Dino Cofrancesco (Arce, 1942) è Professore emerito di Storia delle Dottrine Politiche dell’Università degli Studi di Genova. Ha diretto il Centro per la Filosofia Italiana e il Centro internazionale di Studi Italiani presso il medesimo Ateneo. È nel Comitato Scientifico o Direttivo delle riviste «Nuova Storia Contemporanea», «Il Pensiero Politico», «Libro Aperto», «Quaderni di scienza politica», «Civitas et Humanitas», «Paradoxa». Ha collaborato con varie testate giornalistiche ("Corriere della Sera", "Il Foglio", "Libero", "Il Riformista", "Il Dubbio"). Ha scritto numerosi saggi sul liberalismo, sullo stato nazionale, sulla destra radicale. Il suo volume più recente è Per un liberalismo comunitario. Critica dell'individualismo liberista (Edizioni La Vela, Lucca 2023).

A Ortensio Zecchino

Per comprendere la cultura laica, le sue luci e le sue ombre, occorre porre mente al nostro secondo dopoguerra. Il fascismo, soprattutto a causa della sua scellerata alleanza con il nazionalsocialismo, era crollato miseramente, lasciando un’Italia devastata materialmente e spiritualmente. L’immagine del Santo Padre che, visitando il Quartiere bombardato di San Lorenzo (13 agosto 1943), aveva alzato le braccia al cielo, quasi per mettere il paese rimasto orfano di autorità temporali, sotto la protezione di Dio, è, forse, il simbolo che meglio esprime la tragedia che si era abbattuta sulla nazione.

Il 25 luglio era finito il regime, nella notte fatale del Gran Consiglio, e la monarchia, che ne era stata la complice per vent’anni, aveva perso ogni prestigio, al punto che la vettura reale di Vittorio Emanuele III – che avrebbe voluto manifestare la sua solidarietà alle vittime dei bombardamenti – non aveva potuto raggiungere San Lorenzo ed era dovuta tornare indietro a causa dell’ostilità di una folla inferocita. Sembrava ormai che la morte della patria avesse chiuso per sempre il ciclo di storia iniziato nella prima metà dell’Ottocento quando si guardava alla conquistata indipendenza come ai “giorni del nostro riscatto”.

Per molti, la Chiesa si prendeva la sua rivincita sulla breccia di Porta Pia e sarebbero stati gli uomini allevati nelle parrocchie, usciti dalle scuole cattoliche – a cominciare dall’Università del Sacro Cuore di Milano –, i militanti nella risorta Azione Cattolica, che avrebbero raccolto l’eredità politica del Risorgimento a cui il Vaticano era rimasto sempre ostile, anche se si era riconciliato nel 1929 con l’Italia – ma non col suo passato liberale, democratico e massonico – in virtù dei Patti Lateranensi. Che al Risorgimento poi avessero dato un contributo non secondario i cattolici liberali – da Massimo d’Azeglio a Marco Minghetti, passando per Alessandro Manzoni e altri – veniva ricordato solo dalla storiografia laica (considerando tale anche quella dei ‘cattolici adulti’ come Carlo Arturo Jemolo).

La provincia profonda, che nonostante tutte le modernizzazioni (peraltro reali) del fascismo, dava l’impronta al paese e quasi ne rappresentava l’anima più profonda, con le sue piccole città e le campagne che rimasero ancora per qualche anno il nerbo dell’economia, fu il terreno privilegiato non tanto della ‘reconquista cattolica’ (nulla era stato perso e nulla doveva essere riconquistato) quanto della mobilitazione delle masse contro l’Italia moderna, unificata dai padri del Risorgimento e finita nella prima guerra mondiale (“l’inutile strage” deprecata da Benedetto XV) e nel fascismo.

Dio, Patria, Famiglia. Per colpa del fascismo, la patria non era più un valore profondamente sentito dagli abitanti della penisola e, quanto alla famiglia le distruzioni di vite e di beni, causate da una guerra che aveva contato più caduti tra i civili che tra i militari, avevano ravvivato il bisogno di cercare consolazioni là dove tutti popoli, colpiti da grandi disgrazie, le hanno sempre trovate: nella religione, nella fede dei padri. Di qui le processioni, le ’madonne piangenti’, i miracoli, i pellegrinaggi ai santuari, la devozione per il Santo Padre (“Siamo arditi della fede / Siamo araldi della Croce, / al tuo cenno alla tua voce, un esercito all’altar”).

