Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.

Né l’ambiente familiare e sociale in cui è nato e cresciuto, né le caratteristiche innate, talenti compresi, sono dati sui quali l’individuo possa esercitare una qualche forma di condizionamento. Anche il carattere, la determinazione, l’attitudine allo sforzo dipendono da circostanze favorevoli sottratti al controllo individuale.

La ricchezza, allora, esito ultimo delle doti naturali e dell’essere maturato in determinati contesti sociali, condizioni, queste, non ascrivibili ad alcun merito individuale, deve essere considerata un «bene comune» e quindi ridistribuita a favore dei meno fortunati, perché nati meno talentuosi e/o in situazioni sociali più svantaggiate. Questa soluzione è la più equa perché è quella che sarebbe scelta da ogni individuo qualora dovesse disegnare l’assetto di una società senza sapere in quale situazione familiare e sociale gli toccherà nascere e di quali talenti, capacità sarà dotato nel momento in cui verrà al mondo (il cosiddetto ‘velo d’ignoranza’).

Tale concezione della giustizia, proposta da John Rawls fin dal 1971 in A Theory of Justice (Teoria della giustizia nell’edizione italiana)[1], unanimemente riconosciuta come una delle pietre miliari della filosofia politica novecentesca, è stata, ricorda Luca Ricolfi nel suo La rivoluzione del merito (Rizzoli, 2023), oggetto anche di critiche. Il sociologo torinese sofferma la sua attenzione in modo particolare su quelle avanzate da Amartya Sen, pur grande estimatore del filosofo statunitense, nel suo The Idea of Justice (L’idea di giustizia nell’edizione italiana), del 2009[2]. Per l’economista e filosofo indiano, tra i limiti della teoria rawlsiana vi è l’impossibilità di dimostrare che nella situazione originaria caratterizzata dal velo d’ignoranza l’unica opzione scelta sarebbe quella di una configurazione istituzionale in cui le differenze di talenti e di origine sociale, vale a dire le disuguaglianze, operino per il bene dei più svantaggiati.

Ricolfi, però, non si limita ad accogliere le obiezioni di Sen appena citate. Sono le stesse premesse ‘antropologiche’ rawlsiane che rifiuta di accettare. Scrive infatti che «l’aspetto più paradossale e sconcertante della teoria della giustizia di Rawls» consiste nella circostanza che «se accettiamo il suo punto di vista, per cui nulla di ciò che facciamo, nel bene e nel male, è davvero imputabile a noi stessi, allora diventano sostanzialmente ingiustificati i più comuni sentimenti morali, sia positivi sia negativi: dalla riprovazione per chi fa il male, o non fa il proprio dovere, alla ammirazione per chi fa il bene, o eccelle nel proprio campo. […] Eppure quei semplici sentimenti morali, che conducono le persone comuni ad attribuire agli altri la responsabilità delle loro azioni, sono da sempre la linfa che circola in ogni sistema sociale non patologico. È tutto da dimostrare che possa esistere una società che, di tale linfa, possa tranquillamente fare a meno» (p. 52 dell’edizione digitale cui si riferiscono anche le note successive).

Ricolfi, quindi, sembra respingere la concezione di Rawls, secondo cui la distribuzione di talenti e ambienti sociali determinante il successo individuale, non essendo imputabile all’individuo che ne beneficia, rende quel successo ‘immeritato’, non perché sia scientificamente errata ma perché politicamente indesiderabile. Ma, ci domandiamo, la validità di una teoria, nella fattispecie l’inesistenza del merito, va giudicata in base alla sua coerenza interna o in base alle sue conseguenze sociali? Rawls non ritiene che dall’ammissione dell’insussistenza del merito derivi il collasso della società, Ricolfi invece sì e quindi, a suo avviso, l’esistenza del merito va ribadita, non rilevando in quale misura questa operazione possa essere scientificamente solida.

Vi è, in verità, chi ha adottato uno sguardo ancora più radicale di Rawls. Da ultimo, che molti altri lo hanno preceduto nella medesima impostazione, il neuroscienziato Robert Sapolsky, sulla scorta di decenni di ricerche sulle motivazioni biologiche del comportamento umano, nel suo ponderoso Determined del 2023 ha escluso radicalmente l’esistenza del libero arbitrio e quindi, necessariamente, della responsabilità individuale. «Mostratemi un neurone (o un cervello) – scrive provocatoriamente Sapolsky – che determini la genesi di un comportamento in maniera indipendente dalla somma degli eventi che riguardano il suo passato biologico e […] avrete dimostrato l’esistenza del libero arbitrio» (p. 25, dell’edizione italiana, dal titolo Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio). Tale dimostrazione è però impossibile, secondo Sapolsky, in quanto «le persone che siete, non [sono] altro che l’esito delle interazioni tra la biologia e l’ambiente che sono occorse in precedenza. Ovviamente, tutto ciò è fuori dal vostro controllo. Ogni influenza pregressa consegue, senza soluzione di continuità, dagli effetti indotti dalle precedenti. Pertanto, non c’è alcun punto, in tale sequenza, nel quale potete introdurre qualsivoglia libero arbitrio che influisca su quella dimensione biologica, ma non ne faccia parte» (ivi, p. 62).

