Michele Carbè è laureato in Storia e Cultura dei paesi mediterranei presso l'Università degli studi di Catania. I suoi principali ambiti di studio sono la Storia contemporanea e la Storia delle dottrine politiche.
Recensione a
F. Cardini, Il dovere della memoria
La Vela, Lucca 2020, pp. 192, €15,00.
Quando parliamo di memoria collettiva ci riferiamo ad un patto in cui si ci accorda su cosa tenere e su cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato. Sostanzialmente, costruire la memoria è un’operazione di selettività che coincide con la necessità di un popolo di ricordare per non svanire e non finire nei meandri dell’oblio. Ricordare vuol dire, quindi, avere un albero genealogico della nazione, edificare le fondamenta su cui basare lo studio dei programmi della scuola, i luoghi della memoria da visitare, i calendari delle festività civili da commemorare. Insomma, vuol dire avere un’essenza come collettività.
Su tale argomento s’incentra Il dovere della memoria, nuovo saggio di Franco Cardini, noto medievista e divulgatore della materia storica al grande pubblico. Egli sostiene che «la memoria è la garante della nostra identità. Come diceva Platone, sapere è ricordare: se non ricordiamo, non sappiamo niente: peggio, non siamo niente» (p. 17). L’uso della memoria collettiva però molto spesso ha uno sviluppo strumentale da parte delle élites politiche. Nel caso dell’Italia basti pensare al dibattito acceso intorno a due commemorazioni laiche, divenute ormai da alto valore simbolico, ovvero la Giornata della memoria e il Giorno del ricordo.
Nel luglio del 2000 fu istituita in Italia la Giornata della memoria. Si stabilì che il 27 di gennaio, il giorno in cui, nel 1945, le truppe sovietiche liberarono il campo di sterminio di Auschwitz, diventasse la data della commemorazione delle vittime della Shoah. L’Olocausto è un evento unico nella storia dell’umanità, soprattutto per la modalità “scientifica”, sistematica, industriale, con cui venne inflitta la morte a milioni di esseri umani inermi, vecchi, donne e bambini. Come afferma il professor Cardini, sono proprio «le sue sia pur obiettivamente paradossali intenzioni programmatiche di tipo sedicente umanistico-umanitario (umanesimo biologico) che la rende imperdonabile» (p. 32). In tempi di antisemitismo risorgente occorre tenere ferma quella memoria.
Ciò detto, per Cardini la Giornata della memoria dovrebbe servire soprattutto da stimolo per l’individuazione degli altri genocidi, di quelli remoti nel tempo o di quelli ancora in atto. Ogni 27 gennaio dovremmo ricordare anche i nativi americani massacrati dall’alcool e dalle coperte infette di vaiolo, oppure il genocidio degli armeni ed i più recenti crimini commessi in Cina, in Cambogia, oppure evidenziare come il continente africano sia ridotto alla fame a causa dello sfruttamento delle corporations multinazionali. In definitiva, la funzione teleologica della Giornata della memoria dovrebbe essere essenzialmente quella di individuare gli altri e i nuovi genocidi per non far diventare il ricordo dei milioni di morti nei campi di sterminio nazista solo un mero esercizio retorico. Un caso esemplare di memoria obliata, in Italia, è il massacro delle foibe. Si è tornati a parlarne con cognizione di causa e serenità di giudizio soltanto dopo decenni di dimenticanze, soprattutto dovute alla volontà di dirigenti e semplici militanti del Pci, in cui si è negata o minimizzata questa tragedia, accusando istericamente di fascismo chiunque ne parlasse, anche gli stessi sopravvissuti a quegli orrendi massacri. È stato così che una legge nazionale del 2004 ha istituito il Giorno del ricordo, a seguito di un dibattito parlamentare che è sorto anche sulla scia dell’approvazione, quattro anni prima, della Giornata della memoria.
