Edoardo Tabasso, sociologo e ricercatore, insegna presso l'Università di Firenze e l'Italian Diplomatic Academy per la formazione e gli alti studi internazionali. Autore di numerose pubblicazioni, tra cui saggi e studi sulla storia sociale della comunicazione, le teorie complottiste, gli scritti e i discorsi di Bettino Craxi (1976-1993).
Da utopia ad eterotopia. 1921-2021: la parabola del comunismo italiano
(Prima parte)
La coscienza e il pensiero nazionale dovrebbero, soprattutto a sinistra, liberarsi dai miti sopravvissuti al comunismo, nella cognizione di quanto il comunismo abbia influenzato le vicende politiche dell’Italia ma senza che tutto venga disperso per operazioni di offuscamento della storia.
«Molta di quella che viene considerata storia è soltanto un mito», ricorda Elena Aga Rossi. Il mito del Pci come partito nazionale, autonomo da Stalin e da Mosca, il mito della resistenza e della diversità rispetto agli altri partiti comunisti europei, il mito di Gramsci, il mito di Togliatti, il mito di Berlinguer. Per François Furet, «la Rivoluzione d’Ottobre ha chiuso la sua traiettoria storica senza essere stata vinta sul campo di battaglia, ma ha liquidato essa stessa tutto ciò che è stato fatto in suo nome. Nel momento in cui si è disgregato, l’Impero sovietico ha offerto lo spettacolo eccezionale di essere stato una superpotenza senza avere incarnato una civiltà e la sua rapida dissoluzione non ha lasciato nulla: né principi, né codici, né istituzioni, neanche una storia».
Un valoroso comunista non pentito come Emanuele Macaluso consigliava a chi volesse capire meglio cosa sia stato il comunismo italiano di leggerlo attraverso le biografie delle persone che hanno popolato il suo alveo, «biografie molto ma molto diverse». Una dimensione che, aggiungiamo, permette di muoversi secondo un punto di vista diametralmente opposto alla dilagante cancel culture, molto di moda nei salotti liberal di certi campus occidentali, e che assomiglia tanto a una reazione isterica intrisa di generalizzazioni semplificanti nello stabilire quali processi, avvenimenti, personaggi della storia debbano essere rimossi e quali invece preservati.
La coscienza dovrebbe, sopratutto a sinistra, liberarsi dai miti sopravvissuti al comunismo, nella cognizione di quanto il comunismo abbia influenzato le vicende politiche dell’Italia, ma senza che tutto venga disperso per operazioni di offuscamento. L’anomalia della storia italiana del dopoguerra e del nostro sistema politico rimane l’esistenza, fino alla caduta del muro di Berlino, del più grande partito comunista d’Occidente, che ha ha esercitato un ruolo condizionante nei rapporti, nelle connessioni, nei finanziamenti, nelle “parentele” anche delle formazioni politiche nate da quell’esperienza e che a quella tradizione si richiamano: Pds, Ds e parte del Pd.
È la linea rossa che ha attraversato la vicenda politica, sociale e culturale dell’Italia. La tragedia degli equivoci, che tanto ha pesato sull’evoluzione della democrazia e della sinistra italiana, andrebbe descritta e analizzata ovviamente, per uscire da un certo provincialismo interpretativo italiano anche in chiave geopolitica pre, durante e post Guerra Fredda. Si collocherebbe più adeguatamente l’intera storia dei Pci e la sua indisposizione a perseguire “l’interesse nazionale” dentro i disequilibri dinamici italiani costretti a convivere nel globalismo internazionalista sovietico e nelle contraddizioni universalistiche dell’impero statunitense.
Fu Lenin a fondare la struttura politica sovietica, ben prima che Stalin arrivasse al potere perché come argomentò Aleksandr Solženicyn, «lo stalinismo non è mai esistito, lo inventò nel 1956 il nuovo leader dell’Urss Krusciov per addossare i difetti centrali del comunismo a Stalin e la mossa riuscì». Pertanto in questa sede si allude allo “stalinismo” come la pratica operativa marxista leninista del Pci: la sua organizzazione, la sua strategia, i suoi criteri di reclutamento e di socializzazione, di manipolazione. Una commistione mistica di soft e hard power nel senso di una praticità istintiva dell’establishment comunista, riadattata al contesto della società italiane e alla sua struttura sociale e di potere. «Una leadership di minoranze creative composte da un’élite di leader» coesi tra loro che ammette su criteri precisi di professionismo politico una grande mobilità, dimostrata sul campo, ai militanti, verso l’alto e verso le posizioni apicali del partito. Una classe politica che sapeva agire con ostentata indipendenza e libertà di modi e atteggiamenti ed un inossidabile omogeneità in grado di selezionare una classe politico-amministrativa che garantisse le direttive incontestabili del centralismo democratico. Virtù non riscontrabile con la stessa fedeltà (comunista) nelle classi dirigenti degli altri partiti.
