Andrea Giuseppe Cerra è dottore in Scienze del Governo e Politiche Pubbliche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli studi di Trieste. Presso il medesimo dipartimento giuliano è cultore della materia in Storia contemporanea. Dottore di ricerca in Scienze Politiche, XXXIV ciclo, presso l’Università degli Studi di Catania, dove è cultore della materia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. Collabora alle pagine culturali de «La Repubblica» di Palermo e de «Il Piccolo» di Trieste.

Recensione a
A. Polito, Titanic. Il muro che cadde due volte. Il comunismo è morto, il liberalismo è malato, e neanche io mi sento molto bene
Solferino, Milano 2019, pp. 192, €16,00.

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Antonio Polito, editorialista del “Corriere della Sera”, tratteggia in questo libro un racconto autobiografico. L’autore si definisce appartenente all’ultima generazione di comunisti, e attraverso i suoi occhi, le sue sensazioni, il suo portato ideale, propone al lettore una chiave lettura su un lungo trentennio, a partire uno degli episodi che caratterizzò il XX secolo, o, per dirla con Eric Hobsbawm, che segnò la fine del secolo breve: la caduta del Muro di Berlino.

La narrazione ha inizio da un luogo simbolo per l’autore, dalle sue origini. All’inizio degli anni Settanta a Castellammare di Stabia, meglio nota come la ‘Stalingrado del Sud’, un giovane Antonio Polito prova ad iscriversi alla sezione del Psi, corrente lombardiana. Sembrava che la sua richiesta, genuina e spinta dal sentimento di appartenenza ideale, sarebbe stata immediatamente accolta. La risposta, invece, sorprese. La corrente non si decideva, era la corrente medesima che avrebbe scelto per lui. Ciò era dovuto al fatto che a Napoli venivano scelte le correnti a cui avrebbero aderito gli iscritti secondo logiche interne al partito, ad accordi assunti tra i vertici. Tra le esperienze politiche dell’autore si annovera la militanza, per soli sei mesi, in “Servire il popolo”, storico movimento della sinistra extraparlamentare, dove figure come il cinese Mao o l’albanese Enver Hoxha venivano idolatrate e i loro testi ritenuti punti di riferimento, un vangelo laico a cui non ci si poteva sottrarre. All’esperienza extraparlamentare seguì la scelta di aderire al Pci, il più grande partito comunista dell’Occidente. L’autore si ritenne in qualche molto obbligato, perché in giro, come dice lo stesso, non aveva trovato nulla di meglio.

Attraverso i ricordi del suo passato comunista riemergono figure che fecero la storia del partito. Nella sezione a cui era iscritto vi fu la visita di Giorgio Napolitano, che, dopo aver sentito le riflessioni di alcuni iscritti, espresse apprezzamento per l’intervento del giovane Polito. L’endorsement di un alto dirigente del partito, esponente dell’ala migliorista, permise all’autore di fare una brillante e rapida carriera tra i quadri dirigenti del Pci. Pur essendo molto giovane, entrò a far parte del Direttivo della sua storica sezione di appartenenza. L’anno successivo il Nostro ricevette anche l’apprezzamento di Giorgio Amendola, citando nel suo intervento un giovane studente. Si trattava dell’autore, che venne mandato in viaggio premio a Milano, dove si sarebbe svolto un Congresso nazionale del partito cruciale, in cui fu eletto segretario Enrico Berlinguer.