Tornando al libro, il professor Cardini, ben lontano da assurde furie iconoclaste, ci delinea alcuni esempi meritevoli di attenzione intorno al tema della memoria. Esamina così la carriera del primo ministro britannico Winston Churchill, rilevando come questa sia stata ricca di lati oscuri dovuti a errori, ottuse sciocchezze e nefasti pregiudizi. Dalla disastrosa sconfitta di Gallipoli del 1915 fino a quando nel 1921, da ministro delle colonie, fu insieme ai francesi uno dei principali artefici della suddivisione dei territori ottomani del Medio Oriente, spartizione coloniale che è ancora oggi causa dei tanti conflitti in quell’area. Il punto centrale della critica di Cardini all’operato di Churchill verte sulla sua responsabilità e la durata del secondo conflitto mondiale. Lo storico fiorentino, grazie anche a interessanti riferimenti bibliografici, ci mostra come in realtà lo scopo di Hitler non fosse quello di scatenare una guerra ad Occidente. La Germania, nel 1939, oltre ad avere una ridotta capacità offensiva, non era ancora quella della conferenza di Wannsee, in cui si decise la terribile “soluzione finale”. A giudizio di Cardini, Hitler, una volta scoppiato il conflitto ad occidente, sarebbe stato propenso a pacificarlo il prima possibile, ansioso com’era di conquistare il proprio “spazio vitale” (Lebensraun) ad oriente. Oltretutto Hitler, da razzista dottrinario qual era, sognava un’alleanza nordica con gli inglesi in chiave anti-slava. Qui, il riferimento alle tesi di Carl Schmitt per un impero del mare e uno della terra appare chiaro.
Altre macchie sono ascrivibili a Churchill, come quando nel 1952 l’Iran fu abbandonato all’avidità delle lobbies petrolifere, gettando le basi per la futura rivoluzione islamica del 1979. Senza dimenticare anche l’atteggiamento razzista del primo ministro inglese nei confronti delle colonie britanniche (soprattutto) bengalesi con gli “embarghi assassini” che durante la seconda guerra mondiale costarono la vita a quattro milioni di persone.
In alcuni capitoli viene descritta l’Italia dei primi del Novecento e la sua volontà di un ruolo e di una funzione storica dell’Italia nel Mediterraneo o quantomeno la secolare aspirazione di essa, tanto da chiedersi: «24 maggio 1915: e se ci fossimo schierati con il Kaiser?» (p. 64). In pochi decenni tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, l’Italia cambiò fronte delle alleanze nello scacchiere europeo per questioni fondamentalmente geopolitiche. Nonostante questo, dallo “schiaffo di Tunisi” alla “pace negata” della conferenza di pace di Parigi (1918-1920) si evince da parte delle nostre élites politiche una scarsa scaltrezza nel muoversi sullo scenario internazionale e soprattutto la tendenza a subire, grazie anche agli errori politici del presidente statunitense Woodrow Wilson, il comportamento egoistico dei governi di Francia e Inghilterra, potenze che imposero all’Italia un trattato a loro esclusivo vantaggio. Storture ed egoismi nazionali che per Cardini, citando lo storico tedesco Ernst Nolte, generarono una seconda guerra dei Trent’Anni, ovvero la seconda Guerra mondiale inserita in uno stretto rapporto di causalità tale da renderla figlia della “cattiva pace” stipulata dopo la Grande Guerra.
Nel libro si trova anche un capitolo dedicato all’olocausto nucleare subito dal Giappone, alle scuse negate dell’amministrazione statunitense di quello che in effetti fu un test nucleare con cavie umane che ebbe il costo di 400.000 vittime in un Giappone già piegato e prossimo alla resa. Una diversa retrospettiva è dedicata al piano Piano Marshall, descritto come denaro a prestito usato come testa di ponte per una sottomissione non solo economica di un’Europa distrutta dalla guerra; e poi ancora pagine sulla rivolta dei Boxer ed i massacri di piazza Tienanmen.
In brevi e taglienti capitoli Cardini ci spiega, insomma, come lo storico non faccia altro che trovarsi davanti ad un numero di fatti potenzialmente infinito e per questo motivo ha la necessità di seguire un criterio in base al quale scartare alcuni fatti e sceglierne altri. La storia, sostiene l’Autore, non può essere un tribunale di moralisti, poiché un approccio moralistico è quanto di più sbagliato possa essere fatto alla ricerca storica. Del resto le vittime dei vincitori non devono contare di meno di quelle dei vinti. Il libro non è una revisione organica di determinati avvenimenti, ma piuttosto mette in risalto come la narrazione storica e la conseguente costruzione della memoria possano essere soggette ad usi strumentali e funzionali a interessi di parte per il mantenimento di un determinato status quo. In conclusione il libro si presta ad una rapida e interessante lettura; soprattutto può avere uno scopo propedeutico, finalizzato ad introdurre chi è poco avvezzo alla materia ad una comprensione migliore e globale di determinati fatti storici.