Nel bel film La porta del cielo (1945) Vittorio De Sica raccontava, con commossi accenti, un viaggio a Loreto che negli anni seguenti avrebbe caratterizzato ampiamente la religiosità popolare italiana. Superstizioni popolari per gli ‘spiriti forti’ – che andavano riscoprendo i valori dell’Illuminismo – e, nondimeno, espressioni di sentimenti genuini che, per un liberale pluralista, non possono venir gettati nel cestino della storia e del ‘nuovo che avanza’. A tal proposito, è non poco significativo che il neo-illuminista, cattaneano, Norberto Bobbio non ritenesse liberale il massimo teorico del pluralismo del secolo scorso, Isaiah Berlin.

Il parroco del mio paesino ciociaro, che prima aveva benedetto le cerimonie del sabato fascista, dopo la guerra, riferendosi ai beni della Chiesa secolarizzati dai governi sabaudi, parlava del ‘maltolto’, quasi prefigurando una loro restituzione, ora che i ‘rapinatori’ – i partiti laici e miscredenti, eredi del Risorgimento e ridotti a formazioni minoritarie e lontane dal sentire popolare – erano stati allontanati dal potere. Un sacerdote amico dell’ateo Luciano Pellicani gli confessava, non senza nostalgia, che, nei primi vent’anni trascorsi dopo la fine della seconda guerra mondiale, le parrocchie controllavano anche il respiro dei fedeli.

A impedire l’invadenza clericale delle istituzioni fu proprio il partito democristiano al potere che mantenne in vita, nelle amministrazioni pubbliche, non pochi elementi dello ‘stato di diritto’ costruito dalla Destra storica. Le assunzioni avvenivano grazie al superamento delle prove richieste nell’ampio, tetro, spazio del Palazzo degli Esami di Via Girolamo Induno e molti tecnici di riconosciute competenze del passato regime vennero mantenuti ai loro posti. La tessera del partito (e tanto meno dell’Azione Cattolica) non garantiva la copertura delle cattedre nelle scuole di ogni livello né gli avanzamenti di carriere negli enti statali e parastatali. Paradigmatico il caso di Enrico Mattei che si avvalse di Carlo Zanmatti, già dirigente fascista, dell’Agip in virtù della sua competenza e della sua onestà. Ma la Dc era guidata da un uomo, Alcide De Gasperi, che proveniva da una famiglia senza ricordi e benemerenze risorgimentali, che fino all’ultimo fu, in quanto trentino, suddito di Francesco Giuseppe – un suddito non servile, anzi sempre pronto a battersi per salvaguardare l’italianità delle due Venezie rimaste fuori dal processo unitario –, ma che era dotato di un senso altissimo dello Stato e della sua laicità. Per questo aveva subìto senza batter ciglio l’umiliazione di non venir ricevuto in Vaticano in occasione del trentesimo anniversario del suo matrimonio e dell’entrata in convento della figlia Lucia – umiliazione dovuta a una ripicca di Pio XII al quale aveva rifiutato l’alleanza, patrocinata dall’Operazione Sturzo, della Dc col Msi alle elezioni comunali di Roma del 1952. A Monsignor Pavan, che avrebbe voluto ricucire i rapporti  tra il Presidente del Consiglio e il Pontefice, aveva risposto con orgoglio «non posso dimenticare che sono il leader di un partito e il capo di un governo».

E tuttavia la stessa DC non poteva non fare i conti con una società civile in gran parte dominata dal clero e sapeva bene che, senza l’appoggio di quest’ultimo, le candidature politiche avrebbero avuto pochissime chances di successo. Di qui il nulla osta dato a una chiesa decisa a bonificare gli animi dai veleni modernisti, quasi in base a un tacito accordo: al governo e al partito di maggioranza il compito di fare le leggi e di amministrare la macchina pubblica, alle istituzioni cattoliche la libertà di seminare e rafforzare i valori cristiani con una continua vigilanza dei comportamenti degli individui e delle famiglie. Di qui episodi come quello del vescovo di Prato, che aveva dichiarato pubblici concubini due battezzati che si erano uniti in matrimonio solo con il rito civile, ma anche l’attenzione prestata, per citare un caso non trascurabile, ai professori di storia e filosofia dei licei – allora laboratori obbligati delle classi dirigenti – sospetti di ateismo o di marxismo. Certo nulla si poteva fare contro funzionari – scolastici o no – garantiti dal loro “posto fisso” e dal superamento di un concorso – ma l’atmosfera che si veniva a creare era comunque non poco opprimente, specie nei piccoli centri. Ed è vero quanto scriveva Luigi Einaudi nel 1959 sul “Corriere della Sera”, quasi a difesa del vescovo Pietro Fiordelli:

