Damiano Bondi (1985) è dottore di ricerca in filosofia. Attualmente è assegnista di ricerca di Filosofia morale presso il Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università degli Studi di Urbino. Svolge anche attività di ricerca presso la Fondazione Centro Studi Campostrini di Verona. Tra le sue pubblicazioni: La persona e l'Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont (Milano, 2014); Fine del mondo o fine dell'uomo? Saggio su Ecologia e Religione (Verona, 2015); Etica per la persona. Natura, libertà, felicità (Milano, 2023).

 1. La guerra vigliacca

La tesi che vorrei sostenere è che la guerra non esiste più come istituzione sociale determinata: l’epoca che va dalla pace perpetua di Kant ai movimenti pacifisti del secondo Novecento coincide con quella della deflagrazione non soltanto di guerre sempre più totali, ma del concetto stesso di “guerra”, che è come imploso su sé stesso al suo apice, compiendo la propria parabola storica con le due guerre mondiali.

È una tesi a prima vista paradossale, che cozza con la doccia fredda di realismo e disillusione che abbiamo vissuto tutti noi europei quando l’esercito russo di Putin ha invaso l’Ucraina, nel febbraio 2022. Fino ad allora si poteva sottolineare che la guerra stava diventando qualcos’altro rispetto alla sua forma classica, comprovando questa idea con il rilievo che sempre più tendiamo ad accompagnare il termine “guerra” con un attributo che ne chiarisca il carattere “analogo” rispetto alla guerra standard – “guerra fredda”, “guerra mondiale a pezzi”, “guerra civile”, “cyberguerra”, “guerra delle informazioni”… niente sembrava più guerra in senso proprio, e quindi, in un apparente paradosso, tutto poteva essere “diversamente bellico”, persino uno stato di pace, che è sempre determinato da tensioni e minacce di instabilità. La guerra si annullava nel suo assolutizzarsi. La celebre massima clausewitziana per cui «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi»[1] si poteva dunque facilmente rovesciare, affermando che la politica non è altro che la continuazione della guerra con altri mezzi… non è forse in questo senso, in fondo, che parliamo di “guerra fredda”?

Eppure, contro questa tesi dal sapore di “fine della storia”, almeno in Europa, stiamo oggi vivendo un revival della guerra in senso stretto, da manuale di storia. Oppure no? Io ritengo di no. Certo, le conseguenze drammatiche del conflitto in ucraina non sono in alcun modo minori né diverse da quelle delle altre guerre, anzi la loro intensità è direttamente proporzionale alla capacità tecnica di distruzione delle armi impiegate e all’ampiezza del coinvolgimento dei civili, ed è perciò aumentata nel tempo. Tuttavia, le condizioni per determinare una “guerra” sono mutate in un loro punto fondamentale: nessuno si assume più la responsabilità di essere l’iniziatore del conflitto. Queste nuove guerre sono “guerre vigliacche”: non hanno più neanche la funzione sociale di essere considerate una extrema ratio per dirimere alcune questioni (con il corollario di cercare di fare meno vittime possibili), e dunque non sono ormai altro che “inutili stragi”, come profeticamente le definì Benedetto XV all’alba della nuova era bellica, dove l’estremo non ha più alcuna ratio.

È stato proprio Clausewitz a intuire un tale sviluppo storico della guerra, a partire dalla prima metà del XIX secolo. Lungi dal vedere in Napoleone “lo spirito del mondo a cavallo”, Clausewitz (che, come Hegel, si trovava a Jena nel 1806), vi vide il “Dio della guerra”: una forza capace di produrre non soltanto quella che Schmitt chiamerà “teologizzazione della guerra”, bensì di rivelare finalmente l’essenza segreta e storicamente dissimulata della guerra, ovvero un duello che tende sempre più all’estremo.

«La guerra non è che un duello su vasta scala […] è un atto di forza all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo»[2].

Non stupisce che René Girard abbia visto in questi temi clausewitziani una prefigurazione della teoria mimetica applicata al fenomeno della guerra. Secondo l’antropologo francese, vigono nel pensiero di Clausewitz sia elementi platonici che elementi hegeliani, ma come rovesciati: la dialettica servo-padrone, motore della violenza, non conduce ad alcuna possibile Aufhebung, bensì produce una progressiva caduta di tutti i freni che impediscono alla guerra reale di adeguarsi al suo concetto ideale, compiendosi ed annullandosi infine in esso. L’idea di guerra è il suo fine e la sua fine, e non sta scritta in un iperuranio sovrasensibile, bensì è iscritta nella storia stessa. La storia, in questo senso, è un continuo tentativo di impedire che la violenza dilaghi sfrenatamente, mediante un’istituzionalizzazione della violenza stessa, che diviene guerra, politica, diritto, religione.

Oltre a Girard, un altro eminente pensatore francese, Jean Guitton (da Girard stranamente non citato) ha visto in Clausewitz uno dei pochi capaci di restituirci il «logos della guerra»: ingiustamente bistrattato dai filosofi, il generale prussiano era in realtà «impregnato di metafisica»[3] ed era capace di pensare la guerra in profondità, scorgendovi anzitutto degli elementi psichici. Sviluppando questa idea, Guitton sostiene infatti che nella guerra non si tratta tanto di agire con le armi sulle armi dell’avversario, bensì, così come nella dialettica verbale, primariamente di «agire sulla psiche»[4] per piegare la volontà altrui alla propria: le armi sono solo un mezzo, e neanche il più efficace se prese da sole. Si tratta quindi, anzitutto, di dissimulare e ingannare: siamo nel campo delle «illusioni reciproche», dove ognuno si identifica con l’avversario ingannatore e deduce quello che farebbe se volesse ingannarsi[5]. In questo strategico gioco di specchi, la situazione può facilmente sfuggire di mano, e quella che doveva sembrare soltanto una minaccia diviene improvvisamente la miccia di una spirale mimetica di violenza bellica che sarà tanto più deflagrante quanto più le armi saranno potenzialmente distruttive. Come vedremo, infatti, la guerra ha una sua implacabile logica “meccanica”: una volta messa in moto, procede inesauribile nelle sue tappe, servendosi della potenza distruttrice disponibile. Ecco perché, ad ogni conflitto in atto in cui sia coinvolta una potenza atomica, siamo sull’attenti non appena appare sulla scena un elemento anche solo lontanamente riconducibile all’energia nucleare[4]. Ciò che temiamo è che si inneschi l’escalation atomica globale.

(fine prima parte)

NOTE

[1] C. von Clausewitz, Vom Kriege, 1832, tr. it. Della Guerra, Mondadori, Milano 2007, libro I, I, 24.

[2] Ivi, pp. 19-22.

[3] J. Guitton, La Pensée et la Guerre, Desclée de Brouwer, Paris 2017 (1969¹), tr. it. Il pensiero e la guerra, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 12, 22.

[4] Ivi, p. 126.

[3] Ivi, p. 147.

[5] È successo, ad esempio, con i proiettili all’uranio impoverito che l’Inghilterra ha dichiarato di fornire all’Ucraina nel marzo 2023.

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