Lucano classe 1998, è laureato magistrale in "Master in European History" alla Université Paris Cité (ex Diderot) e allo University College Dublin. Dopo un doppio titolo di laurea triennale in archeologia e storia dell'arte - beni culturali, fra Matera e la Sorbona di Parigi, si è consacrato allo studio del processo di costruzione delle identità nazionali nella Francia postrivoluzionaria. Adotta un approccio internazionale e interdisciplinare, volto a studiare parallelamente le circolazioni intellettuali e l'influenza dei paradigmi ideologici sui discorsi storico-politici e sulle arti. Le sue ricerche storiche si inseriscono principalmente nella tradizione della storia delle idee e delle rappresentazioni.

Con la progressiva caduta, a partire formalmente dal 1789, dell’ancien régime, o quantomeno dei fondamenti sacrali e metapolitici che lo avevano sorretto per secoli, in Europa s’aprono nuovi scenari per gli uomini che attraversano i secoli XVIII e XIX. Il XIX secolo, momento di elaborazione di molteplici ideologie fra le quali il liberalismo politico, i nazionalismi e i socialismi (fra le altre), viene quindi a ragione definito dallo storico francese Emmanuel Fureix il “secolo dei possibili”[1].

Il dispiegamento dei possibili s’attualizza col venir meno delle certezze dell’ancien régime, di modo che, usando le categorie dello storico tedesco Koselleck, il pronostico del futuro e dei regimi politici a venire – quasi sempre azzardato – sostituisce la profezia. All’apertura di nuovi orizzonti ideali s’affianca la scoperta di “nuovi lidi” nel contesto coloniale, che va di pari passo con lo sviluppo economico (a trazione inglese) e della tecnica, soprattutto dell’industria. Un sunto quanto mai efficace di quanto finora esposto si può trovare in un estratto de De la démocratie en Amérique (1835-1840), in cui Tocqueville esprime la radicale instabilità del suo tempo come segue:

I poteri della società sono tutti più o meno fugaci, al pari dei nostri anni sulla terra […]. L’agitazione e l’instabilità sono proprie delle repubbliche democratiche, così come l’immobilismo e il sonno fondano la legge delle monarchie assolute[2].

Questa condizione politica e sociale tocca senz’altro la sfera intima e spirituale dei poeti e dei letterati dell’epoca, che assistono al venir meno delle certezze d’un tempo. Uno dei componimenti poetici italiani che più risentono dell’insieme dei temi finora evocati è proprio la Palinodia al marchese Gino Capponi di Giacomo Leopardi. Il testo, pubblicato nell’edizione napoletana dei Canti nel 1835, permette di riflettere sulle principali evoluzioni dell’Europa liberale e ottimista del tempo, con lo sguardo acuto e stavolta propriamente disincantato del poeta recanatese. Il componimento, dal tono critico e satirico, fa manifestamente riferimento alla “età dell’oro” (v. 99) che sorge, che non è certo la “goldnen Zeit” evocata, in senso profondamente spirituale, da Novalis nel XIV dei Canti Spirituali.

Rivolta al marchese toscano Gino Capponi per prendere di mira i liberali, e in particolare i circoli cattolico-liberali italiani, la Palinodia offre a Leopardi l’occasione per esprimersi su temi quali il liberalismo, il liberismo, il ruolo della stampa, l’instabilità sociale e politica, la fiducia nel progresso della tecnica e, sopratutto, sulla natura umana, che fa sempre e comunque da sfondo. Creando da subito una distanza fra sé stesso, emarginato e deriso dai suoi contemporanei per via della sua presunta incapacità di godere dei “piaceri” del suo tempo, e i salotti liberali vivaci e incensati dal fumo dei sigari, Leopardi «mette in scena»[3] il suo tempo, rappresentandolo a mo’ di quadro. La distanza che s’interpone fra l’opera e lo spettatore permette quindi d’avere una prospettiva quasi a volo d’uccello sul tempo dell’Autore, che pare appunto non volere compromettersi con l’oggetto dell’opera.