in regime di libertà, nessun limite è posto alla predicazione ed all’opera del sacerdote. La chiesa ed il suo sagrato sono la casa dei fedeli, dove questi vivono non solo la vita della fede, ma tutta la vita, quella dell’uomo intiero, che fra l’altro, e anche politica ed economica.

Ma è altresì vero che in una società civile, continuamente sotto l’occhio vigile delle autorità ecclesiastiche, potevano scattare sanzioni non di tipo penale (chi avrebbe mai potuto licenziare il coniuge “concubino”?) ma certo sociali, fondate sul ritiro di stima e di considerazione se non sull’isolamento. In quest’Italia che Padre Riccardo Lombardi, “il microfono di Dio”, avrebbe voluto ricattolicizzare tutta – come il fascismo l’aveva voluta tutta in camicia nera –, persino in una grande città del Nord un compagno di classe ebreo o protestante diventava oggetto di diffidenza, un’anomalia curiosa, incompatibile con l’unanimismo di un paese che ha sempre mal tollerato il ‘diverso’. Le cose, in seguito, sarebbero cambiate: lo stesso Padre Lombardi sarebbe finito ai margini della Chiesa – il suo ecumenismo religioso, per cui Dio è presente in tutte le religioni, precorreva troppo i tempi del Cardinal Martini e di Papa Bergoglio, tutti gesuiti forse non casualmente –, mentre Mons. Fiordelli, con le sue “aperture” alle nuove correnti del cattolicesimo toscano, non finì certo tra i seguaci di Mons. Lefebvre.

La cultura laica contribuì, in maniera decisiva, alla denuncia della vigilanza clericale sui costumi e fu decisiva nell’impedire che i cattolici egemonizzassero istituzioni come l’Università e altri centri di cultura –la cui sostanziale laicità, ereditata dall’Italia sabauda, non era stata intaccata dal regime fascista neppure dopo il Concordato. Il neologismo clericofascismo (dovuto all’immaginifico Pietro Nenni) venne agitato come uno spauracchio inteso a squalificare moralmente e politicamente quanti erano sospettati di voler sostituire il dominio delle tonache nere a quello delle camicie nere. Sen-nonché se, per le ragioni dette, i Guido Calogero, i Vittorio de Caprariis etc. potevano avere qualche giustificazione nel loro laicismo intransigente, considerando il momento storico va pur detto che l’anticlericalismo, sostituto dell’antifascismo, collaborò (con i partiti della sinistra marxista) a far relegare nella massa damnationis anche quei cattolici che, pur dotati di un alto senso delle istituzioni, mostravano forti (e talora fondate) riserve sull’apertura a sinistra della Dc. Riserve che  non potevano venir prese in considerazione appunto per la loro matrice clericofascista, anche se coincidevano con quelle dei liberali conservatori alla Giovanni Malagodi (peraltro assimilati da de Caprariis alla destra monarchica e fascista).

Così il centro-sinistra non venne presentato come una (legittima) alternativa ai governi di centro e di centro-destra ma come una vera e propria battaglia di civiltà contro le forze mai dome della reazione, sostenute dalla Chiesa di Pio XII. Ricordo che noi a universitari della sinistra laica e liberaldemocratica le ragioni per le quali si avanzavano perplessità sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica e sui modi di realizzazione dell’istituto regionale sembravano, per citare il grande Eduardo, “aria e rumore”, propaganda reazionaria che non avrebbe arrestato il paese sulla vita del progresso. A riprova che il ‘cordone sanitario’ nella storia italiana è servito soprattutto a nascondere i problemi reali dietro le coperture ideologiche. Tantum potuit religio!, per dirla con l’immortale Lucrezio.

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