Recensione a: C.E. Gadda, Il castello di Udine, a cura di C. Vela, Adelphi, Milano 2024, pp. 339, € 22,00.
Quel sentimento insieme esistenziale, etologico e politico che James Hillman ha definito «a Terrible Love of War»[1] pervade i racconti del Castello di Udine. Di guerra esplicitamente si parla solo nella prima delle tre parti nelle quali il libro è scandito, la seconda raccontando amabilmente e ironicamente di una crociera lungo il Mediterraneo, la terza coniugando narrazioni milanesi e romane, toccando il culmine in uno strepitoso resoconto espressionista dedicato alla festa dell’uva e del vino a Marino, sui Castelli romani. Ma la guerra, πόλεμος, il conflitto che tutto pervade, è ben presente, direttamente o in filigrana in tutte le pagine, anche in quelle fuori dal castello.
Lo è nella luce del Sud toccata e vissuta durante la crociera, «luce grande ed immensa, come un perenne emanare della vita»[2], luce che a Siracusa «la malinconiosa cicala faceva più immensa e come vivente» (p. 105) e che nello Jonio si trasfigura ed espande sino a rendere un dio l’Etna, «saldissimo sulla immensità del suo basamento. Gemme di neve si incastonano bianche, verso il culmine, nell’arida chiarità del monte, la di cui solitudine i cieli accolgono, magnificandola» (p. 104).
Guerra tra le cui ragioni ed effetti c’è sempre stata l’espansione coloniale, che Gadda nel 1931 esalta per essere riuscita a rendere il deserto libico una «Tripolitania» feconda, mite, pulita, operosa, sino ad apparire, quella terra d’Africa, «un abbozzo di redenzione» (p. 110), trasformata dalla operosità degli italiani in un luogo dove era bello vivere, anche per i libici, anche per gli africani.
Come si intravede già da questi pochi cenni non dedicati alla guerra, in questo scrittore, nella sua idea del mondo, non c’è posto per gli infingimenti, per le illusioni, per i sentimentalismi ‘umanitari’. Lo testimonia un esplicito brano, che Gadda scrisse anche se poi preferì non pubblicarlo, come ci informa l’ampia e necessaria Nota al testo di Claudio Vela: «Io non ho mai avuto sentimenti umanitarî, né in guerra né in pace, pur essendo molto sensitivo al dolore e alla miseria degli altri e anche alla gioia degli altri» (p. 243). Espressamente enunciata è invece una formulazione che della guerra mostra le innate radici nell’umano e nelle sue società: «Le armi Caino ferocemente le impugna: e talora anche contro alla nostra filantropia» (p. 33).
Ovunque e sempre nei suoi scritti – direi tratto caratterizzante l’intera sua opera – Gadda non ha inteso ‘migliorare il mondo’ ma ha voluto descriverlo nella sua realtà spesso surreale e divertente così come spesso insensata e feroce: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci» (p. 43). Nessuna scrittura edificante, no, ma la descrizione di ciò che necessariamente consegue da una verità metafisica quale è il tempo che tutto intesse, involve e vince, al modo in cui anche Petrarca sa dirlo: «Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo»[3]. Con densità ed efficacia simile a queste, Gadda scrive che «gli umani, nella brevità storica della lor vita, sono il sostegno efimero del divenire» (nota 2, p. 84).
Sostegno, espressione e forma effimera del divenire e della storia, oltre che del βίος, è appunto e soprattutto la guerra e il profondo amore che lo scrittore nutre per essa, sino a descrivere con accenti esaltati «gli attendamenti nei monti, a rovescio di tiro: le raganelle paurose, dai cupi fondali della notte: e financo le scatolette di salsa vuote e sventrate e la paglia fradicia e impidocchiata, escremento del campo giù per le coste della montagna, come una spazzatura alla facciazza dei corrispondenti di guerra: tutto, tutto sto cinema, nel mio cuore disumano si trasfigurò in desiderio, diventò viva e profonda poesia, inguaribile amore» (p. 55).
