Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.
Recensione a: M. Mugnai, Come non insegnare la filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2023, pp. 224, € 15,00.
Liberiamo l’insegnamento della Filosofia dalla quantità e dai programmi sovrabbondanti e cominciamo a far capire i concetti. Cancelliamo la consuetudine d’imbottire di nozionismo storico i liceali, che poi, una volta arrivati all’Università, non sapranno tradurre questa quantità in qualità. Questo è ciò che sostiene il professor Mugnai, già insegnante di Storia della Logica alla Normale di Pisa, in un pamphlet che non si limita a segnalare la degradazione culturale delle ultime generazioni, ma suggerisce anche un superamento del modello storico-quantitativo fondato sui manuali, che tutto fanno tranne insegnare a pensare.
Che senso può avere, infatti, infarcire la testa di giovani che si affacciano al mondo d’oggi con sfilze di nomi e successioni più o meno ordinate di strani individui che sostengono cose perlopiù bizzarre ai nostri occhi, senza dar loro modo di comprendere in maniera adeguata quel che stanno studiando? Così si passa in fretta da quello che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede ci siano le monadi, a quello della dialettica ‘tesi-antitesi-sintesi’, a quell’altro che dice che senza Dio tutto è permesso, a quello che ha scoperto il predominio della tecnica… ecc. ecc., in un succedersi di ovvietà e luoghi comuni senza sosta.
Immaginiamoci il dialogo tra un sedicenne ed un tradizionale insegnante di filosofia: «Prof, ma l’amore è davvero follia, oppure è solo l’impatto iniziale che ci fa perdere per un po’ il controllo?» «Secondo Gorgia l’amore ha traviato così tanto Elena…». «No, mi scusi; riformulo la domanda: ‘Quando siamo innamorati siamo ancora noi stessi oppure…’»: «Secondo il Simposio di Platone, che tra l’altro è un dialogo in cui sette persone conversano a proposito della natura…». «Va bene, cambiamo argomento. I miei genitori mi dicevano che io c’ero anche prima di nascere. Ma il nulla è ciò che c’è prima e dopo la vita?». «Allora: Parmenide diceva…». «Scusi prof, come non detto». «Se vuoi passiamo alle diverse fasi del pensiero di Nietzsche…». «Devo proprio andare».
Insomma, senza i decorosi riferimenti a Platone ed Aristotele e tutti gli altri, non possiamo avanzare ipotesi su nulla e non possiamo tenere accese le domande degli adolescenti. Fin qui Mugnai colpisce il bersaglio: se la storicizzazione non genera mostri (eccetto certi professori autoreferenziali), la sua perversione allontana gli studenti: dalla loro stessa curiosità, dalla fame di sapere, dall’amore della sophia. Ai tre problemi enunciati (eccesso nozionistico, incapacità di leggere un testo filosofico, inibizione della spontaneità filo-sofica) aggiungiamo anche la debolezza argomentativa e lo sloganismo banalizzante, che spaccia per comprensione l’evocazione di una sequenza di formule altisonanti.
Chi insegna questa disciplina dagli incerti confini dovrebbe provare ad arricchire il mondo cognitivo di tutti i discenti; i quali però sembrano invitati a ricordare solo che Anassimandro è quello dell’infinito («come Leopardi, prof!»), Pitagora quello dei numeri («ha anticipato il fatto che siamo tutti valutati?»), Plotino quello dell’Uno, che non puoi neppure nominare («come una parola volgare?»), Cartesio c’è perché dubita, Hume non c’è (perché l’io non esiste, è solo un fascio di percezioni), ma ci fa, e ci fa tanta simpatia, perché critica tante cose ma poi ha buon senso: insomma formulette da Bignami eternizzato, come se prima di ChatGPT avessimo già optato per una didattica fondata su passività, riduzioni para-televisive e memorizzazione. Dopo questa giostra di frasi fatte, gli studenti saranno in grado, per esempio, di riconoscere le bufale dell’omeopatia e del biodinamico, riusciranno a vigilare sul dogmatismo delle fedi politiche e religiose, saranno capaci di non abboccare a fantomatiche cure alternative o a populismi di ogni origine?
