Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università degli Studi di Firenze. Membro della European Society for the History of Economic Thought (ESHET) e della Associazione Italiana per la Storia del pensiero economico (AISPE). Fa parte anche dell’Editorial Board della rivista «History of Economic Thought and Policy». Oltre a numerosi articoli e saggi su riviste nazionali ed internazionali, tra le sue pubblicazioni più recenti: Il pensiero dei padri costituenti: Ezio Vanoni(Il Sole 24 Ore, Milano 2013); Gli economisti e la costruzione dell'Europa(Editrice Apes, Roma 2019); A History of European Economic Thought (Routledge, London 2022).
Recensione a: Democrazie e riforme: una prospettiva sovranazionale. Scritti in onore di Sergio Fabbrini, a cura di M.G. Amadio Viceré e M. Brunazzo, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 257, € 25,00; S. Fabbrini, Nazionalismo 2.0. La sfida sovranista all’Europa integrata, Mondadori, Milano 2025, pp. 236, € 18,00; Id., A Federalist Alternative for European Governance. The European Union in Hard Times, Cambridge University Press, Cambridge 2025, pp. 253, € 32,76.
Tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025 sono apparsi tre volumi che riguardano Sergio Fabbrini. Il primo è un volume di scritti in suo onore curato dagli allievi Maria Giulia Amadio Viceré e Marco Brunazzo. Gli altri due sono opera dello stesso Fabbrini: uno, in italiano, sul nuovo nazionalismo, l’altro, in inglese, sull’ormai pluridecennale europeismo.
Nell’interpretazione di Fabbrini, nazionalismo e europeismo sono le due facce di una stessa medaglia che, ruotando sulla tavola della storia, oscura un lato a beneficio dell’altro. I volumi che qui presento intendono, complessivamente, mostrare la ragione sostanziale del correlato movimento e, soprattutto, veicolare una proposta per far risplendere l’appannato europeismo oscurando il luccicante nazionalismo. Presenterò in rapida sequenza i tre volumi per poi, nelle conclusioni, discutere la proposta di Fabbrini.
Lo scopo del primo volume è celebrare Sergio Fabbrini al termine del suo mandato di sei anni, avvenuto nel luglio del 2024, come Head del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma. Fabbrini ha anche fondato e diretto la Luiss School of Government dal 2009 al 2018 e la School of International Studies dell’Università di Trento dal 2006 al 2009. “La sua ricerca sui sistemi federali – scrivono i curatori nella Presentazione – ha consentito di riportare il federalismo nel dibattito scientifico degli studiosi di European Studies. La sua analisi della governance duale dell’Unione europea è pionieristica. Si trova a casa sua a Berkeley come ad Harvard, università dove ha svolto ricerca, oltre ad avere insegnato” (p. 9).
Il volume si articola in tre parti, precedute da una breve Presentazione e Introduzione dei due curatori. La prima parte, che si intitola Le democrazie, ospita saggi di Giancarlo Bosetti, Massimo Egidi, Marc Lazar, Leonardo Morlino, Michele Salvati e Enrico Letta. La seconda, intitolata Le riforme, raccoglie scritti di Stefano Ceccanti, Giuliano Amato, Luca Verzichelli, Mario Diani, Andrea Prencipe, Marcella Panucci e Alberto Orioli. La terza, dedicata a La prospettiva sovranazionale, contiene saggi di Marco Buti e Marcello Messori, Stefano Micossi, Maurizio Ferrara, Salvatore Vassallo, Paola Severino, Paola Paderni, Emma Marcegaglia, Marta Dassù e Roberto Menotti, Sabino Cassese. Chiude il volume un’appendice bibliografica di Sergio Fabbrini, “studioso di politica”. La nota dominante, come si vede, è il pluralismo: delle democrazie, delle riforme, della prospettiva sovranazionale. Nell’Introduzione i curatori forniscono la chiave di lettura: il riformismo, che Fabbrini esplora nelle sue molteplici dimensioni, oggi deve fare i conti con l’avanzato processo di integrazione europea: «L’Europa è il luogo in cui la trasformazione della sovranità nazionale ha raggiunto il suo esito più profondo. Come ama ripetere Fabbrini, l’integrazione europea ha trasformato gli Stati nazionali in Stati membri» (p. 13).
