Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato  nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.

Da diversi anni l’arte del dibattere si è diffusa nelle scuole italiane e ha incontrato spesso l’entusiasmo di chi la contrappone alla consuetudine della lezione frontale. Nonostante l’origine antica (dai sofisti in poi) e medievale (le disputationes universitarie), oggi quell’arte è nota soprattutto col nome di Debate e gli Ptof (Piano triennale dell’offerta formativa) che corrono ad inserirla come fiore del proprio giardino didattico, evitano il nome italiano. Tra tanti protocolli, che servono a regolare rigidamente gli interventi degli oratori, si è affermato specialmente il World School Debate (Wsd), che approfitta dell’aura anglosassone e pone nell’ombra gli altri regolamenti. L’abbondanza dei protocolli (Patavina Libertas, Exponi le tue idee, British Parliamentary, American Parliamentary, Karl Popper, Public Debate) sembra precipitare in un oblio di marginalità, occultata da un modello che prevede norme ormai piuttosto note: due squadre, tre oratori (anzi, debaters), un tema da discutere in forma di proposizione affermativa; quattro discorsi con compiti specifici (definizione del problema, tesi, argomenti, confutazioni, conclusioni riassuntive, focalizzazione dei punti di scontro).

Molti docenti enfatizzano i vantaggi di questa tecnica, che reputano avanguardistica ed innovativa, ricorrendo a formule di perentorio impatto: pensiero critico, educazione alla democrazia, competenze argomentative e comunicative, pluralismo, tolleranza. Ciò che sembra mancare è una riflessione più approfondita sugli effetti collaterali ed impliciti di un’attività tanto affascinante quanto ansiosa di divincolarsi dagli assilli epistemici dei grandi padri: Platone ed Aristotele, nemici del relativismo, del postmoderno, di una retorica che riesce a far circolare idee sbagliate ma efficaci.

Molti dei promotori del (accettiamone provvisoriamente il nome) Debate, si propongono di farlo diventare uno sport nazionale; asseriscono che è una competizione sportiva mentale e che sarebbe bello portarla alle Olimpiadi. Soffiando sul fuoco della radicata mentalità prestazionale e competitiva di oggi, partono da un presupposto inespresso: se convinci, vinci. Al contraddittorio segue il compenso della vittoria; il piacere del pensare criticamente viene surclassato dal godimento del gareggiare. Vige dunque una sorta di pregiudizio agonistico, in virtù del quale si tenta di coltivare l’argomentazione, ma attirando con l’incanto dei premi e con l’onore del trionfo. Le squadre pro e contro sembrano esemplificare ciò che lo psicologo Jonathan Haidt chiama “menti tribali” e la psicologa Julia Galef “mentalità del soldato”. L’euforia degli ierofanti del Debate celebra perfino una fantomatica capacità di capire tutti i punti di vista possibili sul tema da discutere, ma la realtà delle gare e dei tornei mostra quasi sempre, benché travestito, l’istinto prevaricatore tipico di ogni competizione. Lo studente-sportivo non cambierà la sua posizione, di certo non durante quella che sente come performance valutativa, e non riconoscerà l’efficacia delle parole dell’avversario (nemmeno quando passerà dalla posizione pro a quella contro, nonostante le belle illusioni). Ciò che era un’indagine cooperativa della verità si è tradotta in una contesa a cui si vuole partecipare per relegare gli altri tra gli sconfitti (però tanto rispettabili, etc. etc.) ed il proprio team tra i vittoriosi (magari con la corona dell’articolo giornalistico).

