Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Recensione a
D. Brullo, Stroncature. Il peggio della letteratura italiana (o quasi)
GOG Edizioni, Roma 2020, pp. 100, €12,00.

Parafrasando una ormai celebre battuta da DC Comics: Davide Brullo non è l’eroe che la nostra letteratura merita, ma quello di cui ha bisogno adesso. Lo dimostra anche nella sua ultima pubblicazione, Stroncature, edito per i tipi di GOG. Il libro raccoglie una serie di articoli da lui scritti per vari giornali e testate online, in cui recensisce le opere più recenti dei presunti “grandi” del nostro panorama letterario, da Stefania Auci ad Antonio Scurati, da Alberto Angela a Michele Serra. Per farlo, Brullo rispolvera un genere oramai decaduto nel giornalismo culturale: la stroncatura, appunto.

Cimentarsi in una stroncatura è esercizio ben più complesso di quanto possa apparire nel leggerla. L’autore deve possedere un linguaggio esplosivo, un intelletto acuto, una penna agguerrita e coraggio da vendere (il biblico coraggio di un Davide che affronta Golia, per citare un paragone ricorrente nel libro). Ma anche avere queste doti non basta. Perché l’azione guastatrice dello stroncatore sia efficace e non si risolva, quindi, in un narcisistico esercizio di acume o, peggio ancora, in un attacco scriteriato a chi non ispira simpatia, devono essere presenti delle idee precise, delle aspettative reali e coerenti, dei parametri di giudizio unitari. Brullo evita qualsiasi tranello narcisistico (tanto che, alla fine del volume, stroncherà anche sé stesso) e offre al lettore pezzi di una lucidità e di una freschezza stilistica eccezionali.

La raccolta in un unico volume di tutte queste stroncature fa risaltare la coerenza del lavoro di Brullo e riesce a far uscire fuori un quadro sistematico dei vistosi difetti di questi titoli, espandibili, probabilmente, a buona parte dei titoli del mainstream italiano contemporaneo. L’approccio critico è tanto semplice quanto spietato: interrogare i più recenti lavori letterari degli “intoccabili” della cultura contemporanea (ad esempio: Augias, Camilleri, Lucarelli), i cosiddetti “casi editoriali” (ad esempio: Elena Ferrante, Paolo Cognetti) sulla forma e sul contenuto, ricercando quei pregi, quella qualità, quella beltà sempre promesse dalle varie recensioni e dalle fascette pubblicitarie. Le criticità riscontrate sono riassumibili in tre punti chiave, tra loro fortemente legati: il primo è la mancanza di idee, il secondo la mancanza di stile, il terzo la mancanza di profondità.

Per quanto riguarda il primo punto, emblematiche sono le stroncature a I leoni di Sicilia di Stefania Auci e a Peccato mortale di Carlo Lucarelli. Autori senza idee si rifugiano nel cliché, nel rassicurante abbraccio del “già visto e già sentito” che tanto piace a un pubblico di lettori medio-basso. Bizzarra e preoccupante la somiglianza trovata da Brullo tra la saga della famiglia Florio e Beautiful, impressionante la vicinanza narrativa di Lucarelli con l’indimenticata parodia che ne fa Fabio de Luigi. Più che guidati da un’ispirazione, questi libri sembrano legati a determinate strategie editoriali, come se il più grande riconoscimento che uno scrittore italiano possa ricevere, fosse quello di vedere il proprio romanzo riadattato in una fiction Rai.

Il secondo punto Brullo lo esplicita con caustica sintesi, nel pezzo dedicato a Divorare il cielo di Paolo Giordano: «Divorare il cielo è un libro scritto per la comunità degli scrittori salottieri, d’altronde potrebbe essere scritto da Paolo di Paolo o da Giuseppe Catozzella, da Marco Missiroli o da Valeria Parrella, sono tutti uguali, scrivono tutti le stesse cose». Manca, quindi, uno stile riconoscibile, sono tutti libri privi di personalità. Con accanimento più masochistico che sadico, Brullo palesa e denuncia il piattume formale di quasi tutti i testi stroncati, citando puntualmente frasi e passi: tra pesanti descrizioni ottocentesche, ripetizioni fastidiose e mancanza d’identità, pare che l’aspetto più drammatico sia rappresentato dalle scene di sesso. Gli autori analizzati da Brullo sembrano avere dei grossi problemi nella descrizione dell’atto sessuale. La lettura dei passi incriminati (scrupolosamente riportati) mostra degli scrittori impacciati, macchinosi, incapaci di imprimere desiderio tra le parole. Non è un caso che le parole utilizzate facciano spesso riferimento allo “spingere” e a una ritmicità regolare, quasi si parlasse di un esercizio da metronomo. Risulta esemplare, come sunto di questi problemi formali, la stroncatura a M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati.