Quanto alla democratizzazione della società, e al più generale diffondersi delle condizioni d’uguaglianza che emergevano dalla caduta dei regimi feudali, Tocqueville vide in tale andamento delle cose l’inarrestabile marcia della Provvidenza [4]. Per l’attento osservatore francese, che scorse nella società americana uno dei più dinamici laboratori politici e sociali del suo tempo, non era tanto importante mettere in questione l’andamento generale della società, oramai inarrestabile, quanto era piuttosto necessario far maturare la democrazia, purificarne i costumi e sottomettere alla ragione i ciechi istinti [5] – e non è un caso che a scrivere ciò fu proprio un francese dopo le esperienze del Terrore e dell’Impero in Francia. A ciò s’affianca una presunta tendenza al livellamento insita alle società democratiche, che tenderebbero, secondo Tocqueville, a instaurare una maggiore uguaglianza tra sottoposti e padroni. Nella Palinodia, invece, Giacomo Leopardi punta direttamente ad una questione di principio, ovvero quella dell’indole umana nella gestione di «imperio e forze» (v. 77), alla quale tutti i progressi tecnici e tutti gli «scritti politici» (v. 85) non avrebbero potuto porre rimedio. Facendo eco alle crescenti conflittualità di classe, Leopardi asserisce che «sempre il buono in tristezza, il vile in festa» (v. 86) è la regola. In questa ottica, i potenti avrebbero abusato del proprio potere, e i più deboli lo avrebbero subito. La tendenza liberista di correlare l’espansione dei mercati e il diffondersi delle produzioni industriali all’accrescimento della felicità delle masse è quindi per Leopardi una menzogna, che avrebbe potuto alimentare un mondo di per sé bramoso di novità, ma che certo non avrebbe appagato gli animi.

Il susseguirsi incessante e spesso incoerente di mode, pensieri, merci e fedi è quindi un altro bersaglio del poeta recanatese. Anticipando l’invettiva di Ezra Pound nel Canto XLV contro un tempo durante il quale «non si dipinge per tenersi arte | in casa ma per vendere e vendere | presto e con profitto», Leopardi annota la «menstrua beltà» (v. 119) del mobilio degli appartamenti, che va costantemente cambiato e aggiornato. E non molto diversa è la connotazione della fedeltà alle idee e alle opinioni nella modernità dipinta dal Leopardi, che canzona la grande costanza con la quale «quel che ier deridea, prosteso adora | Oggi, e domani abbatterà» (v. 214-215). Giacché «nulla quaggiù dispiace e dura» (v. 25), per Leopardi  l’espressione più conforme a questo tipo di società è la stampa, quei «larghi fogli» (v. 35) che quasi fanno ironicamente vergognare il poeta del suo «studio matto e disperatissimo». Se per Tocqueville la stampa interviene per salvare il cittadino dai soprusi ch’egli può subire nello stato democratico, a tal punto da essere definita «uno dei migliori correttivi»[6] della democrazia pochi anni dopo la condanna del liberalismo e della stampa da parte di papa Gregorio XVI, Leopardi si mostra molto più scettico rispetto alla sconsiderata propaganda della “felicità” che ivi ha luogo. La stampa si presta effettivamente a propagandare la presunta felicità che emanerebbe dai nuovi prodotti, dalle nuove idee e anche dai nuovi orizzonti geografici che si dispiegano fra imprese coloniali e commerci globali in tempo di Pax Britannica.

Dietro un apparente «universale amore» (v. 42), di matrice illuminista, e un progresso industriale ed economico simboleggiato dalla inaugurazione delle prime linee ferroviarie in Inghilterra, si celano quindi nuove forme di sfruttamento, di opportunismo e anche di malattie (vedasi il riferimento al choléra, v. 44). L’allusione all’unione dei popoli nell’ambito di una delle prime forme di globalizzazione, satiricamente paragonata al Saeculum Aureum imperiale, viene quindi esplicitata con l’enumerazione di diversi luoghi, ormai comunicanti, che vanno dalla Cina al Nilo, fino a giungere al «di là del mar d’Atlante»  (v. 64).

