Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato  nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.

Recensione a: S. Pinker, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso (2018), trad. it. Mondadori, Milano 2020, pp. 636, € 18,00.

I buoni hanno vinto, ho i numeri per provarlo: così sembra dire l’entusiasta Steven Pinker, psicologo evoluzionista canadese, naturalizzato statunitense, noto per i suoi importanti studi di linguistica e scienze cognitive. Gran parte degli sforzi di questo lungo saggio originariamente uscito nel 2018, diviso in tre parti (Illuminismo, Progresso e Ragione, Scienza e Umanesimo) si concentrano sull’enumerazione di grafici e numeri che dimostrino che oggi stiamo meglio che nel passato e che lo dobbiamo a quei grandi ideali illuministici che sono una «ragione per vivere» (p. 12). Questo baldanzoso elenco arricchisce la seconda parte, che comprende diciassette dei ventitre capitoli del testo e che è aperta da una citazione di Barack Obama, che proclama che «se doveste scegliere alla cieca in quale momento nascere, scegliereste il presente».

Le 636 pagine di Illuminismo adesso non sono propriamente una difesa dell’Illuminismo che parta dalla sua storia o dall’investigazione della sua reale natura. Non ne viene trattata la densa polivocità e neanche la varietà di luoghi e linguaggi. In un libro con quel titolo non sono mai citati illuministi come D’Holbach, La Mettrie, Helvetius, Turgot, Condillac, Verri, Filangieri, Genovesi, Lessing, per non parlare dei loro predecessori Erasmo, Toland, Bacon, Bayle, Leibniz etc. Si tratta invece dell’apologia di un maestoso soggetto storico, disegnato ex post dall’autore, che incrocia la razionalità laica, il progresso scientifico ed un liberalismo della felicità molto occidentale, esaltato nei grafici che sventolano come bandiere nei capitoli centrali. Contro la “progresso fobia” della cultura scettica e critica, che parte dai profeti di sventura dell’Ottocento ed arriva dritta fino al populismo autoritario di oggi, Pinker mostra l’aumento dell’aspettativa di vita, l’abbassamento della mortalità infantile e materna, la vittoria quasi definitiva sulle malattie infettive in gran parte del pianeta, la riduzione dell’incidenza della fame e delle carestie, l’aumento del Pil mondiale, i successi delle piante transgeniche, il declino della povertà estrema e della disuguaglianza mondiale. I poveri sono grassi e questo è il periodo più mite e sicuro della storia. Non poteva mancare la pace, il più noto tra i desideri stereotipati,  indicata come un obiettivo conveniente e quindi probabile: «La guerra è forse un altro ostacolo che una specie illuminata impara a superare, come la pestilenza, la fame e la povertà» (p. 178).

Ecco come si fa. Aumentano le democrazie e le libertà dei cittadini, tanto che oggi abbiamo «un totale di due terzi della popolazione mondiale che vivono in società libere o relativamente libere» (p. 216). Anche le opinioni razziste, omofobe e misogine stanno declinando, ma non potrebbe essere altrimenti, perché «la segregazione razziale, il suffragio solo maschile e la criminalizzazione dell’omosessualità sono letteralmente indifendibili» (p. 234). Lo splendore di un’epoca che sa resistere all’autoflagellazione degli intellettuali disfattisti si manifesta anche nel nesso tra razionalismo laico ed istituzioni salde e liberali, autentiche cause di un successo superabile solo dall’avvenire: «Presto il beneficio sarà pressoché universale» (p. 250). Il mondo è sempre più illuminato, composto da persone più intelligenti, tolleranti e felici; ma Pinker non ha nessuna voglia di farsi prendere per ottimista. Vorrebbe che a parlare fosse quella gloriosa e vasta modernità che unisce rivoluzione scientifica, illuminismo, liberalismo, capitalismo, razionalismo laico, insomma una vera «storia eroica» (p. 465). Nella terza parte, a favore della sua crociata secolare, eleva un grandioso Angelo a tre teste: ragione, scienza, umanesimo. Il nemico contemporaneo della prima testa è la tribalizzazione della mente, che ci spinge ad aderire a credenze che esprimono noi, ciò che vogliamo essere, non la verità disinteressata. Contro questa polarizzazione occorre «trattare le società come esperimenti in corso e mantenere la mente aperta» (p. 377), poi bisogna insegnare le fallacie ed il debiasing, dissociando la logica dalle nostre identità. Dobbiamo salvare la seconda testa dall’antiscientismo di ogni origine e lo possiamo fare solo con la base etica delle nostre democrazie: l’umanesimo.

