Alberto Giovanni Biuso è professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania dove insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica.  Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a
P. Amato; Trincee della filosofia. Heidegger e la grande guerra, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 130, € 12,00.

Campeggiano i papaveri sulla copertina di questo libro. I papaveri che rifioriscono sempre, anche sui campi che videro massacri infiniti e milioni di morti. Quei campi, e molti musei e memoriali d’Europa, Pierandrea Amato ha percorso e ne dà conto nelle pagine dove racconta il pellegrinaggio dentro l’orrore, in luoghi nei quali ha visto, percepito e anche ascoltato la guerra «per quel che è: un affare di carne e di viscere» (p. 99).

Se la guerra accompagna da sempre la specie umana, se essa rappresenta di fatto il basso continuo della storia, che fa da sfondo a tutti gli eventi, la Grande guerra è altro. A un secolo dal suo compiersi, essa costituisce non soltanto lo spartiacque che ha irreversibilmente mutato la vita dell’Europa e quindi del mondo, non è stata soltanto una cesura evidente e netta; quel conflitto rimane ancora sostanzialmente un enigma, una forma dell’arcano che a volte investe gli umani, «una catastrofe antropologica che sul piano politico, economico, persino storico rimane tuttora un mistero» (p. 97). E però quella guerra è stata anche «un disvelamento delle strutture essenziali dell’esistenza umana» attraverso la vita «del soldato delle trincee del fronte occidentale 1914-1918» (p. 9).

La tesi del libro è che gran parte del pensiero heideggeriano, e certamente Essere e tempo, sia inconcepibile al di fuori di questo disvelamento che la Grande guerra è stata e ha rappresentato:

Non esisterebbe la filosofia del giovane Heidegger, almeno per come la conosciamo, il suo vertiginoso lavoro intorno all’esperienza effettivamente storica della vita, al senso dell’essere, la sua Destruktion degli apparati concettuali consolidati, senza la cesura che la Grande guerra impone alla storia, alla cultura, alla politica moderna. Non avremmo i suoi i suoi grandi allievi di Friburgo; non avremmo le variegate ondulazioni della vita quotidiana consegnate alla trama dell’essere; non avremmo né una turbinosa fenomenologia dell’animalità né una considerazione ontologica dell’angoscia. Non avremmo l’idea che la comprensione dell’esistenza e immancabilmente una pre-comprensione non teoretica fondata sul dato che esistere significa prima di ogni altra cosa essere situati in un mondo di rimandi, legami, relazioni. Non avremmo le vicissitudini dell’analitica esistenziale di Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927) (p. 7).

E questo è vero anche se Heidegger non ha partecipato in modo diretto alla vita sul fronte, anche se sono assai rari nelle migliaia di pagine che ha scritto i riferimenti espliciti alla Grande guerra. Essa rimane in ogni caso la «stessa condizione di possibilità» della sua filosofia (p. 23). Quel conflitto ha infatti trasformato la quotidianità in angoscia, incertezza e dismisura; ha portato a compimento «la fisionomia luciferina della modernità: la perdita di misura; il dominio del troppo grande» (p. 19), la macchinizzazione delle esistenze, l’autorità come potere sulle masse, la pervasività del controllo, la centralità della propaganda, la trasformazione della storia in una teologia dell’immanenza i cui elementi e caratteri sono proprio quelli lentamente ma chiaramente individuati dal giovane Heidegger sino alla loro espressione come ‘esistenziali’ nell’opera del ’27: l’angoscia, appunto, e poi l’essere-nel-mondo come essere-alla-morte; l’essere con gli altri (Mitsein) sul quale anche le poesie di Ungaretti scritte al fronte gettano una vivida luce, colma di lucidità e compassione; la costitutiva finitudine; l’effettività dell’esistere quotidiano prima e dentro ogni teoresi.

Questa scoperta della centralità della Faktizität, della ‘fatticità quotidiana’, è l’elemento che meglio spiega la progressiva distanza di Heidegger nei confronti di Husserl, la cui fenomenologia gli apparve sempre più lontana dalla comprensione del mondo della vita perché fondata sul trascendentale, vale a dire sull’«ultimo residuo della filosofia moderna connessa alla legalità di un soggetto che dovrebbe mettere ordine laddove, nell’esperienza umana, non c’è più alcun ordine, ma soltanto l’eclissi di qualsiasi principio e fondamento» (p. 43).

Ma per Amato è un altro l’elemento che coniuga in modo profondo la filosofia di Heidegger e la prima guerra mondiale: la noia. È in tale particolare Stimmung, in questa tonalità esistenziale, che la filosofia di Heidegger sembra davvero calarsi nelle trincee «per auscultare il tipo di esperienza che si è consumata in quei dirupi di senso e di fango» (p. 45). L’elemento più dirompente della vita ricondotta e ridotta alla terra tecnicamente sconvolta, la trincea appunto, non era la paura della battaglia, non i topi, non il fango ma il fatto che «più di ogni altra cosa i soldati patiscono una terribile noia e quindi assaporano una singolare configurazione della temporalità» (p. 11). La centralità del futuro nell’analitica esistenziale di Heidegger si spiega anche (certo non solo) a partire dal bisogno di trovare un senso nella «rarefazione del tempo, pratica del nulla» che la vita del soldato nelle trincee è diventata (p. 115).

La potenza disvelatrice e prassica della filosofia heideggeriana consiste in gran parte nel superamento che in essa si attua di ogni prospettiva etica, di ogni paradigma umanistico, di ogni illusione antropocentrica. Elementi che sono nati, germinati, diventati chiari in modo persino lancinante durante gli anni dal 1914 al 1918. Dopo quell’esperienza indicibile e inspiegabile, l’umanesimo ha mostrato la sua natura allucinatoria e astratta rivelando invece la sua tendenza distopica poiché «il primo conflitto mondiale è una guerra d’annientamento condotta in nome dei valori più aulici ed elevati della cultura occidentale in grado di svelare, però, che la loro sensatezza nasconde una violenza strutturale e barbarica» (p. 24).

La Grande guerra è in questo senso il culmine dell’umanesimo, lo sterminio vi è praticato nelle forme della società industriale e di massa, l’orrore è generato «in nome della pace, della cultura, di valori universali. La prima guerra mondiale, in questo senso, potrebbe essere considerata una carneficina umanista; un disastro culturale che si sprigiona grazie alla sedimentazione culturale della modernità oggettivata nella potenza distruttiva delle macchine» (p. 52).

Heidegger ha avuto la lucidità di non sperare e immaginare, dopo tutto questo, nuove e ancora più implausibili forme di umanesimo ma di cogliere e descrivere, invece, la realtà dell’umana esistenza che la Grande guerra ha illuminato come un bengala gettato sui campi della storia. Un dato oggettivo e simbolico può aiutare a capire che cosa questo significhi: «700.000 sono i cadaveri del primo conflitto mondiale che non hanno ottenuto sepoltura» (p. 94). Se ricordiamo l’Antigone di Sofocle e che cosa per le civiltà antiche la sepoltura rappresenti, possiamo comprendere meglio le ragioni non soltanto più ovvie, strutturali e geopolitiche, ma anche quelle simboliche che rendono la Grande guerra un fatto del presente. Quegli insepolti e i milioni di altri che invece hanno ricevuto sepoltura aspettano ancora il senso della loro morte. La radicalità della filosofia di Heidegger costituisce anche un gesto di pietas.

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