Meriterebbe riflettere con pazienza e metodo (come per esempio quello di Carroll Quigley) su un tabù mai davvero sviscerato fino in fondo dagli studiosi: il ruolo e il funzionamento dei centri di poteri del Pci nelle sue svolte e nella sua capacità di occupare la scena politica. Si svelerebbero così le sue configurazioni di “famiglia allargata di potere”, di governo e sottogoverno. Configurazioni strutturate per network e nella costante presenza nelle cariche amministrative dello Stato, delle regioni degli enti locali, nelle istituzioni culturali, nelle cooperative, nella public diplomacy dentro il capitalismo di Stato e privato (la Fiat, ma non solo), nella magistratura, negli istituti finanziari, nelle scuole, nelle università, nelle fondazioni, nei centri di ricerca nell’industria culturale (media, editoria, cinema e tv, associazionismo, e potrei continuare). Inoltre, andando a rintracciare le connessioni imprevedibili e sorprendenti sopravvissute nel simulacro del fantasma comunista dentro gli scenari della globalizzazione post Guerra fredda scopriremo che nel contesto italiano della prima e seconda Repubblica nessun partito e nessuna egemonia culturale ispirata e collusa a quel partito sono riusciti a guadagnarsi un ruolo così pervasivo e condizionante come quello ottenuto dal Pci e dalle ibridazioni a lui sopravvissute. Un modus operandi capace di riplasmare a seconda delle opportunità e delle circostanze la psicologia sociale non solo delle élite, ma anche di interi conglomerati sociali, gruppi ceti e classi: una nuova tribù in nome del proletariato e, all’occorrenza, anche contro lo stesso proletariato. Abbiamo così i comunisti italiani orgogliosi della loro diversità, in nome della quale si sentono autorizzati ad agire come «attori morali».
Il partito rivoluzionario fu l’assolutizzazione di una filosofia della storia etico-politica profondamente antagonista verso tutto quello che ispirava i partiti convenzionali: nell’azzeramento di qualsiasi altra opzione ideologica sia da un punto di vista organizzativo e strategico, sia psicologico. Si trattava di «rare piazza pulita del vecchio mondo spettrale» (Marx) provocando «un incendio generale per bruciare le vecchie istituzioni europee» (Engels), «la mano di ferro del Partito, mentre distrugge, crea» (Lenin). Una distopia o meglio, riadattando l’elaborazione di Michel Foucault, una eterotopia. Le eterotopie hanno la fondamentale caratteristica di essere pervasive della realtà, poiché, in quanto contestazione dello spazio dominante, sono presenti in tutte le società e, nella loro forma più essenziale, definiscono «quegli spazi che hanno la caratteristica di essere connessi a tutti gli altri ma in modo da sospendere, neutralizzare, invertire l’insieme dei rapporti che essi rispecchiano o riflettono». Un modus vivendi del partito rivoluzionario che nella disciplina partitica idealizzava la spinta alla ribellione al non accettare l’esistente e le attese deluse indotte dalle democrazie liberali. Una strategia spesso ridotta a tatticismo di convenienza.
Il pragmatismo politico comunista declamava che tutto potesse essere cambiato radicalmente in nome di un presunto bene assoluto. Nella totale opposizione fra comunismo e ordine di cose esistente: l’assedio pantoclastico del marxismo leninismo, nemico interno della civiltà occidentale. Il Pci sapeva concretizzare efficaci procedure di perpetuazione, di cooptazione e di formazione attraverso le quali sceglieva selezionava, indirizzava, filtrava i canali di reclutamento, pescando i candidati adeguati in quella che, parafrasando Geminello Alvi, si configurava come una “aristocrazia eticista”, impegnata in una lotta competitiva per il mantenimento dello status quo e della sua sedicente cifra di distinzione.