Lo scopo del secondo volume è mostrare la natura del moderno nazionalismo che, nella sua evoluzione, finisce per essere incompatibile col processo di integrazione europea. Il nazionalismo è un sentimento di appartenenza esclusiva ad una comunità territoriale, principalmente per ragioni etniche o civiche. Scrive Fabbrini: «Se il nazionalismo è un sentimento di appartenenza esclusiva ad una comunità territoriale, storicamente quel sentimento è stato motivato da ragioni etniche oppure civiche» (p. 5, corsivo nell’originale).
Il libro è articolato in tre parti: nella prima l’autore mostra come la governance dell’Unione Europea (UE) sia diventata nel tempo sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria, nella seconda come da un nazionalismo indipendentista, culminato nella Brexit, si sia passati ad un nazionalismo che, operando all’interno della UE, mira a restituire agli Stati nazionali parti della sovranità perduta e che può essere definito sovranismo o nazionalismo 2.0, nella terza, infine, si esaminano alcune conseguente macro-politiche del nuovo e dilagante nazionalismo, la principale delle quali è costituita dal fatto che il sovranismo corrode dall’interno la UE ed è perciò con essa incompatibile.
Fabbrini, per sostenere la sua tesi, offre una narrazione della storia dell’integrazione europea, in cui coglie tre cruciali momenti di svolta. Il primo è il fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED), avvenuto nel 1954. La CED era il tentativo di passare dal funzionalismo, e cioè da un’integrazione puramente economica, al federalismo e cioè ad una forma di unione politica federale con la creazione delle prime istituzioni di una democrazia sovranazionale: parlamento, governo e corte di giustizia. Fallito il tentativo, secondo Fabbrini, si torna sul sentiero funzionalista e il cammino europeo è segnato, da Roma a Maastricht, dalla costruzione di un grande mercato integrato sia pure nella prospettiva, come recitano i Trattati, di una “ever-closer union among the peoples of Europe”: «Fallito il progetto della CED nel 1954, l’integrazione dell’Europa ha assunto un carattere esclusivamente economico, a partire dai Trattati di Roma del 1957. Da allora fino ai Trattati di Maastricht del 1992, l’UE è divenuta un’unione sovranazionale, impegnata a costruire ciò che si rivelerà essere uno dei mercati più integrati del mondo» (p. 57). A Maastricht si verifica la terza svolta, con l’adozione di una governance duale, e cioè con la scelta di stabilire una sorta di diarchia tra Commissione e Parlamento – organi di una governance comunitaria o sovranazionale – e il Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo, sede del potere nazionale e quindi tipico organo di una governance intergovernativa.
A partire da Maastricht, secondo Fabbrini, cresce il potere del Consiglio Europeo e parallelamente o relativamente si riduce quello della Commissione e del Parlamento. L’Europa diventa cioè sempre più un’Unione intergovernativa: «A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, una differente unione è emersa, l’unione intergovernativa, per gestire le politiche strategiche dell’UE che, con quel Trattato, erano entrate nell’agenda europea» (p. 57).
Fabbrini indaga cause e conseguenze di quella cruciale scelta. Tra le cause annovera il nazionalismo, soprattutto quello franco-tedesco, che incarna la duplice e alternativa versione di un nazionalismo civico e etnico. Per i francesi l’autorità o sovranità, e quindi la democrazia, si esercita solo all’interno dello Stato e se non è possibile dar vita ad uno Stato sovranazionale allora occorre fare un’Europa intergovernativa: «Nella visione francese si è venuta così a consolidare l’idea che sia impensabile l’esercizio dell’autorità al di fuori della forma statale. Se non si può costruire lo stato sovranazionale, allora occorre preservare lo stato nazionale, perché del vuoto a-statale si alimentano i peggiori nemici dell’UE… Una volta riconosciuta la difficoltà a costruire uno stato europeo, buona parte dell’élite politica francese ha finito per ritenere preferibile costruire un’Europa intergovernativa, all’interno della quale il governo francese avrebbe potuto esercitare il suo inevitabile ruolo egemonico e contemporaneamente proteggere la democrazia nazionale» (p. 87). Parallelamente, i tedeschi sostengono che finché non si sarà formato un autentico popolo o demos europeo non potrà esserci una vera democrazia sovranazionale e il diritto comunitario non potrà prevalere su quello interno tedesco: «Nello stesso tempo, il concetto culturale di nazionalismo continua a essere alla base della visione tedesca che assume la preesistenza di un demos europeo come la condizione necessaria per democratizzare le istituzioni sovranazionali dell’UE (come il Parlamento europeo)» (p. 88).
