Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Il superamento della metafisica oggettiva e sostanzialistica ha attratto l’attenzione dei pensatori maggiormente rinomati del buddhismo giapponese contemporaneo. Celebre è lo studio condotto da D.T. Suzuki sul raffronto tra la mistica eckhartiana e la mistica buddhista, dove il noto studioso, artefice della divulgazione dello Zen in Occidente, individuava in Eckhart l’unico pensatore in grado di tessere quel dialogo interreligioso imperniato sulla mutua fecondità di panikkariana memoria. Nello stesso solco tracciato da Suzuki si sono mossi Nishida, amico di Suzuki, e i suoi allievi, dando vita alla cosiddetta scuola di Kyōtō. Una delle cifre distintive dell’impostazione teoretica della scuola, al netto della varietà delle posizioni, è l’assoluta centralità del dialogo fra il buddhismo e il cristianesimo. Tutti, da Nishida Kitarō a Ueda Shizuteru, si sono confrontati con la mistica cristiana e, in particolare, con il pensiero di Meister Eckhart. Nel mistico tedesco hanno intravisto lo stesso a-teismo mistico e purificatore che caratterizza il buddhadharma. Ueda Shizuteru, in particolare, ha dedicato a Meister Eckhart numerosi studi, a partire dalla sua dissertazione di dottorato. Per Ueda Shizuteru, l’idea fondamentale del suo denkweg filosofico ed esistenziale consiste nel considerare l’auto-consapevolezza del soggetto, l’immersione nella profondità del sé, come l’atto col quale l’io coglie la sua seità come a-seità, la sua essenza come non-essenza. Quanto più si scava nell’intimo di sé, tanto più si scopre che quell’intimità è estraneità, che l’essere più proprio della soggettività è sconosciuto a se stesso, Grund che mostra a sé stesso la sua impossibilità di mostrarsi. L’autentica auto-trasparenza del soggetto è la rivelazione della sua opacità originaria. La luce, la luce dell’originario, è tenebra. È quanto indica il buddhismo con la dottrina dell’anātman ed è quanto rivela Eckhart quando designa l’anima spirituale come Grund der Seele. Lo scopo dell’uomo è quello di conoscere se stesso, e, conoscendo se stesso, di conoscere se stesso e Dio. Ma il divino che intride di sé l’anima è il suo Abisso, il suo mistero. Ueda Shizuteru sostiene che lo scopo della filosofia è quello di far emergere, dall’oblio della coscienza ordinaria, l’intrinseca «duplicità del mondo», il suo essere, proprio in quanto essere, Ni-ente, nulla della determinazione ontica dell’essere. Ueda Shizuteru utilizza la parola di Rilke, Offenheit, Aperto, per marcare semanticamente l’insondabilità che squarcia il velo del quotidiano, l’insostanzialità che scava da dentro gli enti, rivelandoli nella loro assoluta nudità. Eckhart, come i pensatori della scuola di Kyōtō, è riuscito a indicare la positività del nulla, ad additare, con la povertà della parola, quella povertà di spirito di cui abbiamo parlato, lo sfondo del nulla assoluto in cui il reale si staglia.
La via del distacco, percorsa e tracciata dal domenicano, come la via dello Zen, conduce dove non vi sono né io né tu. Il compito della negazione, di quella negazione operante nel distacco, è quello di trascendere la separazione, preservando, a un tempo, la differenza. Nel deserto, «senza tempo né luogo», verso il quale si incammina l’uomo distaccato, non si configura più un ego determinato in rapporto a un Dio-Ente altrettanto determinato. Nel chiarore oscuro del Nulla divino, oltrepassati l’ego e Dio, non è possibile separare l’indeterminatezza di questo fondo senza fondo – Ab-grund – dall’indeterminatezza, altrettanto infondata, del fondo dell’anima. Estinti l’ego e Dio nei modi, non resta più nulla da cercare. L’ultimo passo della filosofia è la sapienza del distacco nella quale l’anima e Dio rilucono di una medesima luce, di una luce che è tenebra.
Nel pometto Il grano di senape il maestro domenicano scrive: «allontana qualcosa e ogni nulla!/Lascia il luogo, lascia il tempo,/e anche le immagini!/Procedi senza strada sullo stretto sentiero e troverai la traccia del deserto.» Il distacco non solo deve negare tutte le immagini, tutti gli enti determinati, ma anche la negazione stessa, ossia deve distaccarsi dal suo stesso distaccarsi: «Foreste, monti, fiumi, in questo niente celati/ Foreste, monti, fiumi, in questo niente rivelati/D’inverno nevica, la primavera fiorisce/Né essere, né non essere/ neppure negazione» (Saisho). Questa poesia di Saisho, esponente dello Zen di cui si sono perdute le tracce, ci parla, con linguaggio diverso, di quella negatio negationis che costituisce il fulcro spirituale tanto della mistica speculativa quanto dello Zen. Il distacco non è la meta, l’Assoluto, il Nirvana, ma soltanto la via che conduce sulla sua soglia, negando tutto ciò che Assoluto non è. L’Assoluto non è né essere né non-essere, ma il mistero – Bashō lo chiama Nishida Kitarō, Vacuità Nishitani Keiji, Aperto Ueda Shizuteru – in cui essere e non-essere si relazionano vicendevolmente e nel quale il trascendimento, la via del distacco, sfuma: «neppure negazione». Solo quando cade anche l’ultima negazione, emerge lo splendore abissale della realtà. Quello splendore oscuro che brucia ogni brama e ogni sete.
