Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato  nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.

Recensione a: Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 20232, pp. 454, € 22,00.

La Rivoluzione è naufragata e ha bisogno di una zattera-libro: custodiamone il meglio e navighiamo coraggiosi verso l’avvenire, sembra proferire lo storico Enzo Traverso, in un saggio, indubbiamente di piacevole lettura, che comincia con l’analisi del quadro di Gericault, La zattera della medusa, dipinto romantico che mostra «la sofferenza della gente comune» (p. 17).

Perché la Rivoluzione è così importante da esigere la maiuscola e perché occorre raccontare in modo diverso il suo essere una rottura palingenetica? Perché non è solo «una chiave interpretativa per capire la storia moderna» (p. 22),  ma anche un «balzo verso il futuro» (pag. 79)? Cosa sarebbe la sua «intensità  ontologica» (p. 28) e quale il suo potenziale da rimettere a nuovo?

Innanzitutto partiamo dal fatto che il grande fenomeno di cui occorre scrivere “un’altra storia” si colloca nei due secoli tra il 1789 ed il 1989, come dicono le date poste accanto al sottotitolo, in un recinto temporale che esclude che essa possa definire le innovazioni tecnologiche del nostro presente, o ciò che nel ventesimo secolo è accaduto alle donne e alla sessualità; una scelta che rifiuta che ci possa interessare quella inglese del Seicento, che per prima fece cadere la testa di un re, ma anche, nonostante siano inclusi nella selezione temporale, i moti ottocenteschi (Mazzini citato una sola volta e brevemente, per la breve vicenda della Repubblica romana) e la rivoluzione partenopea del 1799.

In realtà il saggio non vuole seguire un fiume cronologico e non ha l’esigenza di soddisfare velleità di esattezza e precisione; invece, in modo originale, con un viaggio illustrato da ben 98 immagini, combina teorie, ritratti, dipinti e giudizi sferzanti con un linguaggio tutt’altro che impersonale, preferendo estetizzare, evocare e sedurre, cantare i difetti ed i pregi di quell’Evento, toccare il cuore e perfino muovere ed incitare all’inno. L’ambizione è dichiarata senza reticenza: raccogliere, come da una sorta di malinconica piattaforma ecologica delle sconfitte della storia recente, un materiale eterogeneo di metodi, insegnamenti, avventure e vinti da far risorgere, per «superare ma anche ‘salvare’ il significato di un’esperienza storica» (p. 39). In questo testo-pellicola cinematografica si dice che le rivoluzioni sono «il respiro della storia» (p. 27), sono «scosse telluriche» (p. 35), «tempeste iconoclaste» (p. 156) e momenti di «rigenerazione corporea» (p. 84). Rappresentano una sorta di «emergenza dirompente» (p. 30) e sono capaci di trasformare «lanimal laborans in zoon politikon» (p. 83); infine, soprattutto, «salvano il passato» (p. 40).

Questa elaborazione, tutta infiammata di lirica e soteriologia, si avvale del concetto di Walter Benjamin di “immagine dialettica”, immagine che porta con sé la fonte ed il senso profondo, il visibile e l’invisibile, per restituire la vastità di un’atmosfera ricca di palpiti e necessità morali, di possibilità inespresse e speranze, dedicando i sei capitoli alle locomotive (I), ai corpi (II), ai concetti, simboli e luoghi (III), all’intellettuale (IV), alla distinzione tra libertà e liberazione (V), infine ad una storicizzazione conclusiva che sappia scindere ciò che è fredda bancarotta dal nucleo emancipatore (VI). Pur ispirandosi ad alcuni numi della storiografia marxista (Eric Hobsbawm, Edward Thompson, perfino Trockij, nel suo ruolo poco scientifico di attore e narratore) è evidente che Traverso prende a modello anche l’epica del film Ottobre di Ejzenstejn, o almeno ciò che di esso viene detto dallo storico Robert Rosenstone, ossia che ambisce ad essere «un’espressione simbolica o metaforica di ciò che chiamiamo la Rivoluzione bolscevica», quasi a proporsi come un esorcista che estrae il demonio della rivoluzione fallita dal corpo vivo del presente neoliberista e poi ne magnifica l’affrancamento, tramutando la malinconia in speranza, l’incantamento ideologico in slancio utopico.

