Damiano Bondi (1985) è dottore di ricerca in filosofia. Attualmente è assegnista di ricerca di Filosofia morale presso il Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università degli Studi di Urbino. Svolge anche attività di ricerca presso la Fondazione Centro Studi Campostrini di Verona. Tra le sue pubblicazioni: La persona e l'Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont (Milano, 2014); Fine del mondo o fine dell'uomo? Saggio su Ecologia e Religione (Verona, 2015); Etica per la persona. Natura, libertà, felicità (Milano, 2023).

3. Per la pace provvisoria

Denis de Rougemont, sottolineando proprio alcune analogie tra il fenomeno bellico e il fenomeno erotico in Occidente, scrive che «la guerra totale comporta la distruzione di tutte le forme convenzionali della lotta. Dal 1920 in poi, non ci si sottometterà più alle “imposture diplomatiche” dell’ultimatum e della “dichiarazione” di guerra. Ne consegue che la sconfitta di un paese non sarà più simbolica, metaforica, cioè limitata a certi segni convenuti, ma sarà concretamente la morte di quel paese. Da quando fu abbandonata l’idea di regole, la guerra non significa più l’atto della violazione sul piano internazionale, bensì l’atto del delitto sadico, il possesso d’una vittima morta, quindi, in realtà, il non-possesso»[1].

Quando Hitler entra in Austria nel 1938, non dichiara alcuna guerra: dice di voler compiere non un’aggressione di uno Stato sovrano, ma un’annessione (Anschluss). Quando entra in Polonia l’anno successivo, dice al Reichstag che «lo stato polacco ha rifiutato la soluzione pacifica che desideravo, e ha fatto appello alle armi […] Per porre fine a questa follia, d’ora in poi, non ho altra scelta che affrontare la forza con la forza». Anche lui, come già i generali del primo conflitto mondiale, giustifica questi atti come una risposta “doverosa” alle ingiustizie perpetrate contro il suo popolo e alle minacce ricevute, ma, a differenza dei suoi predecessori, non si assume la responsabilità formale di dichiarare guerra, cioè di dichiararsi aggressore.

Allo stesso modo, quando la Russia ha attaccato l’Ucraina il 24 febbraio 2022, Putin ha definito l’invasione un’«operazione militare speciale» inevitabile, giacché «non ci è stata lasciata altra opzione per proteggere la Russia e il nostro popolo». Ma non si creda che questa attitudine si registri solo nel caso di paesi dittatoriali o tendenzialmente tali; quando, ad esempio, gli Americani hanno invaso l’Iraq nel marzo 2003 non hanno rilasciato alcuna dichiarazione di guerra.

Del resto, il processo di de-istituzionalizzazione della guerra è stato paradossalmente rafforzato con lo Statuto dell’ONU del 1945, o con le Costituzioni nazionali redatte o riscritte o modificate a partire da quell’anno, in cui la guerra è stata dichiarata ripudiata e inammissibile se non per strettissime ragioni di difesa. Si tratta dell’applicazione, ancora una volta, di un principio che troviamo già espresso da Kant: nel III articolo della I sezione di Per la pace perpetua si legge infatti che, mentre gli eserciti permanenti (miles perpetuus) dovrebbero essere via via smantellati, tuttavia sarebbe lecito «l’esercitarsi volontario e periodico dei cittadini alle armi, per agguerrirsi a difender la patria dalle aggressioni». L’unica guerra che può dirsi “giusta”, in questa accezione, è quella di difesa. A ben vedere, si tratta di una massima della ragion pratica politica che risponde al criterio kantiano dell’universalizzabilità, e che porterebbe alla pace perpetua: infatti, se tutti accettassero di fare la guerra solo per difendersi, allora la guerra cesserebbe di esistere.

Tuttavia, ciò che Kant non aveva compreso, e che Clausewitz in parte sì, è che ogni guerra è fatta, nelle intenzioni di chi la fa, “solo” per difendersi. La guerra esiste sempre come risposta a un’aggressione reale o percepita. Ha “cominciato” sempre qualcun altro, la responsabilità è sempre altrui. Questo è il senso profondo della tesi apparentemente paradossale di Clausewitz, secondo cui «se ricerchiamo filosoficamente l’origine della guerra, non è nell’attacco che vediamo sbocciarne il concetto, poiché esso non ha per scopo assoluto la lotta […] ma ha invece origine nella difesa, poiché essa ha per scopo assoluto la lotta»[2]. Non si tratta tanto di ipotizzare la possibilità di un attacco puro e “innocente” dalle tonalità nietzscheane, quanto di intuire che, al di sotto della convenzione della “dichiarazione di guerra” ancora vigente nell’Ottocento (la quale permetteva di individuare formalmente un “attaccante” e un “difensore”), risiede la “concezione profonda” della guerra come reciprocità violenta. È in questo senso che Clausewitz profetizza che la guerra stia “adeguandosi” al suo concetto, che è come dire che sta diventando totale, priva di freni e convenzioni.

«Ci troviamo di fronte – scrive Girard – a una scoperta antropologica della massima importanza: l’aggressione non esiste. […] Se nessuno tra gli esseri umani prova la sensazione di aggredire è perché tutto si svolge sempre nella reciprocità, dove la minima differenza, in un senso o nell’altro, può provocare una tendenza all’estremo. L’aggressore è già stato aggredito, sempre. Perché i rapporti di rivalità non sono mai avvertiti come simmetrici? Perché le persone hanno regolarmente l’impressione che sia stato l’altro ad attaccare per primo, che non siano mai loro a farlo, quando invece, in un certo senso, sono sempre loro a incominciare»[3].