Questo grande effetto ed alleato della secolarizzazione è il motore della costruzione di un’etica universale, che ci emancipa dalla moralità teistica, dalle religioni non ancora pienamente “liberalizzate” e dal teoconservatorismo. Per proteggere l’umanesimo, e qui giungiamo ai punti deboli del tomo dell’intellettuale canadese, bisogna fuggire da Nietzsche. In realtà leggiamo solo una caricatura anti-scientifica, in quanto priva di fonti, una demonizzazione già sconfitta dalla storiografia (il filosofo tedesco, raccontato attraverso le brevi pennellate di Bertrand Russell, viene ridotto ad uno psicopatico arrogante, autoritario e pre-fascista): una semplificazione clamorosa che sembra servire solo ad asserire che la critica alla modernità conduce dritti a Trump (dopo la reductio ad Hitlerum, quella a Trump).

Senza Nietzsche, quello vero, manca a Pinker, tra le altre cose, la consapevolezza che la mappa non è il territorio: ossia le linee vittoriose dei grafici non sono la vita del mondo, non rispecchiano le contraddizioni e le umiliazioni di un dolore che qui si riduce a ombra funzionale a far risaltare la luce delle tendenze di miglioramento. L’avanzamento del Bene è illustrato dall’esibizione dei trofei statistici, ma deve eludere o dire sottovoce i detriti che ne frenano il percorso: chiunque soffra delle disuguaglianze crescenti, del climate change, della sorveglianza digitale, dello svuotamento delle democrazie qui è trascinato e liquefatto dall’impetuosa fiumana della storia. E poi, che sarà mai: «Tra i problemi del mondo, l’isolamento sociale sembrerebbe uno dei più facili da risolvere: basta invitare qualcuno che si conosce a fare una chiacchierata in uno Starbucks dei dintorni» (p. 288). Anche chi voglia restare aggrappato al ramo della propria cultura locale o della propria marginalità, anche chi manifesti riluttanza a gettarsi tra le braccia del razionalismo e dell’individualismo sradicato, godrà dei frutti della Ragione: «I benefici di una democrazia laica cosmopolita sono bene in vista per chiunque».

Quest’orgoglio che si sceglie i fatti migliori e li vanta come medaglie, questo chiamare Illuminismo tutto ciò che è bene (allora perché non sono illuministi anche Euclide o Fibonacci?), questa sorta di nazionalismo dello sviluppo occidentale, del proprio modo di progredire, che infine si particolarizza nel liberalismo laico e scientista, reperibile negli Usa meno religiosi, in Canada, nella Nuova Zelanda e nell’Europa occidentale, soprattutto settentrionale, proietta il proprio esempio ovunque, assimila a sé tutte le differenze e pretende anche di aver capito dove andrà il vento del futuro: «Il populismo è un movimento di uomini anziani». Basta aspettare.

Se quest’intellettuale di ampio raggio avesse studiato di più la filosofia europea avrebbe riconosciuto il rischio, nel proprio approccio, di quell’intelletto tabellesco di cui parlava Hegel, ossia di una forma di astrazione che pretende assegnare lezioni al mondo e finisce per fare esperienza solo di se stessa: “Dato l’ascendente e il prestigio dell’Occidente (anche tra coloro che non lo sopportano), le idee e i valori occidentali possono stillare, fluire verso l’esterno e spandersi a cascata in modi sorprendenti”, (p. 455). Se invece ci si affida al feticismo dei dati, presentati anche in modo ricattatorio (chi non esulterebbe alla notizia del declino della violenza mondiale?), si finisce dentro una teleologia destinale che raduna tutto il meglio da una parte, ne misura narcisisticamente l’aumento della statura, come un genitore fa col figlio, ed accusa di progressofobia ogni distinguo. Pinker sostiene giustamente che è ragionevole scindere la lucida indagine dall’identità, anche quella occidentale: allora non è il caso di articolare una filosofia della storia meno unilaterale e romanticizzata?

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