Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
R. Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto
Adelphi, Milano 2013 (rist.), pp. 242, € 11,00.
Imperversano negli USA le asprezze dei Black Lives Matter e della cancel culture. Le minoranze razziali, le donne, i gay e vari altri gruppi denunciano l’oppressione loro inflitta dal mainstream bianco-maschio-eterosessuale. Non è una novità. Già da decenni la presunta cultura dominante negli USA è stata minata da un’altra cultura – questa sì dominante: la cultura del politically correct, una cultura partorita nelle università americane a partire dal 1968 e che si è ingrossata sino a imporsi come una cappa moralistica di censura nei confronti di ogni manifestazione culturale (letteraria, artistica, storiografica, politica) irrispettosa dei nuovi dogmi.
Robert Hughes (1938-2012), storico e critico d’arte, impareggiabile polemista e acuto osservatore delle tendenze culturali americane, raccolse nel libro che oggi commentiamo i testi di tre conferenze da lui tenute a New York nel 1992. Le conferenze hanno a oggetto l’acceso dibattito sul rapporto tra libera cultura e canoni di correttezza politica. La prima conferenza (Cultura in un corpo civile lacerato) offre un impietoso panorama della società americana dei primi anni Novanta e si sofferma su un aspetto specifico del dogma del politicamente corretto, il vittimismo. La “cultura del piagnisteo” si edifica a partire dall’idealtipo del Nemico: il maschio-bianco-eterosessuale-inglese-protestante. Le vittime del Nemico non si contano: indiani, chicanos, afroamericani, donne, gay, ebrei, cattolici. Una delle risposte elaborate dal “piagnisteo” è la lingua politicamente corretta, infarcita di eufemismi (“nativo americano” al posto di pellerossa, etc). Hughes si chiedeva cosa accadrebbe se un domani si introducesse forzatamente nelle lingue romanze la neutralità sessuale: oggi con la “schwa” abbiamo trovato la risposta. Altri passaggi della prima conferenza si riferiscono a episodi di cronaca politica del 1992 e, pur resi interessantissimi da scioltezza di scrittura e vivacità d’ironia, risultano datati. La terza conferenza (La morale in sé: arte e illusione terapeutica) esamina con verve e intelligenza gli effetti nefasti (e ridicoli) della “correttezza politica” applicata alle arti visive. Queste sono forse le pagine più belle del libro. L’Autore (critico d’arte) si muove a proprio agio e qua e là regala scorci illuminanti sul contributo delle arti visive alla formazione del mind americano nonché all’intreccio tra un certo tipo di raffigurazione artistica e il retaggio puritano del Seicento.
Ma veniamo alla seconda conferenza (Multicultura e malcontenti), la più intellettualmente robusta e la più centrata su tematiche storico-politiche. Il chiodo fisso di Hughes è la sterile contesa delle due eguali e opposte culture della politically correctness: conservatori e progressisti portano avanti le proprie bandiere gli uni contro e gli altri a favore del multiculturalismo. Ma occorre intendersi. Il multiculturalismo americano, di per sé, non va relegato tra le aberrazioni dottrinarie dell’ideologia liberal perché, nella sua accezione originaria, esso è buona cosa: un libero confronto tra culture, anche un duro confronto, ma fecondo di originali sintesi. Il multiculturalismo preso di mira da Hughes mostra un altro volto: il separatismo culturale delle minoranze, di tutte le minoranze contrapposto alla cultura dominante, che si asserisce essere la cultura wasp dei bianchi-maschi-eterosessuali. Questa cultura wasp sarebbe intrinsecamente oppressiva delle minoranze razziali, di gender e di stili di vita e va bandita. Ora, Hughes si offre come epitome vivente della cultura wasp: egli, che è maschio, bianco, anglosassone, cristiano (ex cattolico), figlio dell’Australia britannica del tempo che fu, ricostruisce in pagine vive e seducenti i limiti ma anche il fascino dell’educazione culturale ricevuta.
Per gli australiani della sua generazione «la letteratura inglese ci conduceva al mondo dell’immaginazione romantica e provvedeva anche a offrirci un passato eroico e nobile in cui immedesimarci, e strutture etiche da cui derivare modelli per le nostre fantasie, se non per la vita reale» (p. 115). Il debito contratto con la cultura wasp resta immenso per tutti i figli dell’ex impero britannico e per i nordamericani. Può darsi, aggiunge Hughes, che l’educazione “classica” dell’umanesimo britannico (e occidentale in senso lato) pencolasse un po’ troppo verso il monismo culturale, ma i confini di questa educazione erano tutt’altro che rigidi e anzi estremamente porosi, sempre valicabili e potenzialmente aperti al confronto. E lo si vede bene anche a proposito del “canone occidentale” in voga in America nei primi decenni del XX secolo: un elenco di imprescindibili opere del pensiero e della letteratura occidentali di ogni epoca, un fortilizio di alta cultura che andava difeso a spada tratta contro le pulsioni innovatrici provenienti dal minimalismo culturale o da tradizioni di pensiero extra-occidentali. L’idea stessa di un “canone” era errata perché la cultura non conosce confini e la lettura è una perenne scoperta di nuovi autori, nuove idee e nuove sperimentazioni artistiche. Il “canone” conteneva in sé un malefico effetto collaterale, cioè la fossilizzazione dell’alta cultura in un percorso rigidamente predefinito.
