Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato  nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.

Recensione a: M. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 288, € 20,00,

Quando Michael Sandel, nel suo La tirannia del merito (Feltrinelli, 2020), attacca la meritocrazia, evita certi argomenti che spesso si sentono in Italia, secondo cui il merito sarebbe il cavallo di Troia dell’invasione del mercato nella scuola, ridotta a campo di costruzione del capitale umano, in nome del quale fin dalla più tenera infanzia siamo tutti sottoposti a misurazioni e valutazioni standardizzate e pseudo-oggettive (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019). Dovremmo smettere di credere che l’esistenza è l’occasione per ottimizzare la nostra produttività e che la società sia una palestra d’indemoniate macchine umane in costante addestramento di facoltà redditizie. Non hai una dote da capitalizzare, non hai una skill con cui aggredire i rivali, non hai una capacità che abbia un valore di mercato? Meriti di essere ombra, subumano strumentale, peso collettivo perduto nell’esistenza tramutata in performance. Lontano da intenzioni anticapitaliste e vicino ad Aristotele più che a Marx, il filosofo americano si concentra invece sulla portata dell’etica pubblica, sulla stabilità sociale e sull’aumento delle disuguaglianze.

Partiamo dal primo problema: nemmeno il pluralismo e la neutralità liberale possono convincerci a rinchiudere l’etica nel privato. Il merito viene usato come strumento di legittimazione delle disparità sociali e quindi promuove un’idea di società che trova nelle valutazioni morali il suo fondamento di giustificazione. Dato il successo di quella che il sociologo Pierre Bourdieu (non citato ma non lontano) chiamava “violenza simbolica”, interiorizzata anche dai dominati, applaudiamo lo status quo e lo chiamiamo “giustizia”. I liberali, sembra dire Michael Sandel, inibiscono l’etica e la cacciano dalla politica, ma poi salta sempre fuori e non potrebbe succedere altrimenti. Fingiamo di barricare nelle scelte dei singoli i valori, ma non possiamo evitare di discutere dell’indebolimento dell’etica pubblica, perché questa è una delle ferite che abbiamo subito negli ultimi quattro decenni.

Considerare la seconda ferita, quella della tenuta della nostra collettività, ci permette di capire perché quell’ottimismo egocentrico chiamato “meritocrazia” è una concezione etica della società ed una concezione falsa e dannosa. Falsa perché fa sparire la storia, le relazioni, l’eredità; dannosa per i suoi effetti disgreganti. Gli iperprotetti abitanti dei piani alti della piramide rinnegano i debiti dovuti alla famiglia, alla sorte, alla comunità tutta: l’utile ideologia meritocratica rende legittimo ciò che è accidentale e meritorio il semplice dono della fortuna. Chi viene al mondo ricco, bello e nel centro di Parigi o di New York si appropria di quella buona sorte aristocratica e viene educato alla certezza di essersi guadagnato i benefici che derivano da quella nascita, come un tifoso che crede che siano suoi i trionfi della squadra di calcio che segue. Se ogni ricchezza diventa meritata, non c’è molto da opporre alle fratture ed alle disuguaglianze sociali, tutte assolte da una beata sociodicea, fiera del suo onirico feticismo del talento. Cosa c’è di pernicioso in questa impostura? Il sisma che produce. Il culto del successo come premio ha diffuso ubris nei piani alti dell’edificio sociale e depressione in basso.

