Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Blue di Derek Jarman rappresenta il testamento esistenziale ed artistico del regista inglese. L’opera, realizzata negli ultimi scampoli della sua vita, racconta il dramma di chi, a poco a poco, vede prosciugate le proprie energie dall’Aids. La malattia, che rese quasi cieco Jarman, costrinse il regista a vedere le immagini, materia del suo fare artistico, solo nei toni del blu. Questo gravissimo impedimento rappresentò l’ostacolo che permise al regista di «trasformare la sofferenza in una prestazione di senso» (V. E. Frankl), in una nuova forma filmica capace di condurre il cinema oltre se stesso.
La decostruzione del linguaggio cinematografico nell’opera testamentaria del maestro inglese è estrema, pervenendo ad una totale deflagrazione della sintassi filmica. La scena, infatti, si rapprende in un unico fotogramma blu. Qui, in questa riduzione del molteplice visivo ad una sola immagine, alla purezza del solo colore, privo di contorni, di linee che ne delimitino i confini, risiede la potenza di un gesto artistico e spirituale. Quest’operazione non mira all’essiccazione del flusso della vita nella fissità della forma, ma, al contrario, mira a suggerirne l’insondabilità, la profondità che non conosce recinzioni concettuali e figurali. Il cinema, in questo senso, non si prefigge di catturare ciò che si muove, di dispiegarne il protrarsi spazio-temporale, ma di suggerire soltanto ciò che si sottrae allo sguardo, l’invisibile che sottostà ad ogni cosa visibile, il blu che è immagine-cifra di ciò che è oltre ogni immagine ed ogni cifra, perché sua segreta e innominabile matrice.
La radicalità del gesto artistico di Jarman ricorda la pittura di Mark Rothko, per il quale la rinuncia al segno, alla figura, è azione funzionale alla rivelazione del mistero abissale che costituisce la radice silenziosa di ogni incisione, di ogni pennellata, e, dunque, di ogni forma e di ogni processo di formatività. Le lunghe distese cromatiche, prive di qualsiasi increspatura operata dalla linea, emergono quali soglie dell’ineffabile. Lo sguardo, perdendo ogni riferimento visivo definito che funga da orientamento, si perde, lasciandosi fagocitare dalla trascendenza del puro colore. Affrancarsi dalla forma, dunque, come afferma lo stesso Rothko, è «spogliarsi di tutti i veli», acquisire un nuova innocenza del guardare, accedendo a una conoscenza che è «svelamento», illuminazione improvvisa e abbacinante di ciò che è oscuro. L’opera, nel caso di Rothko e di Jarman che sembra riproporne la lezione in ambito cinematografico, è il luogo fisico in cui ciò che è remoto, inafferrabile, diventa vicino; il punto liminale in cui la trascendenza si rivela nel suo rapporto a-duale con l’immanenza.
Nell’opera del maestro inglese, l’intreccio costante fra trascendenza e immanenza è dato dalla compresenza dello sfondo, del solo fotogramma blu che permane nella sua ascosità impenetrabile, e delle immagini-acustiche della musica – svetta su tutte quella dei Coil –, di alcuni suoni naturali – le onde del mare nel loro perpetuo frangersi – e delle voci dello stesso Jarman e di altri attori, fra cui quella della musa del regista, Tilda Swinton. Le immagini evocate dai suoni e dalle voci sembrano stagliarsi, a mo’ di figure, sull’infinità del blu dello sfondo, operando, in qualche modo, un’increspatura nella sua infinita profondità. Le figure – i ricordi della vita di Jarman, le sue considerazioni sull’approssimarsi della stretta finale della morte –, come le increspature di uno specchio d’acqua, appaiono per un istante, per poi svanire, solo per indicare il fondo senza fondo del blu da cui provengono. Le immagini, qui, non impressionano l’occhio sensibile dello spettatore, ma il suo occhio coscienziale, quel primo sguardo che, come il blu, non è oggetto, ma condizione trascendentale del darsi di ogni oggetto, e, dunque d’ogni figura. L’ultima opera di Jarman, allora, in questa prospettiva, compie una vera e propria rivoluzione copernicana: ciò che è degno di essere interrogato non è ciò che si vede, ma il vedere stesso. Ma, per giungere alla purezza del vedere, alla trascendenza del blu, occorre prendere congedo da tutte le immagini particolari, da ciò che viene a formare il nostro io psicologico:
Abituati a credere nell’immagine, in un’idea assoluta di valore, il mondo ha dimenticato l’imperativo della Sostanza: non ti farai scultura né alcuna immagine, benché tu sappia che il compito consiste nel riempire la pagina vuota. Dal profondo del tuo cuore prega di essere liberato dall’immagine. L’immagine è una prigione dell’anima: la tua eredità, la tua educazione, i tuoi vizi e aspirazioni, le tue qualità, il tuo universo psicologico.
