Redattore

Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).

Secondo la percezione socialmente condivisa che ne abbiamo, si può affermare che una «crisi», qualsiasi crisi, quindi ogni crisi, e dunque “la” crisi, è un’interruzione della normalità. «Normale» è ciò che segue una norma, cioè realizza un’aspettativa rispetto a ciò che dovrebbe essere – perciò, la «normalità» risulta essere l’insieme complessivamente organico delle aspettative poste da altrettante norme per la significazione della realtà. Pertanto, si può affermare che la crisi appaia come ciò che segnala l’avvenuta disattesa delle aspettative rispetto a ciò che dovrebbe essere.

In quanto canone del “dover-essere”, la norma è un prodotto del pensiero: si creano aspettative perché la realtà viene pensata. Perciò, la crisi segnala la mancata manifestazione nella realtà fattuale di ciò che era stato pensato che avrebbe dovuto essere – per intenderci: se fino a un certo momento ciò che era pensato corrispondeva (pressappoco) ai fatti, da allora tale corrispondenza viene meno. Ora: è proprio dal venir meno di questa corrispondenza, cioè dalla discrepanza che s’insinua tra normalità e fattualità che emerge la natura non più soltanto percepita, bensì essenziale, della crisi.

«Crisi», cioè «Κρισις»: “scelta, decisione” – il suo significato etimologico rivela la sua essenza ontologica. Ciò che è rilevante della crisi non è il suo “segnalare”, bensì il suo “pretendere” essenziale. E ciò che la crisi pretende è, appunto, una decisione: la crisi è decisione. Ma è una decisione che inerisce ad un contesto particolare, cioè quello dell’interruzione della normalità. In tale contesto, le norme che soggiacciono alla significazione della realtà sono state sospese – «sospese», non «annullate»[1].

La sospensione delle norme comporta ipso facto la sospensione del pensiero che quelle norme ha pensato. In altre parole, il modo di pensare la realtà fino al momento della crisi, si cristallizza, diventando auto-evidente – spogliandosi contestualmente dell’ottusità inerziale che segna ogni situazione normale[2]. Ora: ogni decisione, in quanto tale, è propriamente umana quando matura dal pensiero. Perciò, la decisione implica il pensiero. E così, il pensiero implicato nella decisione, cioè nella crisi, è pensato secondo il modo di pensare precedente la crisi: attinge al “già-pensato”, non al “non-ancora-pensato”. In questo senso, però, il “già-pensato” dal quale matura la decisione assume la caratteristica sostanziale del postulato: ovverosia, quella di essere una proposizione posta senza essere giustificata. La giustificazione di una proposizione, infatti, presuppone la sua critica, la quale implica il pensiero – ma essendo il pensiero, nella crisi, pensiero “già-pensato”, ne consegue che non vi sia critica, dunque neanche giustificazione. In questo senso, possiamo dire che la crisi viene affrontata sulla base di postulati[3].

Nella crisi provocata dalla pandemia sono emersi chiaramente due postulati – retaggio della normalità che ha contrassegnato la civiltà “occidentale”[4] almeno dagli anni ’50 del Novecento. Il primo postulato è inerente alla società, ed afferma che il “bene” della società stessa sia legato imprescindibilmente alla crescita economica. Insomma, affinché la società prosperi sarebbe necessario mantenere in positivo l’indice percentuale di crescita del prodotto interno lordo dei vari paesi che quella società costituiscono. Ora: parlare di «bene» comporta che ciò che partecipa del bene diventi un valore. Ergo: la crescita economica sarebbe diventata un valore[5]. E siccome i valori sono ciò che innerva e conferisce l’identità ad una civiltà, possiamo affermare che la civiltà occidentale contemporanea riconosca come valore proprio quello della crescita economica incessante.

 Il secondo postulato è inerente all’Uomo in quanto individuo, ed afferma che il “bene” dell’individuo sia legato imprescindibilmente alla sopravvivenza. Ad un’interpretazione frettolosa, questo postulato parrebbe lapalissiano, se non tautologico: è ovvio che l’individuo necessiti di (soprav)vivere per essere individuo – altrimenti, non sarebbe nemmeno. Perciò, sarebbe un bene che l’individuo (soprav)viva – di conseguenza, la sopravvivenza diventerebbe un valore accettabile intuitivamente. Ma indaghiamo più approfonditamente l’idea di «sopravvivenza» sulla quale si fonda tale secondo postulato.

