Michele Carbè è laureato in Storia e Cultura dei paesi mediterranei presso l'Università degli studi di Catania. I suoi principali ambiti di studio sono la Storia contemporanea e la Storia delle dottrine politiche.
Recensione a
F. Cardini, Quell’antica festa crudele, guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese
il Mulino, Bologna 2020, pp. 500, € 16,00.
La guerra è la sospensione dell’umanità? O come è stato più volte dimostrato dai fatti storici, la guerra è qualcosa di ineluttabile propria della natura umana? La famosa affermazione del generale prussiano Karl von Clausewitz ci ricorda che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Secondo questa prospettiva, Il conflitto armato è la risoluzione di contrasti divenuti insanabili e non appianabili tramite il compromesso.
Un classico della storia della guerra in epoca pre-industriale, prima delle grandi rivoluzioni politiche dell’Occidente è il saggio Quell’antica festa crudele, guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione Francese del medievista Franco Cardini. Il libro, la cui prima edizione è datata 1982, descrive un periodo storico lungo sette secoli di battaglie e di uomini in armi riuscendo a dare una definizione dell’evoluzione del concetto stesso di guerra nelle varie società che si sono succedute in Europa. L’inizio del saggio si esplica intorno alla genesi dell’ordine cavalleresco medievale. La proto-cavalleria apparve in Europa nel corso del secolo VIII quando la dinastia dei Pipinidi salita al trono dei Franchi, necessitava di un numero di sodali, molto rapidi nella mobilità, come presidio territoriale dell’autorità regia, uomini che, scrive Cardini, «la cui sola preoccupazione era l’addestrarsi alla guerra e l’attrarre a sé, sottraendoli alla fatica dei campi, nuovi elementi atti alla medesima funzione, il combattere» (p. 30)
Il cavaliere fu sacerdote della guerra, archetipo metastorico che i racconti non solo dell’epoca descrivono come l’immagine di un eroe romantico, che giostra nei tornei e belligera a difesa dei più deboli contro infedeli saraceni e draghi. La realtà storica, come spesso accade, è ben diversa. La figura antropologica del combattente a cavallo e la funzione della cavalleria stessa non sono altro che la perfetta rappresentazione della società medievale europea; il cavaliere appartiene ad un ordine sociale superiore, guerriero e aristocratico che trionfa su mondo di inermi. Secondo l’analisi cardiniana, la società medievale europea è una società guerriera demilitarizzata, una contraddizione in termini, apparentemente. Nonostante l’epica di questa epoca narrata nelle Chansons de geste, durante il medioevo solo in pochi uomini potevano in effetti possedere delle armi, pochi milites (a cavallo) che nell’Europa feudale si occupano anche di amministrazione della giustizia su una massa di contadini disarmati.
Una sempre attuale locuzione latina recita: pecunia nervus belli. In effetti è innegabile che esista una stretta correlazione fra guerra, economia e tecnologia. A dimostrazione di ciò basti pensare che l’armatura di un cavaliere valeva il lavoro di un anno di quattro famiglie di contadini, sicché come afferma il professore Cardini: «il cavaliere pesantemente armato, espressione della società feudale e dei suoi modi di produzione, rappresentava in termini economici un grosso capitale congelato: il sistema feudo-signoriale si basava sulla necessità che attraverso il lavoro dei rustici si provvedesse al mantenimento dei milites garanti della sicurezza comune» (p. 257). Tuttavia nel corso del medioevo di scontri mortali o di mischie sanguinose ve ne furono ben poche, essendo viva una solidarietà di censo tra cavalieri. Erano il sequestro e il successivo riscatto, e non l’omicidio di un proprio pari, la quasi scontata conclusione dello scontro armato tra le parti.
La lenta agonia della cavalleria medievale iniziò a partire dal tredicesimo secolo in concomitanza della nascita delle signorie comunali e con le milizie costituite dal ceto borghese cittadino il quale proprio in quegli anni si sviluppò. A questo proposito nel libro è ben chiaro come ad un certo punto il concetto di guerra considerato dall’aristocrazia medievale europea come un’occasione di expolit, di gioco e di festa, cambi radicalmente direzione: «I borghesi combattevano per uccidere e per vincere; per loro la guerra non era una professione, doveva durare il meno possibile, non era soggetta a nessun rituale possibile» (p. 67).