In alcuni casi, però, lo stile sembra essere lasciato volutamente da parte, come se si trattasse di un vetusto orpello dannunziano. È il caso, ad esempio, di scrittori come Roberto Saviano e Michela Murgia, che alla cura della forma sembrano anteporre il contenuto da dover diffondere. Il fatto, però, è che, come scritto nel terzo e ultimo punto, pure questo sembra essere un ostacolo insormontabile.

In generale, ciò che regna sovrano in questo campione letterario è la superficialità, come possiamo constatare leggendo Chiara Gamberale ed Elena Ferrante, sia che, appunto, ad essere esaminate siano le pagine di Roberto Saviano e Michela Murgia. La leggerezza e la sommarietà con cui questi autori trattano dei temi capitali ha dell’irritante: che siano le dissertazioni pseudo-religiose di Paolo Cognetti, che siano le considerazioni letterarie di Paolo di Paolo, che siano le teorie amorose di Alessandro D’Avenia, tutto si risolve sempre in una massima banale, buona più come citazione Instagram che come esposizione di un pensiero.

Le domande che la lettura di Stroncature fa porre al lettore, a conclusione di questa impietosa carrellata, sono le seguenti: perché persone che non hanno nulla da dire, se non banalità, e che mancano pure di identità stilistica, pubblicano libri a getto continuo? Le maggiori case editrici del Bel Paese non potrebbero trovare di meglio?

La risposta a queste domande è semplice; traspare all’interno di tutte le stroncature. Si riassume con una parola: soldi. Le case editrici pubblicano sempre i soliti noti, perché i soliti noti hanno uno zoccolo duro di lettori già affermato. Gli scrittori hanno l’unica preoccupazione di far sentire intelligenti i propri lettori, propinandogli frasi fatte, massime di vita scontate e perle di sapienza spicciola già presenti nel bagaglio culturale di ciascuno di noi. In questo, niente di male, per carità. Da quando esiste il mercato librario, sono sempre stati presenti i titoli “ammiccanti”, confezionati con l’intento di vendere. Il problema va a crearsi quando questi lavori vengono considerati l’apice della letteratura. Ai livelli più alti della nostra cultura, si sta facendo strada da tempo la disastrosa idea che la qualità dei testi sia fatta principalmente dalla loro diffusione e dalle loro vendite. È così che L’amica geniale di Elena Ferrante, nonostante la sua estenuante pochezza, ha attirato l’attenzione di alcuni affermati accademici dello Stivale, in virtù solo dell’eccezionale numero di copie vendute. È qui che si va a creare il cortocircuito della nostra cultura: gli autori più venduti e più pubblicizzati scrivono banalità, la critica, anche quella non allineata, cerca di trovare forzatamente dei pregi là dove non ce ne sono, in virtù di una “operazione simpatia” che vorrebbe far uscire la critica letteraria dalla marginalità mediatica in cui oggi si trova, o dell’applicazione del principio “piuttosto che niente, meglio il piuttosto”. La cultura “alta” finisce così per unirsi al plauso della folla, contribuendo in maniera decisiva a rendere questi autori degli intoccabili.

Fatto sta, però, che fuori dall’Italia la situazione non appare così desolante, e a volte, anche tra gli scrittori più in voga, sono presenti dei titoli assolutamente degni di nota. Basta guardare i nostri cugini d’oltralpe, che contano autori come Emmanuel Carrère e Michel Houellebecq, tutt’altro che emarginati, sia in termini mediatici, sia in termini di copie vendute. Non solo, probabilmente anche all’interno dell’enorme selva oscura dell’editoria indipendente nostrana, è nascosto qualche scrittore sicuramente più dotato di questi. Perché, quindi, doversi accontentare?

Per porre una domanda così scomoda, serviva un irregolare dai sani principi, attaccabrighe, con un’opinione così alta e nobile della letteratura da non aver timore nell’esporsi per difenderla. Eccolo: è Davide Brullo, novello Cyrano, pronto a sfidare, anche in versi [si veda la stroncatura Marco Rossari (con Veronica Raimo), pp. 99-101], chi osi offendere la sua amata. Il nome roboante non servirà più a salvare l’opera dello scrittore mediocre: d’ora in poi, non esistono più intoccabili.

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