 381 soldati che si sono arresi all’Escambray sono fucilati. Nel vortice scompaiono anche combattenti e comandanti della Sierra Maestra. Progetta i famigerati campi di lavoro forzati. È il fautore delle domeniche di lavoro volontario. Rastrella gli studenti e chiunque sia per strada, li manda  nelle piantagioni a tagliare la canna da zucchero. Gli espropri, la collettivazzione delle terre. L’11 ottobre 1960 Julio Lobo, il re dello zucchero, dopo un invito perentorio di Guevara a collaborare, fugge a Miami lasciando tutte le sue ricchezze, compreso un El Greco e una ciocca di capelli di Napoleone. Tutto quello che ricorda l’America viene abolito, anche  Babbo Natale.

Guevara si addossa l’onere delle pagine sporche dell’instaurazione. Fidel Castro deve restare immacolato. In fondo il Che è uno straniero, è argentino.  Diventa ministro dell’industria. In quei tempi  sposa in seconde nozze Aleida March e ha tre figli. La monotonia della normalità, oltre all’asma che da sempre lo angustia, gli crea una sofferenza che forse riversa sugli altri.  Lui è il messia della lotta armata. Un santo laico, un  missionario che invece della croce impugna la carabina Winchester M2 con il caricatore da 30 colpi.

Guevara idealizza un continente governato da un governo socialista. A contrastarlo l’equivoco esistente delle dittature di sinistra e di destra equivalenti.  Marxismo, socialismo, liberismo, eccetera nei paesi sudamericani sono etichette neutre che chi va al potere si appiccica senza rispettare le diverse qualità. L’ideologia, un comodo paravento, un alibi per comandare. Questo un germe infido che infetta e potrebbe proliferare.

Otto anni dopo, ottobre del 1967. Il passato sono fotogrammi sbiaditi nella memoria…  Il gruppetto di guerriglieri si sposta nella vallata boscosa evitando le cime rocciose nude, le truppe regolari presidiano gli sbocchi e formano un cerchio che si restringe.

Ernesto Guevara è calato  in quell’imbroglio  a portare il Verbo della rivoluzione, di Cuba. Ma l’indirizzo è sbagliato. I contadini non aderiscono, non partecipano: “la base contadina non si muove”. Uno di loro,  Pedro, per 5mila pesos fa il Giuda. Neppure il partito comunista locale lo appoggia. E figuriamoci se lo zio Sam dopo Cuba si sarebbe fatto portar via un altro Stato. I sicari della Cia impartiranno il viatico. Un suicidio organizzato, e il regista riposa nel Palacio de la Revoluciòn, a l’Avana. La radio a onde corte data da Cuba non ha mai funzionato, le cartine sono imprecise, un segnale? Il Che un usa getta di Fidel? Usato per Cuba e gettato in Bolivia? Lui avrebbe preferito andare in Argentina, a casa sua, è stato Fidel a insistere. Adesso l’avventura è quasi alla fine e lui è pronto per l’appuntamento con la morte e la gloria. Nella lettera di addio ha rinunciato a tutte le cariche.

Diario: “Siamo partiti in 17 con una luna molto piccola e la marcia è stata molto pericolosa.” Chiedono informazioni a una vecchia incontrata sul percorso da fare, si sono persi. Le danno 50 pesos. Sono accerchiati da 1800 soldati senza via di scampo, lo conferma la Radio Cilena.  I militari vedono qualcosa muoversi nel folto della macchia e sparano. Avviene lo scontro. È ferito alle spalle, alle gambe, non riesce ad alzarsi. Un colpo gli ha scassato il fucile M 12, mitraglietta, giace impotente.  Lo raccolgono in una coperta e lo portano nel villaggio La Higueira. Non viene ospedalizzato con l’elicottero.

Nel ricovero provvisorio, ad un ufficiale che si china a interrogarlo molla uno schiaffo e un fiotto di parole astiose, sprezzanti.  Il presidente Barrientos impartisce l’ordine e il giorno dopo gli danno il colpo di grazia. Le mani amputate per il controllo delle impronte digitali.  È il 9 ottobre del 1967, il Che ha trentanove anni. Con malignità immaginiamo tanti sospiri di sollievo. Tra i sospirosi ci sono: Fidel malgrado la logorroica orazione funebre, il Krusciov dei missili riportati indietro, gli Yankees della figuraccia della Baia dei Porci.   Kennedy forse si sarebbe opposto all’omicidio per trarne altri vantaggi ma al suo posto c’è un melenso Johnson.

