Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Come ha spiegato il premio Pulitzer Anne Applebaum in Autocrazie. Chi sono i dittatori che vogliono governare il mondo, saggio da poco pubblicato anche in Italia, nel momento storico presente ci troviamo probabilmente dentro uno scontro tra democrazie e autocrazie, anche se dai contorni più frastagliati e incerti di quello che si è consumato durante il periodo della guerra fredda. Che esista o meno una “Autocrazia S.p.A”, come la definisce Applebaum, vale a dire un cartello di regimi illiberali che agiscono come una realtà plurale unificata dalla comune avversione per le democrazie liberali occidentali, è indubbio che la tensione tra queste ultime e diverse autocrazie (Russia e Iran su tutte, con la Cina sullo sfondo) sia in questo momento molto alta, non soltanto sui teatri di guerra concreti (Ucraina, ad esempio) ma anche nell’infosfera, con influenze mediatiche più o meno occulte che puntano a condizionare i processi democratici occidentali.

Altra cosa indubbia è che non esiste autocrazia nel mondo che non trovi nel nostro sistema mediatico degli avvocati disposti a patrocinarne la causa. Che sia la Russia di Putin o l’Iran della polizia morale, troverete un editoriale, un libro, un post, un video, in cui si spiega o perché non siano in realtà così cattive, oppure che sì, sono cattive, ma perlomeno loro non sono ipocrite come gli Stati occidentali, che si dicono liberi ma in realtà, dietro la coltre rispettabile dei tribunali democratici e dei dibattiti elettorali, nascondono tanti putridi delitti quanto le conclamate dittature. La sana autocritica spesso non c’entra nulla: si tratta solo di picconare irresponsabilmente la casa democratica faticosamente eretta. La chiave delle arringhe pro autocrati è sempre l’incoerenza delle democrazie. La qual cosa, naturalmente, rappresenta un sofisma che è sempre utile conoscere (sebbene io da tempo abbia perso la fiducia ingenua nella dialettica socratica): poiché nessuno mantiene la perfetta coerenza tra valori proclamati e pratica, ecco che il gioco riesce sempre. Pure il guardiano della purezza Robespierre trovò chi gli fece notare una incoerenza, e fu misurato con la stessa misura con la quale aveva misurato gli altri, morendo giustiziato.

La cosa curiosa è che gli avvocati degli autocrati riescono ad avere torto pur dicendo qualcosa di vero: le autocrazie, infatti, sono in apparenza assai più coerenti delle democrazie, dal momento che lo spazio di difficile articolazione tra i programmi e la pratica è assorbito in un gruppo ristretto di persone senza troppe mediazioni né i conflitti tipici del pluralismo, mentre in una democrazia moderna è tutto più strutturalmente complicato, c’è molto più spazio per un bel po’ di dissipazione dell’ideale nelle tubature del meccanismo. Anzi, diciamo di più: senza un po’ di dissipazione il meccanismo esploderebbe. La democrazia pluralistica, infatti  ̶  questo è il punto  ̶  ha alla base l’accettazione tacita di una certa dose di distanza tra ideale e realtà, e il fatto che nessuno detenga il monopolio dell’ideale: fuori da questo perimetro c’è il Terrore. Queste due condizioni hanno a che fare proprio con l’incoerenza, che prevede sia la possibilità di cambiare idea nel corso del tempo sia l’imperfezione strutturale della condizione umana. I

l filosofo polacco Leszek Kolakowski, purtroppo poco noto in Italia, negli anni ’80 scrisse un Elogio dell’incoerenza che torna assai utile al nostro discorso. In questo bel saggio Kolakowski riversò in qualche modo la sua stessa esperienza. In gioventù fu sostenitore della dottrina marxista e convinto comunista, diventando membro influente del Partito Operaio Unificato Polacco. Dalla metà degli anni ’50, però, intraprese una revisione delle proprie posizioni, che lo portò a criticare apertamente l’Unione Sovietica (per questo fu espulso dal Partito e perse il lavoro) e il marxismo, fino a pubblicare, nel 1976, un’opera monumentale dal titolo Main Currents of Marxism: The Founders, The Golden Age, The Breakdown, che rappresenta una decostruzione puntuale del marxismo politico.

