Michele Carbè è laureato in Storia e Cultura dei paesi mediterranei presso l'Università degli studi di Catania. I suoi principali ambiti di studio sono la Storia contemporanea e la Storia delle dottrine politiche.

Recensione a
E. Jünger, Diario di Guerra 1914-1918
a cura di Helmuth Kiesel
LEG edizioni, Gorizia 2021, pp. 642, €20.00.

Nell’immaginario popolare la caratteristica principale della prima guerra mondiale è lo stallo sul fronte occidentale, ovvero una linea continua di trincee dalla Svizzera al mare del Belgio che dalla sua costituzione nell’autunno del 1914 non fu infranta fino alla fine delle ostilità nel novembre del 1918. Nei tempi di pausa che la guerra di posizione concedeva, per combattere la noia della vita in trincea e per lasciare una traccia di sé in un momento in cui la sopravvivenza non era affatto scontata, non pochi soldati al fronte hanno scritto dei  diari di guerra.

Il diario consente di avere uno sguardo euristico sugli eventi che il narratore ha vissuto, il fatto di registrare gli eventi vissuti in guerra diventa ancor più interessante se chi li narra è un combattente del calibro di Ernst Jünger, il quale descrive la dinamiche della vita al fronte durante il primo conflitto mondiale nei suoi taccuini di guerra, editi in Italia dalla Casa editrice Leg con il titolo: il Diario di guerra 1914-1918. La guerra ha l’indubbia capacità di apportare cambiamenti storici e antropologici nel breve e lungo termine ed Ernst Jünger, entomologo ed attento osservatore di microcosmi,  riesce a trasferire la sua capacità di analisi  nel macrocosmo dei campi di battaglia del fronte occidentale.

Per lo scrittore e pensatore tedesco i diari furono senza dubbio inesauribile fonte da cui attingere nelle sue opere future, in cui egli ha narrato della sua esperienza come soldato durante la Grande Guerra. Nelle Tempeste d’acciaio, Boschetto 125 o La battaglia come esperienza interiore sono dei romanzi-diario in cui gli appunti di questi  taccuini trovano una dimensione superiore. In queste sue opere giovanili il reduce Jünger, utilizzando i filtri del narratore combattente, descrive la brutalità di un nuovo tipo di guerra, una battaglia dei materiali, che grazie all’innovazione tecnologica riesce a trasformare i campi di battaglia in deserti di acciaio e di morte. Ernst Jünger durante la Grande Guerra partecipò a numerose battaglie, venne ferito quattordici volte, gli furono assegnate due croci di ferro per meriti d’azione in combattimento e nel settembre del 1918 fu insignito dell’Ordine Pour le Mérite, la più alta onorificenza prussiana istituita dal re Federico II nel 1740.

Tornando al libro, il volume è costituito dai quattordici taccuini che racchiudono un intervallo di tempo che va dal trenta dicembre 1914 al dieci settembre 1918, quattro anni in cui il volontario di guerra Ernst Jünger descrive senza filtri la sua esperienza in combattimento. Nelle oltre seicento pagine del testo si evince come la guerra sia quasi un abbandonarsi ad una distruzione eterna, un’esperienza psicologica che conduceva ad estremi opposti, dove l’eroismo individuale si saldava con il condividere lo stesso destino nell’essere comunità in trincea, contraddizione che si evince tra l’indifferenza verso la morte e il disciplinamento a difesa della vita stessa.

L’autore l’8 dicembre 1915 annota che «l’indifferenza nei confronti della morte è immensa, i soldati della sanità non fanno in tempo a trasportare un ferito al parapetto più vicino, che già si torna a ridere e scherzare» (p.123). Allo scoppio del conflitto nel settembre del 1914 migliaia di giovani di tutta Europa accorsero ad arruolarsi volontari, spinti da uno slancio nazionalista fondato sull’eroismo e la ricerca della bella morte. In Jünger la retorica nazionalista del tempo non attecchì. Egli, già reduce della Legione straniera in Algeria, partecipò alla guerra da volontario per patriottismo e per spirito d’avventura, cosicché questo sentimento si tradusse  nel rispetto del valore del nemico.