Intanto, procediamo considerando ciò che nega assolutamente la sopravvivenza, ovverosia la «morte»: dal secolo XIX, e con una tendenza progressiva, la morte in Occidente ha subito un processo di tabuizzazione[6]. Rimossa dalla dimensione sociale così come da quella individuale, la morte è stata privata di senso, ridotta a mèro fatto biologico. Contestualmente, un’altra negazione della sopravvivenza ha subito una radicale, e riduzionistica, ri-semantizzazione, ovverosia la «sofferenza»[7]. Questa è infatti diventata male tanto radicale quanto insensato, uno spettro da esorcizzare invocando il nome, e l’intervento, di quel dio buono ed immanente che è la Scienza – in verità, la Tecnica applicata alla scienza medica.

Da queste considerazioni, si ricava che la «sopravvivenza» postulata sia quella della “nuda vita”. Pertanto, la civiltà occidentale contemporanea riconosce come valore quello della “nuda vita”: il “bene” dell’Uomo in quanto individuo consisterebbe allora nella mèra sopravvivenza biologica, che è divenuta valore in sé[8]. La crisi pandemica ha dunque fatto emergere due postulati, quello della «crescita economica» e quello della «sopravvivenza». La crisi, che pretende di risolversi nella decisione, rende quest’ultima una sorta di “riflesso condizionato” da quei due postulati. I fatti stanno lì a confermarlo: ogni strategia adottata dai vari governi dei paesi occidentali è stata incardinata su di essi[9].

  A riprova di ciò, basti considerare la deprecabile stigmatizzazione, e conseguente marginalizzazione imposta dalla propaganda ufficiale[10], a tutti coloro che hanno tentato una critica di quei postulati – critica non intesa di per sé a confutarli nella sostanza, quanto piuttosto a confutarne la pretesa ingiustificabilità[11]. Abbiamo infatti detto che un «postulato» è una proposizione non giustificata, cioè assunta a-criticamente. Di conseguenza, per definizione non ammette critiche – di qui la stigmatizzazione, e conseguente marginalizzazione di quanti si sono arrischiati alla critica, ed anche la conferma che ci siamo ritrovati di fronte a dei postulati.

 L’impraticabilità critica rende manifesto un altro elemento caratteristico della crisi: la contingenza cronologica. La critica è esercizio del pensiero; ma il pensiero richiede tempo – in questo senso, ci pare ancora suggestiva l’immagine della «nottola di Minerva» adottata da Hegel per descrivere la specifica a-sincronia della riflessione filosofica rispetto all’accadere degli eventi[12]. Rispetto al pensiero, la crisi pretende invece sincronia, contemporaneità rispetto ai fatti – per l’appunto adotta il “già-pensato”, cioè il postulato. Come corollario di ciò, la gestione della crisi risulta appannaggio degli agenti della contemporaneità: i politic(ant)i demagoghi, con la loro bulimia elettorale; ma, soprattutto, l’apparato mediatico. Nella nostra epoca, è quest’ultimo ad ergersi a vero e proprio gestore della crisi. Ora: siccome la crisi attribuisce il potere ai suoi gestori, ecco che nella crisi il potere dell’apparato mediatico cresce. Ma in questo senso, l’atteggiamento tracotante e narcisistico dell’apparato mediatico tradisce la sua intenzione maliziosa di fondo: qualora essa manchi, produrre la crisi stessa per assecondare il proprio desiderio di potere. Naturalmente, i demagoghi si adattano subito a questo atteggiamento, parassitandone la perversità.

I postulati della civiltà occidentale contemporanea sono dunque la «crescita economica» e «la sopravvivenza». Si potrebbe pensare che i due non debbano necessariamente saldarsi insieme. Ma la verità è che due postulati, all’interno di uno stesso sistema, se non proprio saldarsi, devono comunque convivere, cioè essere salvaguardati entrambi. E così, l’Uomo ridotto a “nuda vita” risulta contestualmente partecipante, più o meno consapevole e più o meno accondiscendente, di una società devota alla crescita economica incessante. In questa situazione, c’è sempre il rischio incombente che i due postulati possano saldarsi davvero: così che l’Uomo si ritrovi ad esser divenuto un sopravvivente produttore/consumatore. Quest’ultimo era il rischio intrinseco della normalità precedente la crisi. Ma una domanda inquietante affiora: era il rischio, oppure era la condizione reale? Oltre la crisi, c’è la ricostruzione di una normalità. Ebbene: davvero vogliamo ritornare alla normalità precedente questa crisi epocale?