Beninteso, Traverso prende le distanze dalle fantasie eugenetiche di Trockji e perfino da Lenin, che a suo dire ha trascurato la dimensione politico-giuridica dello stato rivoluzionario; non cade nel fideismo di chi vuole rivestire con abiti nuovi lo stesso corpo malato né nella vecchia credenza in una progressione lineare del tempo storico. La voce ispiratrice di Walter Benjamin, decisiva per rispondere a Marx sulla metafora più adeguata per la rivoluzione (non una locomotiva della storia ma un freno d’emergenza su quella locomotiva) è una voce in virtù della quale ci si allontana dallo storicismo teleologico. Però bisogna rilevare che l’eterodossia dell’autore delle tesi Sul concetto di storia non basta a secolarizzare la teoria della lotta di classe e del cataclisma rivoluzionario che permetterebbe il «balzo di tigre nel passato» (p. 331), ennesima immagine allegorica, anzi contamina la già discutibile filosofia dialettica della storia con controversi motivi messianici, che sembrano non distinguere redenzione e rivoluzione.

Insomma, la zattera-libro di Traverso segue la stella di una rivoluzione ipostatizzata e sacralizzata, freccia nel cielo depurato dalle nubi dell’oppressione, alta luce dei sogni e delle buone intenzioni, sisma estetico e morale la cui teodicea giustifica da sempre e per sempre errori e violenze reattive. A proposito della violenza, di nuovo giunge il pronto soccorso del codice metaforico, con il racconto amichevole della funzione di slogan, dipinti e poster: «Queste metafore testuali e visuali di pulizia e amputazione esprimevano chiaramente, sia nella Francia giacobina che nella Russia bolscevica, l’idea di un corpo sociale rigenerato dalla violenza» (p. 113) Del resto l’intellettuale rivoluzionario, indistintamente anarchico, comunista o socialista, vagamente anticapitalista e dalla parte dei deboli, idealtipo tratteggiato con pochi schizzi nel quarto capitolo, incarna un’etica della convinzione che «accetta – o addirittura prescrive – l’uso della violenza come strumento di emancipazione». Inoltre Traverso all’eurocentrismo di Hannah Arendt ed alla scarsa propensione rivoluzionaria di Michel Foucault, preferisce Franz Fanon, teorico della violenza che riumanizza gli oppressi, un Fanon la cui apologia si limita all’accostamento a Jean Amery, che avrebbe voluto aggredire i suoi torturatori nazisti (p. 318).

Infine, tutto il percorso risulta gravato da un’indeterminatezza di fondo, che raduna in un solo fascio  i diversi movimenti di contestazione degli ultimi anni, da Black Lives Matter ai gilet gialli, dal femminismo alle rivoluzioni arabe, come se davvero fossero tutti convergenti verso un’unica liberazione. Un’indeterminatezza che non cita il soggetto che dovrebbe rianimare questa reinvenzione del futuro e che sfuma i confini dello stesso comunismo, lodato specialmente per l’innesco anticoloniale e per la ribellione sessuale (una Kollontaj enfatizzata a dismisura), ma poi definito nelle ultime pagine, con un bislacco colpo di scena, come socialdemocratico («definizione ossimorica», p. 367): quindi riformista, non rivoluzionario.

Insomma questo libro è esso stesso, sempre sulla falsariga di una categoria di Benjamin, un’immagine del desiderio, forse perfino un impasto di sentimento e filosofia, una storia emotiva più che intellettuale, allegorica piuttosto che letterale, evocativa più che analitica, un canto che a fatica viene udito da chi non ne condivide i presupposti ideologici, quasi fosse la riedizione laica dell’argomento a priori di Anselmo d’Aosta, in cui la definizione preliminare di rivoluzione come respiro e quindi norma della storia compromette il lavoro per dimostrare che davvero sia così. Pare lecito temere, usando i versi di una poesia di Majakovsky, che sia quindi una storia un po’ troppo adornata «dalle soavi bellezze dell’ideale».

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