Siamo così giunti ad un punto fondamentale: la guerra classica era un sofisticato rituale violento che aveva come scopo anche quello di tenere a freno la violenza reciproca al suo stato “puro” e dilagante, la quale è venuta infine allo scoperto con le guerre totali del Novecento.

Jean Guitton è assolutamente lucido in proposito:

la totalità trasforma profondamente la nozione che si aveva fin qui della “guerra”. Si può dire che, dalle origini della civiltà fino a queste ultime guerre, […] si ricorreva a una convezione che consisteva nell’armare, in un campo e nell’altro, una parte della popolazione maschile […] e nel decretare che la sorte del combattimento avrebbe indicato il vinto […] Dopo la Rivoluzione Francese, si era esteso il numero dei combattenti, che diventavano l’intera nazione. L’intensità dei conflitti era aumentata. […] Ma la guerra finiva con un “armistizio”, seguito da un trattato, e ricominciava la “pace tra i vincitori e i vinti”. La guerra rimaneva sottomessa a convenzioni che ne segnavano l’inizio e la fine. […] Questo concetto della guerra parentetica e convenzionale supponeva, tra le nazioni in conflitto, l’esistenza di valori e credenze comuni, che si esprimevano con leggi e riti. E il rito supremo era far agire la forza pura, per un tempo limitato, e supporre che questa forza fosse giusta. È l’antica concezione. Ma, in un mondo senza credenze e senza valori comunemente ammessi, la guerra rischia di diventare un fenomeno sregolato, senza inizio “dichiarato”, senza termine significato, senza controllo e senza leggi[4].

Come è possibile fare la pace, se “nessuno” fa più la guerra? La pace non sarà allora pensabile se non come il doppio mimetico della guerra totale, ossia nella sua accezione eterna e perpetua, la quale però, come la guerra totale, finisce o per far esaurire semanticamente il proprio concetto, senza più significare niente, o per significare l’esaurimento del genere umano.

La pace perpetua come epitaffio della storia. D’altronde, ricordiamolo, lo scritto kantiano deve il suo titolo al fantomatico nome di una locanda olandese, «Alla Pace Perpetua» (Zum ewigen Frieden/À la Paix Perpétuelle), la cui insegna ironicamente raffigurava un cimitero[5].

Nell’era atomica che si è aperta mezzo secolo fa, questa accezione tanatologica della pace perpetua dismette i panni dell’apocalittica classica o della satira intellettuale, e diventa una conseguenza possibile di un conflitto assoluto e veramente finale in un prossimo futuro, sostituendo così l’ideale di una redenzione intra-mondana con una reale probabilità di distruzione fisica del genere umano.

Ecco perché ci sembra sensato tornare a pensare, e a invocare, una più modesta ma forse non meno impegnativa pace temporanea, limitata nel tempo e nello spazio, come le nostre vite.

(fine terza ed ultima parte)

[11 D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, Plon, Paris 1972³, tr. it. L’Amore e l’Occidente, Bur, Milano 2006, p. 325.

[2] C. von Clausewitz, Vom Kriege, 1832, tr. it. cit., p. 473.

[3] R. Girard, Achever Clausewitz, Carnets Nord, Paris 2007, tr. it. Portando Clausewitz all’estremo, Adelphi, Milano 2008, p. 49, corsivo mio.

[4] J. Guitton, La Pensée et la Guerre, tr. it. cit., pp. 120-121. È ancora una volta Denis de Rougemont, in L’Amour et l’Occident (tr. it. cit., libro V), a ricostruire in maniera filosoficamente efficace le varie fasi dell’evoluzione della guerra in Occidente: si parte dalla cavalleria, in cui «il formalismo militare riveste un valore di assolutismo religioso», e si passa poi attraverso l’epoca dei condottieri, ove «la guerra stessa si era come civilizzata»; l’epoca dei cannoni, con cui nasce la guerra moderna sotto il segno dell’artiglieria e del massacro dei civili; la guerra dei secoli XVI e XVII, in cui vige lo «sforzo di ridare uno stile all’istinto malgrado l’intervento di fattori disumani», e dunque di «fare la guerra uccidendo il minor numero possibile di uomini»; la “guerra in merletti” del Settecento, in cui questa tendenza giunge al suo apice trasformando i conflitti unicamente in tattiche e regole, fino al punto di pensare di comprare l’esercito nemico per evitare lo scontro diretto (come propose Law); le guerre rivoluzionarie e poi quelle nazionali dell’Ottocento, in cui si riaccende la passione della violenza sul piano collettivo («che altro è la revanche se non un sentimentalismo nazionale?») legandosi però al fattore economico capitalistico; infine si arriva alla guerra totale del Novecento, che «non è più una violazione, ma un assassinio dell’oggetto concupito e ostile, che distrugge l’oggetto in luogo d’impossessarsene […] la guerra totale sfugge all’uomo e all’istinto. Ed è questo che è nuovo nella storia del mondo».

[5] Kant lo specifica nel Prologo dell’opera, e probabilmente ha tratto questo apologo da Leibniz. Cfr. M. Duchuin, Alla pace del cimitero: la recezione settecentesca di «Zum ewigen Frieden» e le fonti nascoste di un topos kantiano, in «Diciottesimo secolo», 2, 2017, pp. 45–75, https://doi.org/10.13128/ds-20620. René Girard, nello scritto che qui principalmente tratteremo, ironizza parimenti sulla «pace perpetua» dei cimiteri (ma non è chiaro se consapevole o no del riferimento originario dello scritto kantiano): R. Girard, Achever Clausewitz, Carnets Nord, Paris 2007, tr. it. Portando Clausewitz all’estremo, Adelphi, Milano 2008, p. 51.

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