Il Che non è l’eroe romantico che abbiamo edificato. Glorifica l’odio, afferma che tutti gli imperialisti dai 15 anni in su devono essere uccisi. Il paredòn, il palo della fucilazione, è il suo totem.  Sul tavolaccio non è il modello del Mantegna! Però in lui c’è quel lievito che lo innalza. È nella schiera degli uomini che si ergono per un dipiù, donato loro dalla natura, che può essere speso nel bene o nel male. Uomini da storia.  Ma quella stessa integrità li rende fragili nel duello con i faccendieri,  i furbastri.  E questo è una compensazione, una beffarda nemesi della vita.

Ernesto Guevara. Liberiamolo dalle nostre cianfrusaglie sdolcinate, rendiamolo umano. Nel suo diario il suggerimento: “Giornata di rutti, peti, un vero concerto d’organo. Abbiamo cercato di digerire il maiale.” E fogli dopo: “Abbiamo mangiato una squisita fricassea di gallina col riso.”

Intorno agli anni cinquanta la famiglia Ertl arriva in Bolivia. Hans Ertl ha dovuto usare l’escamotage della ratline, la rotta dei topi,  per fuggire dalla Germania. Era compromesso con il nazismo a causa dei suoi documentari di propaganda, inneggianti al regime sconfitto. Ha con sé la figlia Monika quindicenne. Monika, seguendo le orme del padre, abbraccia cineprese e pellicole. Si sposa a La Paz.

Il matrimonio fallisce, allora si impegna nella vita sociale del Paese, fonda una casa per orfani. Malgrado la convivenza con i reduci tedeschi, ancora fedeli al credo uncinato, adora il Che. Sua sorella Benitez racconta: “come se fosse un Dio”. Infatti, una sua poesia: “La Bolivia ha già un Cristo./ Un Cristo con il suo fucile”. L’ uccisione del ribelle già immaginetta la sconvolge, per lei il colpevole è quell’omone in divisa che troneggia nelle foto accanto al cadavere del suo idolo. Si tratta di Roberto Quintanilla, capo dei servizi segreti. Questi, pochi anni dopo, è nominato  console ad Amburgo.

Il 1° Aprile 1971 Monica si fa ricevere da lui, elude la sua scorta,  e lo colpisce mortalmente con tre colpi di pistola. Quindi scappa lasciando la Colt Cobra 38 Special che si scoprirà appartenere a un editore italiano ormai  latitante. Monika rientra in Bolivia anche se conscia  del rischio, della taglia messa su di lei.   Incauta contatta Régis Debray, già sospettato di delazioni. Debray è uno scrittore della gauche francese  che gioca a fare il guerrigliero. Un mese prima della cattura del Che viene arrestato dai rangers boliviani.  Ammetterà che durante la detenzione è sceso a patti con le autorità, “un patto segreto”.  Il contenuto non si saprà mai. La condanna inflittagli nel susseguente processo sarà annullata dal consueto soccorso mediatico dei lacrimanti intellettuali europei, la congrega delle dame caritatevoli.

Monika vuol contattare Klaus Barbie, ex capo della Gestapo a Lyon, che chiamava familiarmente zio Klaus. Deve spiegarsi, cercare un accordo. Il colloquio se c’è stato non è andato come sperava, lei scompare e il suo corpo non sarà mai ritrovato. Questa storia e tante altre pur essendo notevoli e tragiche sono solo effetti collaterali, un depistaggio operato a danno del protagonista immolato dalla Storia. La figurina da aggiungere alla collezione.

Il capitalismo ingoia, metabolizza e mercifica tutto, anche i suoi avversari. Ed ecco l’icona CHE, oggetto pronto al consumo.  Una moltitudine di giovani fruitori degli agi capitalistici, ebbri dei suoi consumi, indossa  la maglietta con il fiero volto del Che. Si spupazza.  Sono i rivoluzionari dell’impotenza che fagocitano il nuovo gingillo. Nel monitor il soldatino Che Guevara di stagno a 39 €. Aggiungi al carrello… Non appena l’eco delle sue gesta si spegnerà e andrà in frigorifero il capitalismo ne produrrà uno nuovo per soddisfare la canea brulicante, in astinenza del fare di qualcuno.  Impera lo shopping compulsivo delle emozioni altrui.

Con la dovuta riverenza, l’inchino al globalismo, partecipiamo all’evoluzione sociale dei paesi sudamericani gettandogli le nostre scorie, le rimesse valutarie delle badanti. Ernesto Che Guevara questo non lo aveva previsto. Ah, lui con i suoi poveri resti nel mausoleo incrementa il boom turistico a Cuba.

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