Le crepe di questo edificio sono state create proprio dalla mistificazione che separa i vincitori dagli sconfitti, i bravi che ce l’hanno fatta dai cattivi che non hanno lavorato duro. Oltre ad inventarsi un individuo onnipotente che per magia cancella ogni contingenza, questa favola è una bomba ad orologeria dentro la comunità. Le università migliori sono chiuse a chiave ed è finita l’epoca dei bildungsroman in cui alla fine Martin Eden diventa Jack London. Oggi l’orgoglioso credenzialismo di chi entra nelle scuole ed università più titolate è il travestimento eufemistico del razzismo, grazie a cui si ottiene il permesso di fare spallucce se gli incapaci vengono schiacciati dalle ruote della competizione, perché trasgressori della legge agonistica e performativa, sfigati a cui baderanno poi buonisti, psichiatri e curanti. Chi ha titoli e prestigio può definire come virtù ciò che la massa di esclusi vede come privilegio e può permettersi l’elitismo snob che punta il dito contro l’indolenza plebea. I baciati dalla contingenza si sentono migliori ed infliggono ai vinti, anche non in modo esplicito, demoralizzazione, senso di fallimento, rancore. Uno degli effetti politici, validi anche oltre gli Usa, è che questi losers sposano la vendetta populista, dando ragione a Trump, Bolsonaro, Orban, Farage (il 25 settembre potremmo aggiungere un altro nome). La retorica del trionfalismo dell’io (tutto nell’individuo, niente fuori di lui; se sei smart, niente è impossibile) permette di tollerare la riduzione del welfare state e rende molto improbabile il ritorno di una vera solidarietà tra concittadini. Fin qui, Sandel.

Non possiamo dimenticare che l’Italia non si è ancora liberata da nepotismo, familismi e favoritismi vari, che remunerano i sodali, i soci e tutti coloro potranno restituire il favore, a danno di quelli che la nostra Costituzione chiama “capaci e meritevoli”. Che sia valido o no quell’essenzialismo promosso dalle narrazioni di massa e ormai dal senso comune, per cui abbiamo tutti un potenziale o un sogno da realizzare, è arduo dissentire dal fatto che occorrono politici, avvocati, docenti, etc., ben valutati e competenti. Anche Sandel, quando si ammala, vuole un buon medico. Ciò che attacca è un sistema etico di premi e punizioni basato su un’idea infondata e malsana di meritorietà, colpevole di corrodere il tessuto sociale.

Al problema delle conseguenze psicologiche e morali della scissione in vincitori e vinti non risponde efficacemente il pur ricco testo del filosofo Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito (Laterza, 2021), per il quale l’arroganza ed il senso di superiorità sono inevitabili e non definiscono quella meritocrazia dal volto umano che dev’essere ricondotta solo a questi tre principi: carriere aperte ai talenti; uguaglianza delle opportunità; posizioni stabilite solo in base al merito. Tutto il resto non c’entra. Non è difficile notare che un restringimento della definizione permette a Santambrogio di schivare le critiche di Sandel, che così appaiono fuori bersaglio: l’individualismo, il classismo, il populismo sono sì difetti, ma indipendenti dall’idea secondo cui dovremmo ricompensare i più preparati.

Ma anche se accettiamo questa scomposizione, non possiamo non soffermarci sulla fragilità del secondo componente, l’uguaglianza delle opportunità, grande mito della storia italiana, spesso legato all’ottimismo con cui si considera il potere della scuola, mito redentivo, farmaco salvifico, decisamente bisognoso di dissacrazione. Possiamo elogiare le capacità ed il duro lavoro senza restare imbambolati dentro l’incanto di un ascensore sociale enorme quanto un hangar. Non tutti i fiori delle potenzialità umane germoglieranno, non tutte le contingenze sono dominabili. Anche la missione meritocratica, perfino una sua versione depurata dai pericoli segnalati da Sandel, ci si svela come wishful thinking, data l’implausibilità dell’uguaglianza delle opportunità. Non è inopportuno insinuare perfino un rischio totalitario, nel senso di una pianificazione inevitabilmente autoritaria, tesa a smussare o annullare tutto ciò che crea disparità ed iniquità dei punti di partenza.

Questo non deve portarci a sottovalutare la necessità di un’assegnazione delle cariche secondo criteri corretti: quando vediamo una posizione di rilievo attribuita per fedeltà e non per adeguatezza, ci accorgiamo che la lode pubblica del demerito è insopportabile, soffriamo perché la giustizia viene calpestata e violata. Liberato dal sogno di diventare l’anima della società, il merito, se viene laicizzato e tradotto in semplice idoneità, in, come dice Santambrogio, «appropriatezza delle capacità di una persona rispetto alle esigenze dei compiti a cui è chiamata», può tornare nei suoi specifici ambiti di applicazione. Sia Sandel che Santambrogio sanno che dovremmo prenderci cura di quest’«appropriatezza» ed in tempo di elezioni è il caso di ribadirlo.

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