Il risveglio, Satori, come ha scritto Nishitani nella sua opera maggiore, La religione e il nulla, si svela solo dopo aver attraversato il potere annichilente del dubbio radicale. Calandosi fino in fondo in esso, pervasi dall’angoscia, sperimentiamo la totale assenza di senso in cui sprofonda l’esserci delle cose, degli uomini e del mondo. È l’esperienza del nihil negativum. Ma, osserva il filosofo, è solo attraverso un atto supremo di negazione del senso, tanto radicale che si giunge ad esserne interamente consumati, che la liberazione dal negativo del nichilismo è possibile. Tale liberazione è definita dal filosofo «posizione della vacuità». La vacuità, diversamente dal niente negativo, è «il campo della rientificazione»: Ichtung. Il niente è l’assoluta negazione di tutto l’essere. La sua negatività è soltanto oppositiva. Siffatta negazione presenta una contraddizione in virtù della quale sembrerebbe non poter appartenere all’essere e, al contempo, non potersene separare. La posizione della vacuità, invece, non è la posizione di un’assoluta negazione, ma di una negazione che serba in sé una «Grande affermazione». La vacuità non è qualcosa che possa appartenere all’ambito dell’essere o del non-essere, ma l’abisso che ingloba ogni opposizione e ogni cosa e le compenetra. La vacuità è l’abisso dell’abisso del nulla, che «svuota sé stessa persino dalla prospettiva che la rappresenta come un qualche cosa vuota». La vacuità va intesa come l’insostanzialità e l’interdipendenza di tutte le cose, al quale si perviene soltanto attraverso il distacco dal dualismo soggetto-oggetto, per mezzo del superamento dell’opposizione tra verità assoluta – Nirvana – e verità relativa – samsara.
La vacuità non è l’aldilà, ma l’assoluto aldiquà: la desostanzializzazione dell’essere e dell’indebita entificazione del nulla. Nel versante della filosofia occidentale, Nishitani addita Eckhart come il maestro di una ontologia negativa capace di superare le contraddizioni del nichilismo e della metafisica oggettiva. Nell’interpretazione di Nishitani, infatti, Gottheit è il nulla assoluto in cui l’anima perde sé stessa, scoprendosi nulla nel Nulla. Ma tale esperienza non costituisce una fuga dalla realtà e dal mondo, ma una intuizione profonda che si realizza nel mondo, nella vita ordinaria. Lo Zen sottolinea come la comprensione della verità della realtà debba avvenire nel bel mezzo della vita quotidiana; la vacuità non è l’esperienza di una trascendenza radicale (ciò implicherebbe una sua oggettivazione), ma ciò che si rivela nell’espressione «niente a cui tenersi». In uno dei kōan concernenti la vacuità menzionati dal filosofo si trova una frase enigmatica: «maneggiare la vanga a mani vuote». Questa frase misteriosa rimanda all’a-dualità dell’esperienza della vacuità. Quando il lavoratore, il lavoro e la vanga sono tutt’uno, allora non c’è né vanga né lavoratore né lavoro. Insomma, è nella vita ordinaria, come ha mostrato Eckhart, che aleggia sempre nelle pagine di Nishitani, che l’uomo esperisce quella verità che non trova locazione in nessuna parola perché è ogni parola. Dire che la verità è vacuità o dire, come fa Eckhart, che la verità è «deserto», significa ribadire che l’ethos fondamentale dell’uomo è il distacco. L’uomo spoglio – ledic – e libero – vrî – è l’uomo che ha intuito, con l’anima e con il corpo, con l’interezza del suo essere, che la sua dimora è non-dimora; che l’atteggiamento lecito nei confronti del mistero abbacinante dell’esistenza è il lasciar-essere. Ueda Shizuteru e Nishitani Keiji hanno visto in Eckhart il maestro che insegna a congedarsi da tutte le cose. Chi ha visto il fondo di sé, sa di non essere né creatura né Dio. Ogni nome è superfluo di fronte alla nudità della realtà. Ma proprio quando cade ogni nome, l’uomo esiste veramente.