Alle testimonianze nazionalpopolari fanno da contraltare le esperienze all’estero. L’autore rimanda alla sua visita a Berlino tra il Natale e il Capodanno 1989-1990. Da meno di due mesi era caduto il Muro. La città era il luogo da cui era partito un vero e proprio terremoto politico. Quei giorni, a dire dell’autore, furono vissuti come un pellegrinaggio di espiazione e rigenerazione. Finalmente si prospettava la concreta possibilità di riunire una nazione per troppo tempo divisa (sarà così nell’ottobre 1990). Per comprendere al meglio il clima che si respirava, Polito decise di condurre la visita non come nel passato, partendo da Ovest, bensì di trovare dimora per quei giorni ad Est. Venne ospitato nella residenza di una professoressa molto probabilmente legata al regime, i sospetti erano dovuti soprattutto al fatto che insegnasse “economia di piano”, disciplina inventata dal socialismo reale. Si assisteva alle masse che da Est si spostavano ad Ovest, per scoprire le novità occidentali. Dalla linea di trasporti U-Bahn, la metropolitana che un tempo che collegava le due parti della città sino ai fast-food, alla possibilità di fumare Marlboro, o oggetti e prodotti completamente diversi tra loro, dai giocattoli alla frutta fresca. Sarebbe stato impensabile per un occidentale dell’epoca pensare che sbucciare una banana per la prima volta rappresentasse un evento rivoluzionario.

Esattamente dieci anni dopo il viaggio di Polito prosegue. Ha rinunciato alla vicedirezione de “La Repubblica” per andare a fare il corrispondente di Londra. Al fascino della City però verrà aggiunto un ragguaglio dai suoi colleghi più anziani, e cioè che dovrà circoscrivere i suoi interessi al solo racconto delle vicissitudini di Buckingham Palace. Si fa un piccolo passo indietro, all’estate del 1997, quando dovette raggiungere il Regno Unito per documentare la tragica scomparsa di Lady Diana. Il Nostro raccontò la posizione assunta dall’opinione pubblica e dalla stampa nazionale. Il Paese dimostrò grande temperamento nel contestare la regina Elisabetta II, l’amata sovrana, in un momento nel quale la popolazione si sentiva smarrita e orfana della sua “principessa del popolo”. Sono anche gli anni dei laburisti al governo, con Tony Blair premier, in cui si cerca di coniugare le esigenze del mercato alla rivendicazione dei diritti. Contestualmente Blair sarà uno dei promotori della guerra contro il comunista Milosevic a tutela del popolo kosovaro. Polito si affida ad un luogo simbolo dell’era blairiana, il Millennium Dome, dove, festeggiando il Capodanno del 2000, intravede il trionfo di quel liberalismo che, a suo dire, un decennio prima aveva abbattuto il Muro.

Alle speranze di fine millennio del Nostro, seguono però le disillusioni degli eventi e dei suoi esiti. Il vertice di Nizza, che si poneva l’obiettivo di indicare i principi per la costruzione della nuova Europa, fallì a causa del diniego francese. Un altro momento di difficoltà è rappresentato dal tortuoso percorso per l’adozione della moneta unica, in assenza di un governo comune dell’economia. Sino ad arrivare alla questioni più recenti: il fenomeno migratorio, lo scontro tra élite e popolo e l’affermazione del primo governo populista in Italia. Il saggio proposto da Polito cerca anche di affrontare un tema nevralgico del nostro presente: la crisi del sistema democratico. Alla base di questa crisi vi è anche la cosiddetta rivoluzione digitale, che sta eliminando dal ciclo produttivo milioni di posti di lavoro a vantaggio delle macchine. Il Nostro asserisce che le innovazioni tecnologiche della nostra contemporaneità e, soprattutto, quelle del prossimo futuro, favoriscono la tirannia. La democrazia da sola non basta ad essere una sufficiente difesa della libertà. Sarà necessario regolare la proprietà dei dati e il loro utilizzo.

Il volume di Polito, oltre a ricostruire i giorni della caduta del Muro, con lo stile di un’autorevole penna del giornalismo italiano, si propone come una sorta di una biografia intellettuale. Il racconto di un uomo dell’informazione che riteneva la vittoria del liberalismo come il fine ultimo di un personale orizzonte storico mentre oggi, invece, deve confrontarsi con nuove prospettive e con la crisi di quel modello trionfante trent’anni fa. L’autore si domanda se questo nostro presente è condannato a una nuova sconfitta. La sua risposta è no. «Abbiamo commesso molti errori, ma non abbiamo sbagliato a scegliere la libertà. È stata la parte giusta della Storia, e deve restarlo per i nostri figli».

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