La Grande Guerra fu anche una guerra di propaganda, dove la violenza parossistica veniva legittimata da una continua disumanizzazione del nemico. Il 29 giugno 1916 il sottotenente Jünger, invece, scrive sulla cattura di un soldato inglese in questi termini: «Tuttavia mi ha dato l’impressione di uno capace di entrare all’attacco con coraggio. E ho pensato: è un peccato, dover uccidere uomini del genere» (p. 233). Ciò che  rende interessante e quasi unico il diario è il fatto che l’autore vive le maggiori battaglie del fronte occidentale in prima linea ed è più volte impiegato in azione. Ad esempio, il primo luglio del 1916 ha inizio la Battaglia della Somme: l’ormai veterano di guerra e sottotenente Jünger partecipa ai combattimenti. In mezzo alla tempesta di granate, shrapnel, gas tossici, l’autore maturerà l’idea, che poi rielaborerà in seguito, della guerra moderna come battaglia dei materiali, il dominio della tecnica su l’uomo, ormai palese, è dovuto alle continue innovazioni dell’industria bellica.

Nonostante questo inarrestabile cambiamento dell’arte bellica, per Jünger l’eroismo del singolo riesce ancora ad elevarsi dalle macerie dello scientismo della guerra iper-tecnologica, il soldato usando le innovazioni tecnologiche come l’aviazione. Nel combattimento tra due caccia nei cieli Jünger rivede l’epica medievale e la lotta tra cavalieri, a conferma di ciò nel testo sono più volte presenti le richieste (sempre rigettate) dell’Autore per diventare pilota di aereo di guerra. In  realtà, nella Battaglia della Somme non ci fu nessuno spazio per l’epica cavalleresca; infatti, i giorni vengono descritti in modo monotono come un lungo necrologio di compagni d’arme caduti, la vista di soldati morti da giorni, sfigurati e che emanano l’odore dolciastro e nauseante della decomposizione dei cadaveri diviene tragica routine. Il 28 agosto 1916 Jünger scrive: «non riusciamo a dare tre colpi di vanga senza incappare in un pezzo di corpo. A destra e sinistra delle strade morti. Sono caduti, forse sono stati persino feriti, e i commilitoni nell’agitazione sono corsi via. I morti lungo i sentieri di marcia sono un vero è proprio segnale direzionale che indica se si è presa la strada giusta. Perdersi è uno dei rischi maggiori della battaglia della Somme. Se un reparto si allontana, il più delle volte è perduto» (p. 271).

Con il passare degli anni, l’entusiasmo dell’inizio della guerra trascende ogni spirito bellicoso e d’avventura, la guerra si mostra in tutta la sua cruda natura, lo stesso autore l’apostrofa come «una guerra di merda». L’ultima battaglia della Grande Guerra in cui Jünger partecipò attivamente ed ancora una volta si distinse fu la cosiddetta “battaglia di primavera”, un’offensiva iniziata nel marzo nel 1918 e conclusasi un mese dopo, attraverso la quale il generale tedesco Erich Ludendorff, incoraggiato dai successi teutonici ottenuti sul fronte orientale del conflitto e a Caporetto, sperava di spezzare in due il fronte alleato ad Arras.

 Il primo giorno di combattimenti il 21 marzo 1918 Jünger sul suo taccuino scriveva: «Il grande momento era arrivato. La barriera di fuoco era svanita nelle retrovie. Ci siamo schierati.  In preda a sentimenti contrastanti suscitati da eccitazione, sete di sangue, rabbia e alcol, procedevamo al passo verso le linee nemiche» (p. 518).

Alain De Benoist scrisse che il Novecento è quel secolo infame che non ha dato il Nobel a Jünger. In effetti, in molte sue opere il pensatore tedesco si erge a sentinella sul confine del nulla ed a ribelle che lotta contro la decadenza. I Diari di guerra non hanno la pretesa di percepire il nulla della nostra epoca, ma sicuramente hanno il pregio della continua ricerca dell’obbiettività nel narrare il fatto, per questo motivo il libro merita di essere letto  perché si rivela uno strumento utile a comprendere, sine ira et studio, il primo conflitto mondiale.

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