Il primo difetto menzionato, ossia il fatto che si dia per scontato che un confronto dialogico debba essere fatto più per prevalere che per capire meglio, si porta dietro anche il secondo: la necessità del duello spettacolare. Segno e rinforzo del suo successo, conforme ad una società che non fa che vendere tutto attraverso la seduzione e l’intrattenimento, lo spettacolo è il pozzo che ingoia tutte le buone intenzioni con cui si suole decorare questa pratica. La logica non è lontana da quella televisiva: si prende un problema, lo si divide in due lati, solo due, perché tre, quattro, cinque annoierebbero gli spettatori, e si accende la sfida. I debaters, anche se in camicia bianca e con uno stile oxfordiano, dovranno azzannarsi e farci vedere il sangue dei discorsi contrapposti. La polarizzazione, idrovora con cui ogni problema politico e morale viene banalizzato dai social e da gran parte della stampa italiana, ha un alto tasso di attrattività, cattura le masse ed incita allo schieramento immediato, al tifo, alla presa di posizione esagitata. Perché contestare la semplificazione, moltiplicare sempre le prospettive, accumulare dati e indizi, dubitare e soppesare, quando basta la dicotomia pro/contro ad infiammare l’arena?

I numeri superiori al due perdono, lo schema binario è eccitante e limbico, l’oscillazione e l’attesa annoiano, le deduzioni devono lasciarsi divorare dall’apparato scenico, il logos deve diventare, per così dire, logo-tainment. E poi, coerentemente con la recita della tolleranza, la patologia relativista: nessun giudice ti valuterà secondo il criterio vero/falso, ma secondo quello del lecito/illecito, secondo il primato del protocollo normativo. Hai dichiarato la team line? Bravo. Hai introdotto una nuova argomentazione nel terzo intervento? Gravissimo, shame on you. Il relativismo è anche morale: sarebbe intollerante dire che non si dibatte sulla tortura o sulla schiavitù; quando gli stereotipi del senso comune ci arriveranno, dibatteremo anche sul cannibalismo, sui suicidi di massa, sulle stragi utili. Il tabù della verità si sposa col divieto di rifiutare un dialogo con un nazista o un negazionista, perché conta solo l’osservanza delle regole del Wsd. I giudici sfoggeranno la loro ignava epochè ed assegneranno il plauso ai più obbedienti alla procedura, yes men del ricettario di norme, marionette caricate a sicumera ed espressioni palesemente kitsch: “La nostra squadra ama la libertà, voi la Dittatura dei Valori.”

E così, verificatelo ascoltando i discorsi dei dibattiti che affollano YouTube, avremo una riduzione dell’originalità ed una standardizzazione dei discorsi: tutti sequenziali, ordinati, ripetitivi, assertivi, recitati. E sentiremo quasi scoppiettare quelle truffe logiche che sono l’affidamento cieco all’autorità, alla maggioranza, alla tradizione; e poi false analogie, false dicotomie, non sequitur, argomenti fantoccio quasi obbligatori, mai sanzionati dai giudici. Ammaestriamo attori e, nei casi peggiori, tromboni dell’efficacia più che dell’umiltà metodica, burattini della persuasività più che della cautela epistemica, pronti a sciorinare rappresentazioni di sicurezza più che ragionamenti corretti, esitanti, complessi ed alieni dalle iperboli. Nessuna regola restrittiva delle fallacie logico-argomentative; nessun tentativo dei docenti di valutare il confronto con la competenza culturale sul tema dibattuto, magari segnalando le falsità, valorizzando le direzioni di ricerca, costruendo una sintesi tra le due squadre. Il debate competitivo ha rapito e preso possesso dell’arte dell’argomentare; per questo le scuole hanno bisogno di una riforma dei protocolli che la liberi dalla chiesa anglosassone e da tutti i difetti elencati (di nuovo: pregiudizio competitivo; polarizzazione dualistica, proceduralismo, tabù epistemico, rinuncia all’insegnamento delle fallacie).

Non si tratta dunque di tornare indietro, ma anzi di potenziare la ricchezza cognitiva dei dibattiti modificando il protocollo Wsd, senza puntare tutte le speranze sull’accortezza dei coach e sulla buona educazione dei debaters. Non sarebbe male prevedere la possibilità, da parte del debater, di cambiare idea, o la possibilità delle eccedenze di tempo in caso di argomentazione ricca e creativa. E magari delle pause per ricercare informazioni e il divieto delle fallacie, nonché una sintesi finale compiuta dagli esperti del tema. Infine, perfino la liceità di domande del pubblico presente. Servirebbe, su queste proposte, un dibattito (non un debate però).

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