Per rispondere alle grandi sfide del “secolo aureo”, e per soddisfare quindi i bisogni di cotanta gente sparsa in ogni continente, il fiore della gioventù liberale doveva quindi istruirsi nei «severi economici studi» (v. 233-234), imparando a svolgere tutte quelle attività che Leopardi descrive in modo appositamente prosaico. L’ironia rivolta alla moda del sapere statistico, incarnata anche da Gino Capponi, s’esplicita con l’evocazione di «quando per lunghi | Studi fia noto […] | Quanto peso di sal, quanto di carni | E quante moggia di farina inghiotta | Il patrio borgo in ciascun mese» (v. 138-143). Leopardi, qui con atteggiamento da vero romantico, si disimpegna rispetto a tali studi, poiché sa che ai crescenti pubblici bisogni «provveggono i mercati e le officine | Già largamente» (v. 254-255); lui piuttosto si limita ad attendere l’attualizzarsi della tanto decantata Felicità che tutta questa industria avrebbe, secondo i suoi sostenitori, portato. Eppure, Leopardi non capisce perché il secolo XIX dovrebbe implicare un così radicale cambiamento della natura umana rispetto al X o al IX, giacché, e qui si rivela la tendenza pessimistica del pensiero del poeta, la natura dell’animo umano è atemporale. Questa, secondo il poeta, porta l’uomo a costruire per distruggere, al fine di riprendere nuovamente con lo stesso ciclo, senza riposo. Permangono poi, oltre alla realtà storica della elevata mortalità infantile e nonostante i progressi della tecnica, anche le invitte e temute compagne di vita dell’uomo: «Vecchiezza e morte» (v. 183).

Leopardi, che pure aveva serbato in sé un barlume di speranza per un tempo aureo da ritrovare nel passato o nel futuro dell’umanità, avrebbe forse apprezzato una acuta formulazione di Tocqueville sul carattere delle società democratiche. L’osservatore francese, che comunque era rimasto cauto nel pronosticare le sorti della democrazia temendo che in essa potesse celarsi un carattere dispotico, descrive le principali differenze fra società democratiche e società aristocratiche nei seguenti termini:

Se la ragione vi sembra più profittevole per gli uomini rispetto al genio; se il vostro obiettivo non è per niente quello di creare virtù eroiche, ma piuttosto delle abitudini piacevoli; […] se, invece di agire in seno a una società brillante, vi basta vivere in una società prospera; […] allora rendete eguali le condizioni e costituite il governo della democrazia[7].

Leopardi invece, con una intonazione decisamente sarcastica, preferisce lasciare ai liberali dalla barba rigogliosa la gestione degli affari pubblici, per i quali tanto avevano studiato, e la redazione delle gazzette per il «civil gregge» (v. 207).

NOTE

[1] E. Fureix, Le siècle des possibles (1814-1914), Presses Universitaires de France, Paris 2014.

[2] A. De Tocqueville, Alexis de, De la démocratie en Amérique, Éditions Flammarion, Paris 1835-1840 (2010), pp. 112-113.

[3] F. Ceragioli, Palinodia al marchese Gino Capponi. Leopardi distrugge il mito del secolo d’oro, in P. Abbrugiati (dir.), Le mythe repensé dans l’œuvre de Giacomo Leopardi, Presses Universitaires de Provence, Aix-en-Provence 2016,  https://books.openedition.org/pup/11291?lang=it (consultato in data 02/05/2023).

[4] A. de TOCQUEVILLE, op. cit., p 37.

[5] Ivi., p. 38.

[6] Ivi, p. 264.

[7] Ivi, p. 88.

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