Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a
G. Cerro (a cura di), L’eugenetica italiana e la Grande Guerra
ETS, Pisa 2017, pp. 230, € 22,00.
Questo volume contiene una raccolta di saggi, scritti da alcuni fra i protagonisti del vasto movimento eugenetico, sorto anche in Italia nella prima parte del Novecento, e dedicati a una questione assolutamente centrale per la loro disciplina: che ne sarebbe stato del patrimonio biologico della nazione, durante e, soprattutto, dopo la Grande Guerra? Ossia, dopo quell’evento che, fin dagli inizi, si manifestò come un vero e proprio cataclisma, per molti versi inedito, che coinvolse le esistenze dei singoli e dei popoli e che giunse a modificare, in maniera traumatica, la stessa vita psichica di sterminate masse di uomini. Di più, quali effetti avrebbe prodotto la diffusione, senza possibilità di controllo, dell’alcolismo o delle malattie veneree fra i soldati al fronte?
Chiunque si sia interessato alla storia dell’eugenetica italiana, studiando i lavori di Claudio Pogliano, Massimo Ciceri, Francesco Cassata o Claudia Mantovani fra gli altri, avrà sicuramente notato i frequenti riferimenti a questi saggi, di cui, appunto, Giovanni Cerro ha curato di recente la riedizione. Le figure di Agostino Gemelli, di Giuseppe Sergi o di Corrado Gini sono fin troppo note per aver bisogno di essere presentate. D’altra parte, si possono trovare in questo libro scritti di figure altrettanto importanti, anche se meno conosciute, del mondo medico italiano, come quella di Serafino Patellani – ginecologo che, fra l’altro, tenne il primo corso in Italia di eugenetica sociale, a Genova nel 1912-1913 – o come quella di Ferdinando Cazzamalli, fra gli alienisti di primo piano nel Servizio neuropsichiatrico militare durante la prima guerra mondiale e che operò per molti anni nell’ospedale psichiatrico di Como. A questo proposito, è subito interessante notare come un primo tema trasversale che spicca dalla lettura di questi testi, prodotti tutti (tranne quello di Gini, che è del 1922) durante il conflitto, sia appunto la particolare attenzione alle conseguenze che la guerra, con i suoi traumi, i suoi patemi e le sue privazioni, provocava sulle menti e sui nervi dei militari in primo luogo, ma, più in generale, di tutta la popolazione del Paese. Ad esempio, Giuseppe Sergi scriveva nel 1917: «Ma non è solo il combattente che soffre il fenomeno nervoso; la popolazione che rimane lontana dal campo ha ansie e traumi nervosi che non possono non influire sullo stato generale della vitalità e quindi della genesia. Tali condizioni sono aggravate dalla miseria, dalle difficoltà di avere la normale alimentazione, anche dalla qualità inferiore degli alimenti, come dalla terribile incertezza del domani» (p. 147).
Eccoci dunque a un’altra questione essenziale, strettamente collegata alla prima: come sarebbero stati i “figli della guerra”? Quali colpi avrebbe subito il corredo biologico delle nuove generazioni, concepite durante o subito dopo la guerra? In generale, quasi tutti gli esponenti del movimento eugenetico italiano erano concordi nel prevedere danni notevolissimi, se non irreparabili, alla salute della stirpe. La Guerra Europea, la “guerra totale” scoppiata nel 1914, era, anche da questo punto di vista, incomparabile con ogni altra precedente. Il tipo di armamenti utilizzati, così come l’enorme numero di uomini coinvolti (e i più giovani e forti di ogni nazione in primo luogo), avrebbero avuto senza dubbio drammatici effetti disgenici.
Ad eccezione del già citato Gini, il quale avrebbe contestato le conclusioni più o meno catastrofiche di tanti scienziati italiani, tutti vedevano nella guerra moderna un terribile meccanismo distruttivo, che avrebbe compromesso il futuro eugenetico tanto dei vincitori quanto dei vinti. Il nuovo modello di fare la guerra non sapeva più avere, come invece nel passato, alcuna funzione selettiva, acquisendo, in questo senso, addirittura un ruolo “antinaturale”: le mitragliatrici e i gas asfissianti uccidevano a caso, senza consentire la distinzione dei migliori. Chi avrebbe potuto, quindi, contribuire a ripopolare paesi sfiniti e decimati? Citiamo un passo da Eugenetica e guerra di Serafino Patellani: «Così a preparare le generazioni future provvederanno dapprima i vecchi o i maturi e i deformi e gl’inabili rimasti nelle loro case, e poi i mutilati, i convalescenti per ferite o per malattie, gli uomini che per un momento furono colpiti da esaltazione omicida, i prigionieri di ritorno dai campi di concentrazione o delle fortezze nemiche, gl’individui provati forse dalla lue o da forme veneree, i più vili che più facilmente si sottraggono agli obblighi di leva e che, con sottili accortezze, che i generosi non conoscono o disdegnano, sanno sfuggire alla morte» (p. 102).
In sintesi, la Grande Guerra vide fra gli eugenisti l’esplodere di un vero e proprio allarme per gli effetti degenerogeni del conflitto. La teoria della degenerazione, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, aveva occupato le riflessioni preoccupate di psichiatri, antropologi, sociologi e statistici di ogni nazione e il portato di quelle idee era giunto intatto fino agli anni della Grande Guerra. Dunque, la grande maggioranza del movimento eugenetico italiano vedeva nella guerra una sciagura anzitutto dal punto di vista biologico, anche se, ovviamente, c’erano diversità di giudizio circa le cause e le possibili soluzioni. Come è noto, in Italia, teorie radicali di eugenetica negativa (volte a impedire ai «carati», ai degenerati di riprodursi) non trovarono mai il favore del mondo scientifico, prevalendo, invece, posizioni più moderate. In questo senso, è molto significativo il testo qui ripubblicato di padre Agostino Gemelli. In esso, lo scienziato francescano ribadiva, da una parte, la diffusa preoccupazione per gli effetti della guerra sulla quantità e sulla qualità delle popolazioni che ne sarebbero uscite, ma, dall’altra parte, esitava ed, anzi, negava che la guerra in si potesse essere considerata come la causa esclusiva o preponderante di una diminuzione della natalità. La vera causa per Gemelli stava, infatti, altrove. La guerra contribuiva, sì, e non poco, a far peggiorare la razza, ma il vero problema era lo stile di vita, tenuto tanto dagli uomini quanto dalle donne, nella società moderna, sempre meno aderente ai modelli tradizionali e ai valori cristiani: inutile pretendere da donne, che hanno una concezione materialistica della vita, che rinuncino al loro benessere, per assumere i pesi e i dolori della maternità; è inutile predicare a coloro che conducono una vita contraria ad ogni principio morale, per persuaderli del dovere di dare alla nazione e alla religione figli e figli sani e onesti. Bisogna prima combattere le cause della immoralità, bisogna prima combattere l’ignoranza, bisogna prima mutare le basi della società» (p. 185).
La questione della natalità e della (presunta) sterilità indotta dalla guerra sarebbe rimasta ben presente nelle menti di tanti eugenisti italiani ben oltre il dopoguerra, fino a quando cioè il fascismo scelse la via della crescita demografica e del popolazionismo. La posizione, dapprima minoritaria di Gini circa l’assenza di una correlazione dimostrabile fra guerra, calo demografico e danni eugenetici, sarebbe diventata allora preponderante e, anzi, vincolante per tutti.