Fabbrini coglie due principali conseguenze. La prima è intermedia: il nazionalismo, o meglio il sovranismo, contraddice l’assunto di Monnet, secondo cui l’Europa si forgia nelle crisi. Al tempo del nazionalismo, non è più così perché la gestione delle grandi e ravvicinate crisi (dei debiti sovrani, pandemica, russo-ucraina) è stata affidata al Consiglio Europeo e ha quindi rafforzato un’Europa intergovernativa diversa e lontana da quella (comunitaria) immaginata dai padri fondatori. La seconda è finale: il sovranismo, civico o etnico, è incompatibile con la costruzione di un’Europa politicamente unita. In Europa non potrà mai esserci né uno Stato (come auspicato dai francesi) né un popolo (come reclamato dai tedeschi). La ragione sostanziale è che l’Europa è abitata da popoli diversi con diverse identità culturali: «Non possiamo avere un demos europeo basato su una omogeneità culturale o etnica o addirittura linguistica. Al contrario, in Europa ci sono molti demoi… con differenti attitudini, memorie, linguaggi, fedi e altro ancora» (p. 90). Si tratta di una ricchezza, che va preservata: l’Europa può essere unita solo nella sua diversità riconoscendo che le molteplici identità culturali sono complementari e non alternative. Dunque, il sovranismo, che è monistico e esclusivo, è incompatibile con l’Europa, che è plurale e inclusiva.
Nella parte finale del libro, Fabbrini avanza una proposta per rilanciare la prospettiva dell’unità europea, che poi riprende e sviluppa nel terzo libro. Serve, secondo Fabbrini, un cambio di paradigma: si tratta di passare dall’idea, e dal progetto, di un’Europa che, a più velocità (multi-speed), va verso una stessa e unica direzione, che è poi la formazione di uno Stato federale (gli Stati Uniti d’Europa), a un’Europa a più livelli (multi-tiers) con al centro una Unione federale che è diversa dal tradizionale Stato federale ed è più conforme alla natura plurale dell’Europa.
Il tema, come dicevo, è ripreso e approfondito nel terzo libro pubblicato in inglese con Cambridge University Press. Lo scopo del volume è mostrare che il cambio di paradigma è necessario per uscire dalla trappola dell’immobilismo in cui l’Europa è caduta e, in fondo, per conciliare il duplice e desiderabile obiettivo dell’allargamento ad altri Paesi e del rafforzamento della governance interna. Sarebbe irrealistico pensare ad una federazione composta da 27, 30, 33 o 36 Stati membri, con il preponderante ruolo assunto dal Consiglio Europeo e col diritto di veto ancora vigente in rilevanti materie. La soluzione proposta da Fabbrini è un’Europa differenziata (multi-tiers) con al centro un’Unione (non uno Stato) federale.
Il volume è strutturato in sei capitoli che in parte, ma solo in parte, riprendono i temi trattati nel precedente testo, e che spaziano da un’analisi delle crisi multiple alla governance duale, alle conseguenze della guerra russo-ucraina, alla soluzione dell’integrazione differenziata. Fabbrini propone tre livelli di integrazione, aperti ma non gerarchici. Il primo è una Confederazione (Confederacy), composta dai 45 Paesi che, al momento, hanno aderito all’iniziativa del Presidente francese Emmanuel Macron di dar vita ad una Comunità Politica Europea per sviluppare relazioni di buon vicinato e, in prospettiva, di cooperazione economica e sociale. Il secondo è la Comunità (Community) dei 27 Stati membri della UE che partecipano al mercato interno e hanno l’euro come moneta comune (al momento sono 20 ma solo la Danimarca è esentata). Il terzo, il più avanzato, innovativo ma anche incerto, è l’Unione Federale (Federal Union) che pochi e volenterosi Paesi dovrebbero costituire.