Gadda non nega e non nasconde l’orrore della guerra, della trincea e dello sterminio pressoché quotidiano; non nega e non nasconde il ridursi dei soldati a un residuo fisiologico, a un grumo di ferocia e di fame; non nega e non nasconde la fatica e la morte, le quali sono la «prima verità del soldato» (p. 306). Fame, fatica, gelo e indifferenza che lo inducono a una confessione atroce. Nel tempo della prigionia in un campo tedesco a Celle, vicino a Hannover, la degradazione indotta dalla fame era tale che di fronte a un tenente del genio, mite, affamato, malato e ormai condannato a morire, la reazione fu quella descritta in queste terribili righe: «Non la sua tùnica lògora, né la sua voce distrutta, non il pallore alto sopra la statura comune degli uomini, né il chiaro commento circa l’eleganza rapida delle cose deducibili, né la curva sua schiena di malato e di ferito, né la sua dignità d’uomo intatta e ferma alle soglie della sua notte, nulla mi mosse a regalargli neppure un pezzo di pane» (p. 83).
E tuttavia, nonostante l’orrore e forse proprio per questo, il sentimento di essere un corpo che possiede ancora la volontà di vivere è tale da scatenare esaltazione, adrenalina, furia, riso, desiderio, energia. Pur di sopravvivere. A tanto è spinto l’animale umano dal βίος che si trasforma poi in ideologia, giustificazione, pensiero delle buone ragioni che inducono a dare la morte, pur di non riceverla da chi si trova nella medesima condizione di guerra.
La «retorica patriottarda e militaresca» (p. 43) della quale Gadda era invaso è esplicitamente riconosciuta, descritta e da lui rivendicata come fonte addirittura di felicità: «Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. […] Io ho presentito la guerra come una dolorosa necessità nazionale, seppure, confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità» (p. 44).
E tuttavia l’orgoglio bellico e il coraggio ideologico del soldato non gli bastarono a difendere quelle sue scelte, azioni e bisogni quando, con la Repubblica, il clima cambiò.
Questa edizione Adelphi lo mostra in modo spietato. Si tratta infatti di una vera e propria edizione critica, che dà conto di ogni minima variante tra le diverse stesure e pubblicazioni del testo. Il castello di Udine era uscito per la prima volta nel 1934 per le edizioni Solaria; fu ripubblicato nel 1955 da Einaudi, insieme ad altri testi e con il titolo comune I sogni e la folgore. Nell’edizione princeps l’autore aveva inserito moltissime note attribuendole a un critico e filologo dal trasparente nome dantesco di Dott. Feo Averrois. Nell’edizione einaudiana le note rimasero ma decurtate di numero e tagliate in molte loro parti.
Nel passaggio dall’edizione del 1934 a quella del 1955 lo scrittore operò insomma un’ampia autocensura, eliminando le note più favorevoli alla guerra, all’eroismo e al nazionalismo. Sparì ad esempio una lunga nota nella quale Gadda rivendicava la sua «frenesia bellicosa» in esplicito contrasto con la «sensibilità democratoide» (p. 245).
Il deciso militarismo del ’34, epoca fascista, venne attenuato nel ’55, in epoca repubblicana. Se nel 1935 la recensione di Gadda a un libro di memorie di guerra del quadrumviro Emilio De Bono, uno dei fondatori del fascismo e tra i protagonisti della marcia su Roma, ne esalta contenuti e tono, le prose raccolte nel 1963 in Eros e Priapo – che di Gadda è uno dei capolavori – si scagliano contro il fascismo sino a descrivere Mussolini come un attore di mala formazione che dal balcone di Piazza Venezia emanava «i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana»[4]. E aggiunge che, proclamatosi «genio tutelare» dell’Italia, «la redusse a ceneri ed inusitato schifo»[5], la ridusse a un’apparente grandezza, «in realtà scempiata grandiloquenza» che «altre genti meno verbose e più serie calpesteranno»[6], mandando a morire senza pietà, senza intelligenza e senza gloria i «sacrificati figli d’Italia», verso i quali «lui non ebbe amore per nulla, se non simulato e teatrale»[7], poiché tutto nel duce «è sfarzo baggiano da fuori, e nulla è angoscia vera da dentro»[8], «sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro»[9]. E del militarismo e nazionalismo arriva a dire che gli occhi gli si velano di pianto «pensando i sacrifici, i caduti, il giovine spentosi all’entrare appena in quella che doveva essere la vita, spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita»[10].
