Redattore

Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).

Recensione a: F. Faggin, Irriducibile, Mondadori, Milano 2023, pp. 352, € 12,50.

Nel suo gesto creativo originario, Uno avrebbe portato ad esistenza delle seity elementari, chiamate: «Unità di Coscienza» (UC) (p. 216). Affinché l’evoluzione conoscitivo/amorosa proseguisse, è stato necessario che queste seity originarie comunicassero tra loro (p. 190). Solo che, siccome ognuna aveva il proprio linguaggio, si rese indispensabile trovare un linguaggio comune che rendesse possibile la comunicazione. Ebbene: la sintassi di questo linguaggio sarebbero le leggi fisiche per come sono conosciute consuetudinariamente (p. 190). Spiega Faggin:

Partendo dalla conoscenza, tutto ciò che vediamo nell’universo è stato inizialmente immaginato nella coscienza delle seity perché la realtà fisica segue la realtà quantistica, che segue l’informazione quantistica, che a sua volta rappresenta il pensiero, i desideri e le esperienze coscienti delle seity […] (p. 190)

[…] l’universo inanimato non è venuto prima, ma deriva da una realtà quantistica più profonda, abitata da enti con coscienza e libero arbitrio che comunicano tra di loro trasmettendosi parte della loro esperienza. Questo processo ha gradualmente creato una realtà simbolica che contiene informazione viva e informazione classica, come correlati “fisici” della sempre crescente autoconoscenza delle seity. Sono le seity che hanno cooperativamente dato esistenza alle stelle, ai pianeti e agli organismi viventi così come noi li percepiamo mediante il corpo umano. (p. 196)

Le seity elementari non hanno esaurito il desiderio di auto-conoscenza né loro né di colui che ha voluto che loro lo avessero, cioè: di Uno. Dalla loro comunicazione si sarebbe generato un linguaggio universale e nuove combinazioni quantistiche, cioè: nuove seity (p. 191) che avrebbero comunicato tra loro adottando il linguaggio universale delle UC, sviluppandone a loro turno altri, che sono i linguaggi che traducono quelle esperienze auto-conoscitive individuali attraverso le quali «Uno può esplorare ogni possibilità di conoscere sé stesso» (p. 223).

 Come siano state possibili tali nuove combinazioni, Faggin lo spiega nei seguenti termini:

La combinazione di due seity in una seity d’ordine superiore può essere spiegata come un fenomeno quantistico dovuto alla sovrapposizione e all’entanglement[1] dei due campi che porta alla formazione di un nuovo campo di più alta dimensionalità, il cui simbolo vivo [la manifestazione “fisica” dello stato eccitato] è la combinazione quantistica dei simboli vivi dei campi componenti, con proprietà nuove ed inaspettate […] (p. 240).

Ecco che così si sviluppa una gerarchia tra seity, al cui grado inferiore sono le UC ed i cui gradi superiori sono determinati secondo il criterio di conoscenza/amore — così che, quanto più una seity conosce/ama, quanto superiore è il grado gerarchico occupato (p. 240).

 Rispetto a tale gerarchia, Uno sarebbe perfettamente trascendente. Egli, infatti, essendo «l’interiorità di tutto ciò che esiste» (p. 202); siccome ciò che esiste veramente è solo la conoscenza, cioè: l’attività ontologica delle seity (p. 204) — allora Uno è «ciò che connette “da dentro” tutte le sue creazioni (p. 202), le quali risultano quindi essere come i singolari, irriducibili “punti di vista” con cui Uno si conosce» (p. 203).

Uno non resterebbe quindi circoscritto ad un remoto e trapassato momento creativo; egli sarebbe presente sempre, assiduamente, in ogni atto conoscitivo. Si potrebbe considerare la possibilità che egli sia immanente alla sua creazione ed a quegli agenti, cioè: le seity che tale creazione assecondano; ma si tratterebbe comunque di un’immanenza non propriamente ontologica, in quanto: se la conoscenza è ontologia, tant’è che esistere è essere conosciuto, e viceversa (p. 198); ma la capacità di conoscere viene prima della conoscenza (p. 8); allora Uno s’identifica piuttosto con l’attività stessa del conoscere/amare — e ciò fa echeggiare nella concezione di Faggin una certa consonanza non solo con l’Uno di Plotino, ma anche con l’Atto Puro di Giovanni Gentile…

A questo punto della trattazione, dovrebbe essere emerso un problema: secondo la teoria di Faggin, siccome Uno desidera conoscere sé stesso/amare; siccome il processo di conoscenza presuppone l’ignoranza; allora Uno è incontrovertibilmente ignorante (p. 198). Non solo: essendo quello del conoscere un processo evolutivo, l’universo è in divenire; ma siccome questo divenire è fondato sul desiderio di conoscere che presuppone l’ignoranza; allora Uno non può predire le acquisizioni di tale evoluzione (p. 9).