Fabbrini, sulla base di una solida e sperimentata analisi comparativa, distingue tra Federazioni che nascono dalla “disaggregazione” di precedenti Stati unitari, per esempio Germania, Belgio, Austria, Canada e Australia, e Federazioni che scaturiscono dall’“aggregazione” di preesistenti Stati indipendenti, per esempio gli Stati Uniti e la Svizzera. Chiama le prime holding-together or by disaggregation federations e le seconde coming-together or by aggregation federations. Le prime corrispondono al tradizionale Stato federale in cui, come in Germania, esiste un solo popolo che si riconosce in una condivisa identità culturale e che attua una distribuzione verticale del potere tra centro e periferia. Nelle seconde, invece, vi è una frammentazione sia verticale che orizzontale della sovranità e manca un vero e unico governo con funzioni esecutive. Secondo Fabbrini, è questa seconda la veste giuridica che meglio si adatta al corpo europeo.
L’Unione Federale dovrebbe nascere con un patto costituente (constitutional pact o political compact) sottoscritto da pochi e volenterosi Paesi, al di fuori delle vincolanti procedure previste dai vigenti Trattati (e quindi con un nuovo trattato). L’Unione dovrebbe attivare una centralizzata politica fiscale, migratoria, estera e di difesa, intaccando ulteriormente la sovranità degli Stati nazionali nelle materie a cui essi sono più sensibili (le cosiddette core state power policies). L’Unione non dovrebbe, né potrebbe, creare un’identità europea sostitutiva di quelle nazionali. Ogni tentativo di individuare o rinverdire radici culturali è per Fabbrini dannoso. L’identità europea può crearla solo una Costituzione e può essere, di conseguenza, solo politica e aggiuntiva:
European pluralism can never be enclosed in a single cultural identity. The European identity must be political (thus open to everyone, such as the new immigrants with their own religious or cultural traditions, on the condition they accept its liberal-democratic foundations), while national and sub-national identities might continue to remain cultural (but not to the point of contradicting the political values of the European federation enshrined in its Political Compact). Political identity is inclusive, cultural identity is exclusive (p. 216).
In conclusione, l’Europa, secondo Fabbrini, rischia di trasformarsi da Unione sovra-nazionale in Unione inter-nazionale, da idealizzata Federazione a deludente Confederazione. La ragione sostanziale è che, dopo Maastricht, l’Unione, da un lato, si è allargata verso l’esterno e, dall’altro, si è indebolita all’interno. Occorre quindi un cambio di paradigma per passare da un’Europa a più velocità (diretta verso un’unica destinazione) a un’Europa a più livelli di integrazione, aperti ma non gerarchici. Si potrebbe anche dire, ma Fabbrini non usa questa espressione, un’Europa poliarchica.
L’opera di Fabbrini è sicuramente illuminante e permette di vedere in profondità molti aspetti della vicenda europea. L’Europa ha bisogno di passare al paradigma dell’integrazione differenziata per conciliare il duplice e vitale obiettivo dell’allargamento ad altri Paesi e dell’approfondimento della governance. I tre livelli o cerchi indicati sono quelli appropriati considerando che, dopo la Brexit, mercato e unione monetaria, che sostanzialmente coincidono, dispongono già di adeguati organi di governo (Commissione e Banca Centrale Europea). Resta la sfida più grande. Quali Paesi troveranno il coraggio e la forza per compiere il decisivo passo verso la costituzione di un’Unione Federale? Fabbrini sostiene che non è necessario, e che può essere anzi pericoloso, parlare di una identità culturale europea. Capisco e condivido ciò che vuole dire e cioè che sarebbe sufficiente una Costituzione, come del resto è già avvenuto nella storia degli Stati Uniti. Ma senza il riconoscimento di una comune identità europea, sia pure aggiuntiva, non regge nessuno dei tre immaginati anelli, come dimostra l’esperienza della Brexit. E senza il riconoscimento di una comune identità non sarà neppure possibile ipotizzare la stesura di una Costituzione istitutiva dell’Unione Federale.
In fondo, a pensarci bene, il paradigma dell’Europa a più livelli non è del tutto alternativo a quello dell’Europa a più velocità perché lo stesso Fabbrini contempla il passaggio dalla “Comunità” all’“Unione”. E, in fondo, lo stesso passaggio avevano immaginato i padri fondatori che, anche dopo il fallimento della CED, avevano visto nel mercato unico solo una tappa verso una compiuta Unione politica federale. In ogni caso, l’opera di Fabbrini resta una preziosa leva per rovesciare la medaglia e far risplendere l’europeismo.