Andrea Giuseppe Cerra è dottore in Scienze del Governo e Politiche Pubbliche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli studi di Trieste. Presso il medesimo dipartimento giuliano è cultore della materia in Storia contemporanea. Dottore di ricerca in Scienze Politiche, XXXIV ciclo, presso l’Università degli Studi di Catania, dove è cultore della materia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. Collabora alle pagine culturali de «La Repubblica» di Palermo e de «Il Piccolo» di Trieste.

Il filo conduttore delle sue ultime pubblicazioni è il tema dello scetticismo politico.

È vero. Ciò che unisce i miei recenti lavori, dalla monografia in inglese sul pensiero politico di David Hume, pubblicata a fine 2020 per Mimesis International, all’edizione italiana del manuale di Storia del pensiero politico di Michael Oakeshott, da me curato e in uscita per Jouvence, passando per il volume sulla storia dello scetticismo politico (Mimesis 2020), è proprio l’iscrizione di autori, temi e modelli di pensiero nella grande, benché trascurata, tradizione dello scetticismo.

Si può dire sia una sua scoperta, dato che lo scetticismo era sino ad oggi noto come nient’altro che un’attitudine psicologica o filosofica? Lei invece lo presenta come vera e propria dottrina politica.

I pochissimi studiosi che prima di me, nell’area angloamericana, si sono soffermati sulle connessioni tra la base epistemologica dell’attitudine scettica e la dimensione politica l’hanno fatto per accreditare tradizioni politiche diverse dallo scetticismo. Al fine di rafforzare il radicalismo egalitario, ad esempio, è stato utilizzato lo scetticismo per delegittimare la strutturazione sociale gerarchica a vantaggio dell’auspicato allargamento della partecipazione democratica. A sostegno del liberalismo, d’altra parte, lo scetticismo è servito a legittimare la razionalizzazione delle scelte individuali. Il limite di queste letture è l’esclusione aprioristica della possibilità di una forma positiva di scetticismo in politica. Dopo anni di ricerche sul tema, ho inteso dimostrare che lo scetticismo politico è una dottrina nel significato etimologico del termine: dottrina come sapere trasmissibile, dal verbo latino docēre (“insegnare”), come dispositivo che costituisce la forma di un certo tipo di politica, intesa sia come oggetto di analisi che come campo d’intervento pratico. Non a caso le figure coinvolte nella vicenda dello scetticismo politico, come Socrate, Carneade, Cicerone, Giovanni di Salisbury, Guicciardini, Montaigne, Sorbière, Pascal, Bayle, Hume, Nietzsche, Russell, Rensi, Oakeshott, Popper e Rorty, non sono collocabili, per le questioni “scomode” che sollevano, nelle classificazioni canoniche della storiografia contemporanea. Questi pensatori politici, quasi tutti esiliati, eretici o reprobi nelle diverse epoche in cui sono vissuti, hanno a più riprese raccomandato di sottoporre le convinzioni personali alla verifica storica ed empirica e di sospendere il giudizio dinanzi alle asserzioni definitive e dogmatiche, il che non è incompatibile con l’avere delle credenze politiche. Quando lo scettico sospende il giudizio sulla qualità di una cosa, non accetta gli standard imposti dai dogmatici, cioè non crede a ciò che credono i dogmatici. A differenza di questi ultimi, che insistono sull’esistenza di un criterio unico che consente di distinguere tra credenze vere e false su cose inosservate e di ricavarne principi normativi, gli scettici non fanno affidamento su nessun criterio, anche se, in generale, tendono a prendere per probabilmente vero ciò che l’esperienza suggerisce. A distinguere lo scettico, allora, non sono le credenze, ma l’atteggiamento nei confronti della bramosia dogmatica per la certezza della vera credenza, che quasi sempre comporta il ricorso alla violenza e a mezzi di persuasione contrari alla discussione civile, libera e aperta. Lo scettico è in grado di relazionarsi con i fenomeni politici non in conformità a teorie normative valide universalmente, ma con la preoccupazione per i problemi pratici da affrontare caso per caso. La politica, per lo scettico, non è una questione di verità, decisioni inappellabili e costruzioni di città utopiche, ma è un semplice modo di vita pratica, scevro da giustificazioni di ordine metafisico.

Per alcuni lei è il massimo interprete italiano del pensiero politico di David Hume, anche per aver esaltato gli aspetti più dimenticati del suo pensiero, tra cui la vena satirica. L’occasione scientifica è stata anche utile per rianimare il dibattito internazionale?