Nel conformismo attuale, nell’inerzia secondo cui tutto è irreversibile, tutto è social media, paradossalmente il far politica del Pci potrebbe ispirare una pratica di argine alla marginalizzazione degenerativa dei post comunisti, i quali hanno preferito sbarazzarsi, approfittando di garanzie e appoggi internazionali, della loro storia con una velocità ipersonica anziché rivendicarla nelle sue luci e ombre. Proverò ad approfondire queste suggestioni con uno sguardo di sociologia politica, semplificando per ragioni di economia di spazio a disposizione, le contraddizione di un “marketing emotivo”, risorsa, vincolo, pendant strumentale dentro la visione del grande cataclisma redentore leninista.
Ci fu quindi il tentativo del Pci di superare il comunismo non approdando alla socialdemocrazia e al riformismo bensì al giustizialismo che incarna l’ambizione messianica e distopica del leninismo, che sacrifica la garanzia dei diritti individuali nella doppiezza, nella disinformazione sistematica, nell’emarginazione dei “dissidenti”, nella denigrazione personale degli avversari politici. Il legame dei comunisti con il marxismo-leninismo è arrivato a condizionare i destini della politica nazionale e di milioni di iscritti accesi dal sogno massimalista di una rivoluzione, impregnata di qualunquismo politico e condizionata da impulsi nervosi e schizofrenici. Per troppo tempo il Pci si è ritenuto infallibile e apparso incapace di trarre una lezione dai propri errori di percorso, con la conseguenza di trovarsi imprigionato in una continua fuga in avanti, fatta di continue forzature, perché accadeva (e accade ancora) che, invece, la storia si facesse più complessa e richiedesse da parte di tutti la coltivazione di una più accentuata disposizione a imparare di più, acquisire maggior sapere nonché competenze necessarie per vivere in modo riflessivo. Nonostante la maggiore opacità sociale, il Pci ha contribuito a propagandare l’illusione di vivere in un mondo sempre più trasparente, sempre più facile da giudicare e interpretare, da vivere e da controllare, da combattere e soverchiare senza poi avere ben chiaro con cosa sostituirlo o migliorarlo.
Togliatti, nella sua duplicità di padre della Costituzione e contemporaneamente dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale, ebbe l’intuizione di alleggerire il lascito gramsciano di tutti i suoi elementi contrastanti rispetto allo stalinismo e si pose l’obiettivo di lavorare per superare la vittoria politica di De Gasperi e della Dc, attraverso l’esercizio dell’egemonia sul piano culturale e quindi con la graduale conquista delle casematte ideologico-istituzionali-giudiziarie del sistema. Su questo piano il Pci, garantito dall’alibi internazionalista, è stato di una bravura ineccepibile, anche approfittando della distrazione della Dc e poi del Psi e dei partiti laici su questo terreno.
Lo stalinismo organizzativo, insito nel suo modello di partito e indossato nei tic dei suoi militanti, dei suoi quadri nei dirigenti, acquisiva consenso nelle grandi masse e rappresenta qualcosa che non può essere ignorato sia in sede storica che in sede politica. Il terrorismo ideologico come subcultura si scagliava su chiunque osava criticare il marxismo-leninismo e si abbatteva, puntuale e implacabile, l’arma della scomunica: diventavi un traditore e, come tale, venivi bollato con la lettera scarlatta del socialdemocratico, del riformista, del socialfascista, del craxiano. I segretari comunisti rispondevano a Mosca, mentre i partiti socialisti e socialdemocratici alla propria nazione, ma anche perché la sinistra massimalista agiva secondo modalità e principi totalitari, gli altri invece si conducevano bene o male secondo procedure mutuate dalla democrazia liberale.
Nel Pci ha continuato a circolare un’idea leggendaria del ruolo storico del leninismo: più che una opzione politica, una fede che aveva per oggetto l’identità del partito indipendentemente dalle dottrine che professa e dalle politiche che conduce. Luciano Pellicani sottolinea che il marxismo-leninismo, anche nella sua filiale italiana, scagliava, all’ombra dello sharp power sovietico, la contestazione globale (e anticristiana) della civiltà occidentale, di cui nulla si sottrasse a una condanna senza appello: né la scienza, né la tecnologia, né lo stato di diritto, né la democrazia parlamentare, né la socialdemocrazia, né, tanto meno, l’economia di mercato. Il risultato è stato un clima ultra-ideologico nel quale non c’era spazio alcuno per il riformismo e per il revisionismo.
(fine prima parte)