Chi elaborò il “canone occidentale” nutriva una grande paura dell’imprevedibile e non si accorgeva che quello stesso “canone” non era altro che il geniale prodotto della libertà espansiva dell’intelligenza e della ricerca. Chi si abbeverava al “canone” apriva la propria mente all’inesauribile ricchezza della cultura occidentale e per ciò stesso oltrepassava il canone, i cui steccati si rivelavano quindi illusori. Ma oggi – denuncia Hughes – gli ambienti liberal colpiscono al cuore non il “canone” ma proprio i grandi classici, demonizzati, accusati grottescamente di non mantenere il passo con l’odierna “correttezza politica” e di non comprendere le culture alternative e di minoranza. Dall’accademia il pregiudizio contro le opere classiche scritte da “bianchi-maschi-eterosessuali”, per giunta defunti, è sceso negli studenti i quali credono che «il modo giusto di affrontare un testo sia di misurarlo alla svelta col politicometro per poi dare la stura a un fiotto di stereotipi moraleggianti» (p. 140). Dal “canone occidentale” siamo tracimati nel “canone anti-occidentale”, e dunque la cancel culture oggi processa Cristoforo Colombo e, in quanto bianco-maschio-europeo (e cristiano), lo condanna per ogni nefandezza. Si confeziona il mito del “buon selvaggio” (riprendendolo da Rousseau, ironicamente un classico inserito nel “canone occidentale”), dimenticandosi che nell’America pre-colombiana i nativi si tagliavano reciprocamente la gola da secoli.
I dogmi del “politicamente corretto” applicati alla storia si riducono infallibilmente ad anacronismi moraleggianti dai quali gli storici seri si tengono alla larga nella misura in cui non si trasformino anch’essi in assertori della nuova “narrazione”. Hughes, abile e fine polemista, non guarda in faccia a nessuno e non si contano i suoi lucidi attacchi e l’ironia dissolvitrice ai danni delle nuove ma anche delle vecchie narrazioni. Si prenda il caso del mito del West alla John Wayne. Hughes ne traccia con tocchi magistrali la genesi culturale e ne denuncia le storture propagandistiche e la diretta ascendenza dalla ottocentesca visione del mondo degli wasp (F.J. Turner). Ed evidenzia gli usi e abusi che del West ha fatto la destra conservatrice elevandolo a mito individualista e antistatalista. Ma subito dopo si volge all’afrocentrismo che proprio oggi con i Black Lives Matter è tornato alla ribalta. Le tesi afrocentriste, unite alla storia “rivisitata” della schiavitù, formano il nucleo più aggressivo della visione liberal politicamente corretta.
Il fondatore dell’afrocentrismo, Cheikh Anta Diop («un mattoide», secondo Hughes) sosteneva una tesi tanto semplice quanto fragile: l’antico Egitto, tramite il Nilo, era strettamente legato all’Africa profonda; gli Egizi (Faraoni compresi) oltre che africani erano proprio «negri» (come attesterebbe un problematico passaggio di Erodoto); la civiltà greco-romana deve tutto all’Egitto negro; la civiltà europeo-americana deve tutto alla greco-romana; ergo la civiltà americana deve tutto all’Africa nera. E tuttavia i negri d’America restano dei minus habens. Le tesi afrocentriste hanno fatto presa negli ambienti educativi nordamericani perché da un lato offrono uno stereotipo romantico, l’Africa quale madrepatria originaria; dall’altro “riparano” i torti e assegnano alla minoranza razziale il primato morale e civile. All’afrocentrismo si collega la rielaborazione della storia della schiavitù, «una sorta di storia riparatrice in cui tutta la colpa di aver ideato e praticato la schiavitù ai danni dei negri è attribuita agli europei» (p. 169). Si ignora volutamente l’esistenza della schiavitù in terra d’Africa già prima del XV secolo; si trascura che la tratta dei negri fu praticata dal sec. IX dagli islamici con la collaborazione di alcune tribù negre dominanti; si dimentica che «soltanto l’Europa e il Nordamerica si dimostrarono capaci di concepirne l’abolizione » (p. 173) mentre il commercio di schiavi tra Africa e mondo arabo continuò sino al 1950 circa. E tutto questo perché il dogma della “correttezza politica” impone che la colpa della schiavitù ricada solo sul bianco-maschio-europeo. Questo dogma «continua a infestare le discussioni sulla schiavitù» (p. 173), oggi ancor più che nel 1992.
La condanna in blocco della cultura europea come cultura di oppressione è funzionale al separatismo culturale delle minoranze. Ma i primi perdenti di una simile impostazione sono proprio gli afroamericani. Hughes lo afferma bene e senza giri di parole: la cultura europea, tra quelle presenti nel palcoscenico mondiale, è la più labirintica, la più diversificata, la più antidogmatica, e soprattutto sa parlare di libertà a tutti gli uomini, agli oppressi e alle minoranze. Demonizzare questa cultura (dopo averla resa una caricatura) e contrapporla alla cultura specificamente afroamericana (o nativo-americana) significa privare le stesse minoranze (che si vorrebbero tutelare e “risarcire” dei torti subiti), delle fonti genuine di libertà ed emancipazione che la cultura “bianca-maschia-europea” può loro abbondantemente offrire. Una conclusione paradossale sulla quale vale la pena riflettere. Oggi più che mai.