Hume fino a un lustro fa era noto in Italia solo come filosofo morale, metafisico, anticlericale e fondatore della moderna scienza dell’uomo. I miei studi, che credo abbiano per questo colmato una grave lacuna negli studi politici, italiani e non solo, ci restituiscono la figura più completa di Hume come grande studioso della politica, dato il suo profondo interesse per l’origine del governo da una prospettiva realista e anticontrattualista, per i partiti politici, di cui egli stesso ha operato la prima classificazione scientifica dell’età moderna, per l’opinione pubblica, che ha valorizzato in netta controtendenza rispetto ai suoi contemporanei, e per le relazioni internazionali, che ha vissuto direttamente sul campo. Hume, infatti, non fu solo un filosofo, come si è sempre fatto credere, ma ricoprì importanti ruoli istituzionali, come quello di segretario del generale St. Clair in due delicate missioni militari, di vice-ambasciatore britannico a Parigi e sottosegretario di Stato a Londra. Chi poi voleva fare di Hume una sorta di economista alla stregua di Adam Smith, di un liberale in senso lato o addirittura una specie di antesignano degli anarco-capitalisti novecenteschi deve ricredersi. Le idee di Hume sull’obbedienza politica, la libertà, la proprietà, la stabilità politica, la moderazione, la diffidenza verso le innovazioni improvvise e violente, l’opposizione all’arroganza razionalista, il rispetto per il costume e la continuità istituzionale, la difesa dell’interesse nazionale e altri elementi tipici di una visione politica controrivoluzionaria rappresentano una preziosa fonte di ispirazione per lo sviluppo del conservatorismo europeo moderno. La versione “scettica”, “analitica” e “laica” del conservatorismo di Hume, che è la prima ad apparire sulla scena politica della modernità, differisce significativamente dal conservatorismo metafisico e cosmico affermatosi sulla scia degli scritti di Edmund Burke, che per molti resta il padre del conservatorismo politico. Eppure nella Francia di fine Settecento, come peraltro ben spiegò Laurence Bongie in David Hume: Prophet of the Counter-Revolution (2000), i controrivoluzionari leggevano Hume, non Burke. Quanto alla proiezione internazionale delle mie ricerche, a parte i paper in importanti conferenze all’estero, è il mio articolo in lingua inglese pubblicato sull’ultimo numero de “Il Pensiero Storico” (dicembre 2021) a inserirsi nel dibattito internazionale in corso sulla paternità di “Sister Peg”, un pamphlet di satira politica pubblicato anonimamente a Londra nel 1760. Un dibattito chiuso nel lontano 1982, quando D. R. Raynor, nella sua edizione critica per i tipi della Cambridge University Press, dimostrò definitivamente che il vero autore del pamphlet non fu Adam Ferguson, come si era fino a quel momento creduto, ma David Hume. La pubblicazione dell’edizione italiana degli “Scritti satirici (1750-1760)” di Hume, a mia cura, contenente “Sister Peg”, ha di fatto riaperto la querelle sulla paternità dell’opera, dopo quarant’anni di assoluto oblio. Dopo che in alcuni articoli apparsi su “History of European Ideas” e “Eighteenth-Century Studies” tra agosto e ottobre 2021 alcuni studiosi del Settecento scozzese hanno tentato di riattribuire l’opera a Ferguson, ho dimostrato, confutandone le argomentazioni, che fu davvero Hume a scrivere quell’importante opera satirica per ragioni di natura storico-politica, legate al profilo intellettuale, al contesto culturale, all’orientamento ideologico, agli interessi dell’autore e alla connessione coerente della tematica affrontata con temi simili trattati dallo scozzese nei suoi saggi politici e in altre opere satirico-politiche.

Il conservatorismo oggi in Italia. Che cos’è?

Nulla di politicamente reale. A meno che non si prenda sul serio l’operazione di “marketing” con cui un partito della destra italiana vorrebbe rifarsi l’identità. Chi conosce la dottrina politica conservatrice e le sue molteplici declinazioni sa bene quanto essa sia distante dalla storia e dalle istituzioni italiane. Roger Scruton, che secondo qualche improvvisato ideologo sarebbe addirittura il principale ispiratore del cosiddetto nuovo “partito dei conservatori italiani”, fu il primo ad avvertire che i partiti e i movimenti politici conservatori esistono solo nei paesi di lingua inglese, dato l’enorme divario esistente tra gli stati basati sulla common law e quelli in cui non è mai esistita. L’indole conservatrice è proprietà acquisita di quei paesi, come Inghilterra e Stati Uniti, che sono consapevoli di una propria “storia comune” e “nazionale” sin dagli albori dell’età moderna. In Italia il conservatorismo è sempre stato un movimento unicamente “intellettuale”, frutto dell’espressione libera dei Montanelli, dei Prezzolini, e prima ancora anche dei Mosca, Pareto e Michels. Tutta gente non organica ai partiti e che per questo ha scritto alla pancia e alla testa degli italiani, raccogliendo un consenso vasto, ma da intellettuali, non da politici. Quello inscenato ultimamente da alcuni fiancheggiatori di partito mi pare un mero tentativo di “maquillage” ideologico. Ed è molto difficile, date le premesse, che possa trasformarsi in un serio progetto metapolitico.

Quali consigli proporrebbe alle matricole universitarie e ai ragazzi di oggi interessati ad “approcciarsi” allo studio della politica?

Il primo è quello di sforzarsi di resettare le proprie convinzioni. Chi vuole studiare la politica deve mettere in conto di farlo in un modo avalutativo, cercando cioè di far prevalere non i propri principi ma l’osservazione e la descrizione obiettiva dei fenomeni e lo studio realistico della storia, evitando il più possibile il ricorso al setaccio dell’ideologia. Questo, beninteso, non dipende soltanto dai giovani. Tocca ai loro professori privilegiare una didattica che, lungi dall’identificarsi in un vero e proprio indottrinamento, si limiti a fornire ai giovani gli strumenti di comprensione e analisi utili a pensare la politica in un modo il più possibile autonomo. Era questo il fine principale del professor Oakeshott, di cui non a caso ho tradotto le lezioni, ora finalmente a disposizione degli studenti italiani di Scienze Politiche ma anche di un pubblico colto più ampio e interessato alla storia delle idee che hanno fatto la politica dei popoli europei, dall’antichità ai nostri giorni. C’è molto bisogno di queste letture, oggi più che mai.

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