All’approccio deterministico, altri[3] oppongono l’indeterminazione quantistica pur di non rinunciare al libero arbitrio, come ammette, pur criticandoli, lo stesso Sapolsky (ivi, pp. 257-302). Non appare allora condivisibile la tesi di Ricolfi secondo cui «l’alternativa fra determinismo e libero arbitrio» avrebbe «carattere metafisico» (Ricolfi, p. 75).

Per ammettere l’esistenza del merito, o della colpa, è necessario dimostrare l’esistenza del libero arbitrio. Da quest’impasse non è possibile svicolare. Schiere sempre più numerose di neuroscienziati ritengono di aver individuato nei fattori ereditari e genetici la causa dei comportamenti antisociali, recuperando, ovviamente aggiornandoli, indirizzi che risalgono alla neuropsicologia sviluppatasi a partire dall’Ottocento[4]. Il libero arbitrio appare così sempre di più feticcio, illusione, fantasma.

Senza libero arbitrio, però, non vi è responsabilità e senza responsabilità non vi è imputabilità. Tale ammissione, si potrebbe obiettare, sarebbe foriera di esiti sociali esiziali. Cosa accadrebbe mai alla tenuta sociale, difatti, se i giudici iniziassero ad assolvere serial killer, autori di femminicidi, pedofili e via dicendo, sostenendo che, non essendo certa l’esistenza del libero arbitrio, la colpevolezza dell’imputato non può essere dimostrata, come recita il codice di procedura penale, «al di là di ogni ragionevole dubbio»?

Una via d’uscita, in verità, Sapolsky la indica. Non perché soggettivamente responsabili di un crimine ma perché oggettivamente pericolosi, i rei dovrebbero essere tenuti separati, in modo più o meno rigido a seconda della loro pericolosità, dal resto della società. Similmente, aggiungiamo noi, i più capaci, tali non per merito proprio ma solo per una serie fortunata di circostanze biologiche e sociali, se chiamati a ridistribuire alla collettività parte di quanto guadagnato (che questo, come ammette lo stesso Ricolfi (p. 51), chiede Rawls, peraltro non sempre esplicitamente, nella ricordata A Theory of Justice: investimenti nell’istruzione e imposizione fiscale progressiva) , non potrebbero protestare la lesione di alcun diritto, a meno di ritenere che questo si possa fondare sulla assegnazione, fortuita, di doti naturali e dotazioni socio-culturali.

NOTE

[1] In Political Liberalism (Liberalismo politico, nell’edizione italiana), del 1993, Rawls compie peraltro alcune rettifiche, rispetto al precedente lavoro, nel tentativo di addivenire a una concezione della giustizia che possa essere accolta dalla pluralità delle dottrine religiose, filosofiche e morali, spesso incompatibili tra loro.

[2] Per una rassegna dei diversi rilievi critici, da quelli del sociologo Robert Nisbet e del filosofo politico Sheldon Wolin a quelli di Friedrich von Hayek e Robert Nozick, da quelli dei comunitaristi di diversa gradazione come Charles Taylor, Michael Sandel, Alasdair MacIntyre e Michael Walzer a quelli degli «egualitari della sorte» come Ronald Dworkin e John Roemer, si rinvia, oltre che allo studio di Ricolfi, a C. Marsonet, La società giusta secondo John Rawls (e alcuni suoi critici), in «Il Pensiero Storico», 26 Gennaio 2021 (https://ilpensierostorico.com/la-societa-giusta-secondo-john-rawls-e-alcuni-suoi-critici/).

[3] Sapolsky cita, tra gli altri, John Carew Eccles, premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1963, e il suo How the Self Controls Its Brain, pubblicato nel 1994 (e tradotto in italiano lo stesso anno).

[4] Cfr. E. Musumeci, Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Devianza, libero arbitrio, imputabilità tra antiche chimere ed inediti scenari, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 17-18.

Bibliografia

  1. J.C. Eccles, Come l’Io controlla il suo cervello, Rizzoli, Milano 1994
  2. J. Rawls, Liberalismo politico, Einaudi, Torino 2012
  3. J. Rawls, Teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2017
  4. L. Ricolfi, La rivoluzione del merito, Rizzoli, Milano 2023
  5. R. Sapolsky, Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio, Milano, Roi 2024
  6. A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori 2011

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