Sembra una vera e propria metamorfosi, che nulla naturalmente toglie alla grandezza di Gadda, che ritengo sia il maggiore scrittore italiano del Novecento, ma che testimonia del complesso rapporto che sempre si dà tra un uomo e il suo tempo. E testimonia del diritto di ciascuno a cambiare idea senza che quelle nutrite in un’altra fase e momento della propria vita lo inchiodino per sempre, circostanza che vale anche oggi, per molti, ma che ad alcuni non viene riconosciuta (ad Alain de Benoist, per esempio).
Una siffatta consapevolezza dovrebbe indurre a non enunciare giudizi superficiali e meschini su artisti, filosofi, narratori la cui opera è somma e tale rimane al di là delle loro scelte storico-politiche.
Un poeta italiano che non nascose mai le proprie simpatie per il fascismo fu Giuseppe Ungaretti, diversamente da numerosissimi altri, tra i quali ad esempio Delio Cantimori, Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio, che si presentarono come ‘antifascisti’ quando invece si erano posti al servizio del regime. E penso a tanti intellettuali e docenti vivi e vegeti, i quali se fossero vissuti tra il 1922 e il 1943 sarebbero stati degli accesi e convinti sostenitori del fascismo e che però con svampita leggerezza condannano scrittori come Céline, filosofi come Heidegger.
Ha quindi ragione Gadda a ricordare, in una molto critica recensione del 1959 al film La grande guerra di Mario Monicelli, che a nulla serve ogni superficiale condanna della ‘guerra’ come se essa fosse «entità per sé stante e direi piovuta dal cielo, cioè indipendente dal meccanismo combinatorio degli atti, dei pensieri, delle volizioni di tutti gli uomini e dal conflagrare di infinite cause e concause» (p. 338).
Ciò che lo scrittore dice della guerra vale per ogni vasto fenomeno storico che coinvolge i singoli e le collettività umane. Anche in questo caso ogni moralismo mostra di essere un ostacolo alla comprensione del mondo.
Le vicende letterarie, editoriali e ideologiche di un libro vigoroso e dolente come Il castello di Udine confermano che l’arte e la scienza, la storia e il pensiero, vanno comprese e non giudicate (tantomeno ‘cancellate’) se vogliamo trarre saggezza e sapienza da ciò che studiamo e non il narcisistico compiacimento di chi si sente ‘buono’ ed è sempre pronto a giudicare e disprezzare i massimi risultati delle culture umane. Salvo poi giustificare la propria miseria.
[1] Il libro uscì nel 2004; la traduzione italiana – Un terribile amore per la guerra – è di A. Bottini, Adelphi, Milano 2005.
[2] C.E. Gadda, Il castello di Udine, a cura di C. Vela, Adelphi, Milano 2024, p. 101. I riferimenti ai numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro saranno indicati nel testo, tra parentesi.
[3] F. Petrarca, Trionfo del tempo, v. 145.
[4] C.E. Gadda, Eros e Priapo. Da furore a cenere, Garzanti, Milano 2002, p. 42.
[5] Ivi, p. 66.
[6] Ivi, p. 141.
[7] Ivi, p. 71.
[8] Ivi, p. 152.
[9] Ivi, p. 156.
[10] Ivi, p. 72.