Qui, in questo penetrante passaggio dell’opera di Jarman, risuona la voce della mistica medievale, e, in particolare, del suo esponente più illustre: Meister Eckhart. In uno dei sermoni che più hanno dato adito alle accuse dei censori del domenicano, il mistico prega dicendo: «Prego Dio che mi liberi da Dio». Il Dio da cui il maestro domenicano chiede di essere liberato è il Dio determinato nei modi, ossia dalle categorie del pensare logico-discorsivo. Questo Dio, frutto dell’immaginazione, serve all’ego per nutrire se stesso e riempire il vuoto altrimenti intollerabile. Dio, reso un ente asservito ai propri scopi personali, diventa l’assoluto valore, l’immagine cui aggrapparsi per dire io.
Anche per Eckhart, dunque, «l’immagine è una prigione per l’io». A tal proposito egli distingue l’anima nelle sue potenze – intelletto e volontà – e l’anima nella sua primigenia scintilla, nel suo fondo (Grund). Finché l’io si attacca alle immagini che l’intelletto produce e che la volontà vuole possedere, il Grund der Seele, il fondo dell’anima, ovvero ciò che è divino in noi, resta velato. Nel sermone In hoc apparuit caritas dei, il maestro tedesco afferma che la minima immagine creaturale è grande quanto Dio. Appena l’immagine entra nell’anima, la sua divinità si dilegua. L’immagine produce dunque una frattura nell’essere, un’insanabile separazione fra l’io e la realtà, che è all’origine di quell’atteggiamento appropriativo nei riguardi delle cose che il tedesco chiama Eigenschaft. Il primo passo per operare il distacco dall’io, dalla propria identità psicologica, è riconoscere la finitezza, il carattere transeunte e insostanziale di quelle immagini creaturali che impediscono l’irruzione del fondo dell’anima. La consapevolezza della fragilità del nostro io storico, di quell’io personale che si riconosce principalmente nel proprio desiderio, emerge drammaticamente nelle parole, cariche di afflato poetico, dello stesso Jarman:
Pescatori di perle in mari azzurri. Acque profonde che lambiscono l’isola dei morti. In baie di corallo anfora trabocca dall’immobile fondo marino. Noi giaciamo lì, ci fanno vento le vele gonfie di navi dimenticate, scosse dai venti luttuosi del profondo. Ragazzi perduti dormono per sempre in un tenero abbraccio, labbra salmastre che si sfiorano. In giardini subacquei dita di freddo marmo toccano un sorriso antico. Suoni di conchiglie, sussurri di un amore profondo che la marea trascina con sé, in eterno. L’odore di lui, bello da morire, nell’estate della bellezza. I suoi blue-jeans calati, gioia pura nel mio occhio spettrale. Baciami sulle labbra, sugli occhi. Il nostro nome sarà dimenticato, col tempo. Nessuno ricorderà il nostro lavoro. La nostra vita passerà come le tracce di una nuvola e si dileguerà come foschia braccata dai raggi del sole. Perché il nostro tempo è il passaggio di un’ombra e le nostre vite corrono come scintille tra le stoppie. Metto una pervinca, blu, sulla tua tomba.
Le immagini creaturali dalle quali bisogna in ultimo congedarsi, comprendendone il carattere transitorio, sono le immagini legate agli affetti. L’amore non deve dissolversi, ma allargarsi, svuotandosi della pervicace inclinazione a inglobare in sé l’oggetto verso cui tende. Bisogna attraversare tutto il dolore del finito, la nostalgia che reclama ciò che si è perduto, per lasciarlo andare. L’atto di porre la pervinca, blu, sulla tomba dell’amato perduto simboleggia l’estrema deposizione del proprio io. Come la pervinca, l’io non lotta più, ma giace, abbandonato, sulla lapide degli affetti perduti. Il blu che impregna i petali del suo splendore è una traccia di quel blu originario in cui tutte le esistenze particolari, in ultimo, confluiscono, ritrovando finalmente la libertà dal dolore del finito. Il blu, come il fondo dell’anima, è, leopardianamente, «profondissima quiete», in cui annega ogni immagine. L’anima, dice Eckhart, non solo possiede un occhio esteriore, il quale, appunto, opera attraverso la mediazione delle immagini, rivolgendosi sempre fuori di sé; ma anche un occhio interiore, il quale, operando senza la mediazione di immagini e nomi, è posto a fondamento del primo. Infatti, quando l’anima non si aliena più nelle cose esteriori, «giunge a se stessa e risiede nella sua luce, semplice e pura». In questa luce primigenia, e in essa soltanto, l’angoscia, il sentimento del nulla di senso, svanisce, perdendo consistenza.