Ergo: Uno non sarebbe onnisciente. Uno è coinvolto nell’evoluzione proprio come ogni seity da lui creata. Da ciò deriva una conseguenza importante che Faggin espone così:

[…] ritengo che le zone d’ombra debbano esistere anche in Uno, sebbene in una forma molto più astratta. Tali ombre rappresentano una distorsione inevitabile nel processo di conoscenza di sé di Uno, che avviene mediante le seity da Lui create. Immagino che le distorsioni avvengano perché il processo di autoconoscenza deve affidarsi a simboli che non possono cogliere tutto il significato dell’esperienza. Ciò può portare ad incomprensioni, il cui risultato è quello che chiamiamo “il male” (p. 291).

Ciò che Faggin ci offre qui è una sorta di teodicea secondo la teoria QIP. Anzitutto, si riconosce indirettamente che ciò che chiamiamo «male» non possiede un’esistenza autonoma, non è ontologicamente sussistente. Esso sarebbe piuttosto il precipitato negativo della «impossibilità di creare una corrispondenza biunivoca tra significato e simboli» (p. 291) — laddove per «simbolo» s’intende un qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) al quale possa essere attribuito un significato e così impiegato nella comunicazione (p. 322). «Per comunicare, è essenziale che il simbolo sia riconoscibile senza fare errori» (p. 322) — ed è qui che possono invece verificarsi delle distorsioni, degli “inganni”.

Insomma: pare ritornare con un sembiante diverso l’antica convinzione socratica che sosteneva che il male sia conseguenza dell’ignoranza. Solo che, nel contesto di una teoria che ritiene ontologica la conoscenza; risulta che i difetti nella conoscenza, cioè: la mancata corrispondenza biunivoca tra significato e simboli, come forma di ignoranza, abbia ricadute nell’esperienza esistenziale concreta di tutti coloro che partecipano all’evoluzione coscienziale — primo fra i quali, l’Uomo.

Nel progresso evolutivo della conoscenza, le combinazioni quantistiche delle seity danno finalmente origine alla seity «Uomo», da intendersi come “umanità”. L’Uomo sarebbe una seity di grado gerarchicamente elevato, in quanto possiede un grado di conoscenza superiore che corrisponde ad una maggiore complessità esteriore come simbolo vivo (p. 205).

D’altronde, siccome esprime anch’egli solo un punto di vista di Uno (p. 202), un momento specifico della sua esperienza conoscitiva; l’Uomo non sarebbe affatto un’eccezione rispetto alle altre creature — per intendersi: il suo sentirsi “a immagine e somiglianza” di Uno è legittimo, perché la seity Uomo vive nel proprio mondo (p. 201); cionondimeno, tale percezione di sé vale anche per ogni altra seity, avendo ognuna Uno nella propria interiorità (p. 203). Insomma: contemplandosi dentro, l’Uomo si riconoscerebbe sostanzialmente uguale a cane, albero, pietra, atomo, etc., in comunione universale con Uno — che è poi ciò che Faggin e D’Ariano intendono per «panpsichismo».

Come ogni altra seity, anche l’Uomo avrebbe avuto la possibilità di “incarnarsi”, ovverosia: di produrre una struttura fisica, cioè: il corpo da controllare, allo scopo di «operare efficacemente all’interno della realtà fisica e raggiungere gli obiettivi conoscitivi che [le seity] si sono proposte di ottenere con tale incarnazione» (p. 231). In questo “processo di incarnazione” accadrebbe che la seity Uomo, universale, assuma un «carattere» (p. 291), particolare, dando così origine ad una “incarnazione singolare” che sarebbe l’individuo — o, in termini quantistici, uno stato eccitato del campo «umanità».

Ora: Faggin dice che lo «ego» sia la «parte» di coscienza della seity che si è identificata col corpo (p. 231); ma, siccome la seity non può dividersi in “parti” (p. 203); sarebbe forse più corretto dire che lo ego sarebbe uno “sguardo” della seity, una prospettiva estremamente particolare, ma irriducibile, da cui la seity conosce sé stessa attraverso la carne.