Alla base del sistema totalitario che Kolakowski non solo studiò ma vide in prima persona durante un viaggio a Mosca, vi era proprio, tra le altre cose, una postura utopica che rigettava la pluralità dell’esperienza umana, dei desideri molteplici e cangianti delle persone e con essi il rischio della incoerenza, financo del male che tradisce il sogno della fraternità universale che il regime voleva imporre per legge. Tutti questi motivi risuonano nell’Elogio dell’incoerenza, nel quale Kolakowski difende l’incoerenza come un aspetto positivo e creativo del pensiero umano, che permette di esplorare diverse prospettive e di mantenere un’apertura mentale verso una comprensione più profonda e sfumata della realtà, favorevole al pluralismo filosofico e del sapere in generale. Gli aspetti pratico-politici e quelli più filosofico-teorici della questione si specchiano gli uni negli altri e trovano una sintesi proprio nella biografia del grande intellettuale polacco. Non si tratta, com’è ovvio, di una giustificazione teorica ad uso e consumo dell’ipocrisia morale, quanto piuttosto di un richiamo alla finitezza come scudo dalla tirannia del bene, la peggiore che possa esistere. Nel 1982, in una conferenza in Australia, lo stesso autore, parlando delle utopie, affermò che ciò che aveva reso maligne le utopie del ˊ900 era stato il sogno stesso della perfezione. I racconti utopici della modernità (quelli di Thomas More, Francis Bacon e Tommaso Campanella) erano descrizioni di una felicità celestiale sulla Terra consapevoli della propria irrealizzabilità. Quelle storie «sono diventate ideologicamente velenose nella misura in cui i loro sostenitori sono riusciti a convincersi di aver scoperto una vera e propria tecnologia dell’apocalisse, un dispositivo tecnico per forzare la porta del paradiso. Questa convinzione è stata la caratteristica distintiva delle utopie rivoluzionarie, ed è stata ampiamente incarnata nelle varie diramazioni della dottrina marxista».

L’incoerenza democratica, insomma, è preferibile alla coerenza di un regime dittatoriale. A tal proposito, in questi giorni, mi è capitato di rivedere Il Cekista, film del 1992. La pellicola è tratta da un breve e terribile romanzo di Vladimir Zazubrin, La scheggia, del 1923 (subito censurato e poi ricomparso nel 1989). La narrazione segue la vicenda umana di un funzionario della Ceka, l’organo di polizia segreta dell’Unione Sovietica, istituito nel 1917 da Lenin, che poi diventerà il Kgb. Andrej Srubov, questo è il nome del protagonista, guida le esecuzioni dei “borghesi controrivoluzionari” in tetri scantinati adibiti a prigioni e mattatoi. In un clima di orrore meccanizzato, i prigionieri sono prelevati a gruppi di cinque dalle loro celle, costretti a denudarsi, e poi uccisi con un colpo alla nuca. I loro corpi vengono successivamente ammassati su un camion e fatti sparire nel nulla. È questa la routine di Srubov: processi sommari, informatori che vendono gli amici per salvarsi la pelle, fanatismo, alcol, cocaina, esecuzioni, sangue, cadaveri, decine e decine di cadaveri. «Quelli allegri sono i più facili da ammazzare. Ma quelli che cominciano a piangere… Poi, solo strati di ossa craniche e melma di cervella», si afferma nel romanzo. La ricerca storica dice che solo tra il 1917 e il 1922, i cekisti  ̶  che si abbandonavano agli abusi di potere più crudeli  ̶  probabilmente torturarono e uccisero decine di migliaia di persone. Un giorno, però, la coerenza della rivoluzione porta il padre del protagonista in uno di quei lerci scantinati per essere ammazzato. Srubov, che da tempo covava una crisi di coscienza, a poco a poco crolla. Il racconto termina con le immagini della sua follia. Aveva detto, in una scena in cui ispeziona le porte macchiate dal sangue dei giustiziati, che la rivoluzione è povera e sporca, che succhia il sangue e la linfa delle persone migliori, e che tuttavia tale sangue serve per dissetare gli uomini e cambiare il mondo, e che per tale scopo occorre attraversare tormenti, sudiciume e sofferenza. Ecco: l’incoerenza di quelle vite massacrate sull’altare dell’ideale viene riassorbita nella coerenza dialettica del teorema.

Sappiamo che tutto questo è stato ed è oggi nelle camere di tortura del mondo, quelle che conosciamo e quelle che ci sono ignote e che apriremo con sgomento tra qualche tempo. In quelle camere, in nome della coerenza ideale, fanatici esecutori e scaltri criminali umiliano la dignità umana mentre da noi qualcuno si abbandona alla capziosità moralistica mascherata da integrità morale. Quando si parla di coerenza e di incoerenza, probabilmente bisognerebbe meditare bene sul doppio fondo di questi termini, strumentalmente agitati dai demagoghi anti-democratici cui la democrazia deve pur concedere diritto di parola: ecco un’altra incoerenza della quale quei demagoghi possono godere per diritto, anche se si guardano bene dal dirlo.

Loading