Il blu, l’ultimo colore che il regista inglese riesce a percepire, non è un colore, ma la luce inafferrabile che permette lo stagliarsi di ogni colore. Come il Grund di noi stessi, il blu non è Bild, immagine, ma Ur-bild, immagine originaria, tacita sorgente che, non apparendo, rende possibile ogni apparire determinato. Il Grund, di cui il blu è simbolo, nella sua indefettibile purezza non può essere interpretato come un luogo o uno stato da raggiungere, un che di oggettivo, dunque, su cui l’intelletto finito possa aver presa. Il Grund va inteso, infatti, come Abgrund, fondo senza fondo, «supremo distacco». Il suo essere non conosce stasi, fissità in cui possa ristagnare, ma è vita che perpetuamente zampilla. Stando alla nota metafora giovannea, è spirito che soffia dove vuole, libero da cause e da scopi, sunder warumbe.
Rientrare nell’abisso inattingibile di sé, nel blu originario del nostro occhio interiore, significa abbandonare «la casa confortevole che imprigiona nel suo tenero abbraccio». Ogni uomo, osserva Eckhart, è costitutivamente tensione alla verità e al bene; alla verità che è bene e al bene che è verità. Ma finché egli si affanna a cercare la verità e il bene fuori di sé, egli non li troverà mai. Da qui discende anche la superiorità del distacco, della conoscenza, nei confronti del sentimento, poiché il sentimento subordina il soggetto a ciò che ama e che accende il suo sentire. Per attingere all’insondabile «blu della felicità» occorre, come afferma Jarman, «essere astronauta del vuoto». Per distruggere «la paura che genera l’inizio, il durante e la fine», ossia la sofferenza per la nostra caducità, è necessario fare il vuoto in e di se stessi, pervenendo a quella triplice negazione – nicht wissen, nicht wollen, nicht haben – che Eckhart individua come il fine dell’itinerario spirituale. L’uomo deve essere vuoto affinché il suo spirito possa farsi ricettivo, atto ad accogliere l’unità di Dio. Così come, prosegue il maestro tedesco, l’occhio, per vedere il colore, deve essere vuoto da ogni colore. Allora, nel vuoto di sé, scomparendo la distinzione fra colui che vede e ciò che è visto, rifulge l’assolutezza dell’Urbild, di quel blu che non ha «confini o soluzioni», in cui l’occhio dell’uomo e l’occhio di Dio, dell’Assoluto, sono un unico occhio, «una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore.» Nel sermone In occisione gladii, Eckhart, dopo aver ribadito che l’esercizio delle virtù ci libera dal dolore di quella che, con Hegel, potremmo definire coscienza infelice, afferma che chi fugge la luce del Grund der Seele, in cui uomo e Dio sono un solo sguardo, «fugge nella mortalità e perisce». In assoluta consonanza, Jarman dice che è il tempo, ossia tutto ciò che è mortale e dunque accidentale e relativo, a impedire alla luce, al blu, a quel vedere originario che non conosce né spazio né tempo, né vita né morte, di raggiungerci e liberarci da una «vita divisa».
In prossimità della propria morte, Jarman, ci consegna un’opera su ciò che non può morire, su quella scintilla dell’anima che non può essere vista, o filmata, eppure è all’origine di ogni vedere, è il vero vedere. Forse Jarman avrebbe condiviso quanto affermava Mark Rothko: «l’arte è o estasi o non è».
Bibliografia consultata:
– Gianmarco del Re, Derek Jarman, Editrice il Castoro, Milano 2005.
– Mark Rothko, Scritti, SE, Milano 2015.
– Meister Eckhart, L’anima e Dio sono una cosa sola, Lettere, Firenze 2020
– Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985.
– Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, Adelphi, Milano 1999.
– Marco Vannini, Mistica e filosofia, Edizioni Piemme, Casale di Monferrato 1996.
– Marco Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Lettere, Firenze 2004.