Questo è importante perché la seity, esistendo in una realtà più vasta di quella fisica in cui esiste il corpo, continuerebbe ad esistere anche quando il corpo si disgrega (p. 187). Ciò sarebbe dovuto al fatto che le seity sono eterne, e che l’Uomo, in quanto seity, è eterno (p. 212). Ora: siccome ogni singolo individuo, in quanto ego, sarebbe uno sguardo della seity — ebbene: ogni individuo perderebbe sì il corpo, come simbolo vivo, ma non diverrebbe niente, reintegrandosi singolarmente con la seity stessa (p. 231). In altre parole: ognuno di noi, come sguardo con cui la seity Uomo conosce sé stessa, sarebbe eterno.

La presunta eternità di ogni individuo ci porta all’ultimo tema del saggio di Faggin che intendiamo affrontare in questa sede. All’inizio del capitolo 10, introdotto da una citazione in esergo di Emanuele Severino: «Ognuno di noi è un dio con la convinzione di essere contingenza, ombra di sogno»[2]; Faggin fa un’affermazione perentoria: «Tutti noi abbiamo una natura divina. Questa è la nostra vera essenza, e il nostro compito è cercare “di ricondurre il divino che è in noi al divino che è nell’universo”[3]» (p. 220).

C’è un’ammissione implicita: posto che noi siamo in quanto singolari prospettive della prospettiva singolare della seity Uomo; posto che essa è in quanto Uno l’ha conosciuta/creata/amata — ebbene: Uno è Dio, o meglio – per usare categorie che saranno state letteralmente familiari a Faggin: esso è la divinità (Deitas) irriducibile ad ogni determinazione formale (Deus)[4]. Dunque: Uno è la Deitas in ognuno di noi (oltre che in ogni seity).

Tale verità ognuno di noi è chiamato a rinvenirla laddove si trova, ovverosia: nella nostra intimità più intima, nella coscienza che è la nostra essenza. A tal proposito, Faggin aggiunge:

Io credo che siamo tutti parte integrante di un’avventura di coscienza cooperativa e magnifica, il cui fine è scoprire che ciascuno di noi ha Uno dentro di sé e ha anche un dono speciale che lo rende unico e insostituibile: quel particolare punto di vista con cui Uno ha conosciuto se stesso quando ci ha dato esistenza (p. 222).

Il divenire ha una teleologia perché Uno ha un desiderio: conoscere sé stesso sempre più, quindi amare sempre più. Tale desiderio, pur non completamente soddifacibile, è assecondato incessantemente dalle seity create da Uno, che sono Uno e che amano e si amano come Uno le ama. La seity Uomo non fa eccezione — il suo scopo essenziale è dunque già stabilito: conoscere sé stessa e, in sé stessa, amare ciò che è sé stessa, cioè: Uno. Ogni individuo, infine, in quanto legato alla seity Uomo, è chiamato a partecipare allo stesso destino.

Un destino che è segnato anche dalla presenza del male; il quale però, essendo un difetto nel processo conoscitivo, una forma d’ignoranza, può essere corretto, forse perfino sconfitto in virtù di una conoscenza migliore di sé come ego, come ego nella seity, come seity nel Tutto-Uno. Tale conoscenza non consiste – ribadiamolo – nell’accumulo di nozioni, d’informazioni, di “cose” sapute; bensì nell’intellezione spirituale della vita divina stessa, esperita secondo le sue infinite e singolarmente irriducibili possibilità.

E siccome una conoscenza migliore significa anche un più grande e generoso amore; allora potrebbe essere vero, anche secondo la teoria quantistica QIP, ciò che dice il sommo poeta Dante: che è l’Amore a muovere il sole e le altre stelle (Paradiso, XXXIII, v. 145) perché, come dice invece l’evangelista Giovanni: Ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν (1Gv IV, 16).

(Fine)

[1] Dal Glossario allegato al saggio: «L’entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno che crea correlazioni non locali tra gli stati dei campi che hanno interagito. […] Quando avviene un’interazione tra due sistemi quantistici, si crea un sistema più ampio il cui stato non è più descrivibile come la semplice somma degli stati dei sistemi che hanno interagito. Questo significa che i sistemi interagenti non sono più indipendenti, e quindi la misurazione di un’osservabile di uno dei due determina simultaneamente il valore della stessa osservabile anche per l’altro sistema, indipendentemente da quella che è la loro distanze fisica

[2] E. Severino, Un tedesco mi consegnò il mitra e scappò, in “Corriere della Sera”, 31 dicembre 2018.

[3] Porfirio, Vita di Plotino, II [25]

[4] La distinzione è di Meister Eckhart, posta in rilievo da Giuseppe Faggin nella sua introduzione all’antologia di scritti del mistico intitolata: La nascita eterna, Sansoni, Firenze 1953, p. XIV.

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