Con l’avvento del ceto borghese impegnato costantemente nei suoi affari e nei suoi commerci non si combatte più per la gloria, per far prigionieri e per affermare le proprie prerogative di rango; la guerra non era più gioco e gioia, bensì fu considerata come una infausta necessità, costosa se pur necessaria parentesi nei loro affari, da delegare quando era possibile ai mercenari delle compagnie di ventura. Sostanzialmente la fanteria fu avvantaggiata dalle nuove invenzioni tecniche degli armamenti, la capacità di penetrazione delle armi come l’arco lungo inglese, le balestre e le prime armi da fuoco misero in crisi l’armatura pesante utilizzata dai cavalieri. Inoltre l’utilizzo di armi come la picca e l’alabarda consentirono ai soldati appiedati di poter disarcionare ed aprire come crostacei le armature dei cavalieri. Grosso modo, a partire dal Duecento i cavalieri furono costretti ad accorgersi che qualcosa sui campi di battaglia era cambiato, la “pedonaglia” non era così innocua e miserabile come un tempo. Secondo l’analisi di Cardini il periodo che va dalla seconda metà del Cinquecento alla seconda metà del Seicento è il secolo di ferro: siamo agli albori della modernità, i campi di battaglia d’Europa sono dominati dai signori della guerra e le armi da fuoco già comparse durante i conflitti armati dei secoli scorsi vengono perfezionate ed utilizzate in modo funzionale.
Nel libro il secolo di ferro è anche chiamato il secolo svedese, in effetti il protagonista di questo periodo storico turbolento è il re svedese Gustavo II Adolfo. Grazie alle innovazioni apportate alle tattiche d’ingaggio e grazie anche a nuove armi come l’archibugio la fanteria svedese dominò i campi di battaglia di tutta Europa. Il secolo di ferro è il secolo della Guerra dei Trenta anni, periodo nel quale l’intera Europa divenne un enorme teatro di guerra, le dispute dinastiche si intrecciarono con l’odio religioso, la guerra divenne giusta (bellum justium) il nemico fu demonizzato e, di conseguenza, più facile da uccidere.
La pace di Westfalia (1648) diede inizio ad un periodo tutto sommato pacifico, terminarono le sanguinose guerre che avevano infranto l’unità del fronte cristiano. Con la formazione primordiale dello Stato in Europa, il re divenne monarca, si elevò dal resto della nobiltà e non fu più primus inter pares. La fiducia nel progresso e nella scienza, concetti propri del secolo dei Lumi, non misero fine alle guerre ma tolsero il monopolio di esse ai signori della guerra, la formazione ed il reclutamento degli eserciti divennero un affare di Stato, i soldati vennero irreggimentati e dotati di un uniforme.
Con la fine della modernità e con lo scoppio della Rivoluzione Francese il concetto di guerra cambiò nuovamente, entrò in scena l’odio ideologico del nemico, la nascita di idee con ambizioni universali e totalizzanti saranno il futuro sigillo della mobilitazione totale per le future tempeste d’acciaio della guerra mondiale. Facendo riferimento alle tesi di Carl Schmitt, con l’avvento delle ideologie sui campi di battaglia la guerra come gioco crudele con le sue regole e i suoi rituali cavallereschi ha termine. Si assiste al trionfo dell’odio politico in battaglia e lo jus publicum europaeum quale strumento di regolazione della guerra tra Stati si avviò al tramonto. In conclusione, l’ormai classico lavoro di Cardini merita di essere letto in quanto è un ottimo e corposo manuale per studiare la guerra in un periodo storico lungo sette secoli, nei quali l’Europa cavalleresca dell’antica suddivisione tra oratores, laboratores e bellattores resistette fino alla grande Rivoluzione francese.