Note:

[1] La fine della crisi è sempre segnalata dall’instaurarsi di una nuova normalità. Ma questa instaurazione non accade d’emblée, bensì matura nel corso del tempo – cosicché, ciò che da una certa prospettiva potrebbe essere interpretato come un processo di «normalizzazione», dalla prospettiva complementare potrebbe esserlo come l’«esaurirsi» della crisi stessa.

[2] È proprio questa “auto-evidenza” del pensiero che rende la crisi quel “laboratorio privilegiato” per analizzare la società del quale parlava Gianfranco Miglio.

[3] Riprendendo quanto detto alla nota 1, si comprende ora meglio il senso della complementarità delle due prospettive interpretative della progressiva cessazione della crisi: considerando quest’ultima come un processo di «normalizzazione», si rileva che nuove norme vengano pensate, e perciò sia stato ri-attivato il pensiero; considerandola invece come «esaurirsi» della crisi stessa, allora vale quanto stiamo affermando nel nostro discorso.

[4] Concetto tutt’altro che perspicuo, quello di «civiltà occidentale». Nel contesto di questo discorso, la intenderemo, sempre con beneficio d’inventario, come la civiltà della quale partecipano gli Usa e l’Europa dall’Atlantico fino ai confini con la Russia e la Turchia.

[5] Abbiamo adottato la dicitura «bene» con la «b» minuscola per differenziarlo dal «Bene» autentico. Così facendo, abbiamo voluto esprimere graficamente la nostra intenzione – non esaudibile esplicitamente nel contesto di questo discorso – di evidenziare la sussistenza di differenze tra le due concezioni di «bene». Per una trattazione esplicita di queste differenze, si rimanda al nostro articolo: N. Mochi-Poltri, La tecnica eteronoma. Dall’Uomo tecno-logico all’Uomo agato-logico, https://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=9404

[6] Cfr. Ph. Aries, Storia della morte in Occidente, trad. it. di S. Vigezzi, BUR, Milano 1998 e L-V. Thomas, Antropologia della morte, a cura di M. Spinella, Garzanti, Milano 1976.

[7] Cfr. B.-C. Han, La società senza dolore, trad. it. di S. Aglan Buttazzi, Einaudi, Torino 2021

[8] A proposito del tema della sofferenza, vorremmo aggiungere che la sopravvivenza come “nuda vita” reclama anche le migliori condizioni di vita possibili, intese appunto come “assenza di sofferenze”. Questo elemento è già implicato nell’accezione lato sensu della “nuda vita”: se infatti riduciamo l’Uomo esclusivamente alla sua dimensione biologica, ecco che automaticamente viene espunto tutto ciò che potrebbe negarla, cioè tutte le forme di sofferenza. Mutatis mutandis, rimuovere tutte le forme di sofferenza comporta contestualmente la volontà di soddisfare ogni forma di desiderio. Pertanto, nella metafora della “nuda vita” sono implicate tanto la sopravvivenza biologica stricto sensu, quanto il soddisfacimento puntuale di ogni desiderio.

[9] Occorre naturalmente, e opportunamente, fare i dovuti distinguo: non ovunque in quella che abbiamo chiamato “società occidentale” questi postulati hanno avuto la medesima cogenza, anzi. I casi senz’altro più interessanti sono quei paesi  che, pur facendo parte dell’Unione Europea, hanno manifestato forti resistenze alle direttive dell’Unione stessa – per inciso, i paesi del cosiddetto “Gruppo di Visegrád”. La domanda sorge spontanea: sarebbero forse “meno” europei perché meno ossequiosi delle direttive di Bruxelles? Di conseguenza, l’atteggiamento di quei paesi provoca ad interrogarsi sulla raison d’être dell’Unione Europea, e su quali siano le sue intenzioni e prospettive sul futuro. Questi interrogativi si sono fatti più urgenti con l’avvento della crisi, ma di fatto accompagnano quest’Unione quantomeno dal Trattato di Maastricht (1992).

[10] Per «ufficiale» intendiamo quella appannaggio dell’autorità vigente, che durante la crisi è la custode dei postulati.

[11] Non a caso, ad essersi spesi in quest’operazione benemerita sono persone di grande caratura intellettuale ed alto profilo civile. Due su tutti: Massimo Cacciari e Giorgio Agamben. Cfr. https://www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi/massimo-cacciari-giorgio-agamben-a-proposito-del-decreto-sul-green-pass.html

[12] G.W.F. Hegel, Prefazione, in Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza 1999, p. 17.

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