Passando alla proposta dell’insegnamento sistematico, noi docenti che abbiamo usato i manuali tradizionali, spiegando le fasi degli autori, gli eventi biografici decisivi, le novità e le ripetizioni, abbiamo sotterrato il testo sotto chili di contesto? Abbiamo messo sul proscenio la storicizzazione e nell’ombra l’argomentazione? E sapremmo rispondere all’obiezione per cui gli studenti rischiano di credere che tutte le posizioni si equivalgano, abbandonati in un relativismo notturno in cui tutte le vacche (i filosofi) sono nere?
Talora sembra che Mugnai s’immagini delle lezioni in cui ci sia una specie di connessione diretta Manuale-Discente, senza ipotizzare che per molti di noi docenti il primo è solo un mezzo e non un fine e viene sempre sminuzzato, criticato e adattato alla classe che abbiamo. L’opera di persuasione e se-duzione non potrebbe avvenire solo compulsando il Libro.
Mugnai stesso dice che i manuali non si limitano alla grandinata di nomi, ma suggeriscono altre due manovre di accerchiamento: il cinema e il dibattito. Il primo dovrebbe sollecitare gli affetti e spingere all’adesione a certe tesi, ma a prezzo di una sua brutale strumentalizzazione. Il secondo, coerente con l’invito, di tradizione deweyana, al learning by doing, dovrebbe però essere preceduto da un approfondimento accuratissimo, che sviscera la questione, anche senza piegarla alla rigida alternativa pro/contro. E poi i riassunti, gli schemi, le immagini. Tra l’altro, a proposito di banalizzazione, qualche anno fa venne pubblicato un libretto di un certo Masato Tanaka che riduceva la storia della filosofia a disegni e fumetti e che ad un certo punto mostrava un fumetto in cui un Aristotele for dummies si avvicinava al cavallo e si scusava per le offese platoniche: «Tu non sei affatto un’imitazione, sei vivo e vegeto!».
Non è facile prendere contatto con l’homo videns dietro i banchi senza sbriciolare i concetti e trucidare la complessità, ma le alternative non sembrano risolutive. Anche in assenza di quel manuale per temi e problemi auspicato, un approccio misto e complementare è quello che nei fatti già molti docenti applicano, anche selezionando gli aspetti puramente argomentativi dei filosofi (già ampiamente ridotti) o indugiando su quei luoghi della storia della filosofia che permettono di edificare un po’ alla volta quelle facoltà che il nostro professore di Storia della logica in pensione reputa ormai rarefatte. Il nuovo insegnamento per concetti dovrebbe poi evitare lo sradicamento e l’obbedienza ad una dittatura del presente che rende tutto piatto ed etereo. Non si può curare l’horror vacui con la frammentarietà, tra l’altro in un tempo dominato dall’overdose informativa e dalla dispersione degli stimoli. E qui spicca il problema della scelta dei temi e problemi, numerosi ed intrecciati tra loro: altra decisione esposta al rischio dell’arbitrio.
La questione non si risolve con l’abbattimento dei contesti e di parte dei pensatori iconizzati; se si vuole difendere la filosofia dalle sirene che prima o poi vorranno ridurla o abolirla (a proposito di paragoni con l’estero), bisognerà sì esonerarla dall’obbligo di devozione ai mostri sacri, ma anche diffonderla al di là dei licei, farla partire dalla scuola primaria, impastarla con tutte le altre discipline, coinvolgerla in tutte le discussioni e dispute (non debate) pubbliche, farla vivere nelle pratiche e nelle voci degli acerbi discenti. Infine, cambiare la formazione dei futuri insegnanti: quanti di noi avremmo scritto qualcosa di originale e profondo, senza fare la dovuta carrellata dei pareri altrui, sui temi della Maturità di quest’anno, ossia sull’intelligenza laica, sul materialismo borghese, sul nesso nazione-umanità, sulla distruzione creativa, etc.?
La nuova formazione dei docenti non sarebbe un toccasana per annullare definitivamente ubbie, gusti e credenze personali, pose oracolari e casuali specializzazioni da far scontare alle classi, ma quantomeno potrebbe opporsi alla tendenza, già segnalata dal Nietzsche evocato da Mugnai (p. 64), di «preparare per il giornalismo».