Piero Buscioni (1973) si è laureato in Storia della critica e della storiografia letteraria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Attualmente insegna lettere nelle scuole superiori. Aforista, poeta ed autore di saggi, ha scritto su riviste, quali «Erba d’Arno», «Nuova Antologia», «Hebenon», «La Clessidra», «Caffè Michelangiolo». Nel 2003 ha fondato, con amici, la rivista trimestrale «il Fuoco». È collaboratore de «il Portolano». Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “la Stampa”. Ha pubblicato la monografia Il rabdomante delle acque di Siloe. Studio su Arrigo Levasti (2000), l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge (2004), la raccolta poetica Fa’ luce ti prego fino all’anima (2009), il saggio Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (pref. di M. Guzzi, 2013), le raccolte Aforismi per la fine del mondo (2018; vincitore del Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” – sezione editi) e Tra cielo e terra (pref. di A. Castronuovo, 2021).

Le parole sono belle quando incarnano la verità. Ma naturalmente incarnano la verità soltanto quando sono belle. Alla verità gli stupidi non credono; anche questo è naturale. Né alla bellezza che per loro è sempre filia temporis, mentre ad esserlo è solo l’estetica. Karl Kraus ha catturato la Stupidità Umana e ne ha fatto un capolavoro abbagliante.

Il ventotto aprile del 1874 e il dodici giugno del 1936 sono stati gli estremi, cronologici, del soggiorno terrestre di uno dei più grandi scrittori, nonché del più grande aforista del secolo scorso. Jicin in Boemia e fatalmente Vienna, dove trascorse quasi per intero la sua esistenza, gli estremi geografici. Il fulgore fatiscente dell’impero austro-ungarico è stato dunque il suo mondo. Nel sontuoso sfacelo del regno asburgico Karl Kraus ha destinalmente dimorato. Ha respirato all’aria bizantina e gelida del tempo ultimo; della finis Austriae. I suoi respiri hanno incantato un’epoca, un cosmo che si inabissava, che celava e dispiegava il caos; e non finiscono di incantare. Perché la parola di Kraus è anche questo: un incantamento; un sortilegio; un rito apotropaico. E perché dell’aforisma è il respiro più lungo. Quantunque tutto ciò che Kraus ha scritto respiri lungamente – dalle Parole in versi ai saggi a quell’«opera maestosa e mostruosa», secondo l’espressione di Roberto Calasso, che è Gli ultimi giorni dell’umanità, a un libro che non si può definire, a un libro esorcismo come La terza notte di Valpurga –, respiri nell’unica direzione possibile per un’arte e per un’umanità autentiche: ad infinitum.

Nessuno scrittore è mai stato una cosa sola con la sua rivista come Kraus con «La Fiaccola». Nessuna rivista ha mai bruciato come «La Fiaccola» di Kraus. Venuta alle tenebre per portare luce, ossia uscita la prima volta nel 1899, ha continuato a bruciare fino al 1936, anno in cui il suo genio si è dimesso dalla vita. Non sarebbe potuta morire prima, non sarebbe potuta durare oltre, essendo una mistica emanazione, un demonico sprigionamento di Kraus stesso. In non pochi, eminentissimi ed eminenti, collaborarono alla «Fiaccola»; tra essi Strindberg, Wedekind, Liliencron, Altenberg. Ma Kraus scrisse quasi da solo la sua luciferica rivista. Del resto, nella seconda silloge di aforismi intitolata Pro domo et mundo scrive: «Non ho più collaboratori. Ero invidioso di loro. Mi facevano perdere dei lettori che volevo perdere io stesso».

La «Fiaccola», come l’intera opera di Kraus, è un irretimento magico del mondo. Come attratta da un formidabile magnete ogni umana stupidità e nefandezza si inviluppa nella parola di Kraus, e questa, sanguinante, ne fa giustizia. Quanto più ne sanguina, tanto più ne fa giustizia. È sovranamente di Kraus quella «sostanza assassina» che Canetti attribuisce ai grandi scrittori satirici, ma definirlo sic et simpliciter scrittore satirico è come definire Dio arredatore dell’universo. Anche perché le definizioni sono buone soltanto per i manuali e per i professori di letteratura. Attraverso la parola Kraus chiama ad essere le cose, crea ed eterna ciò che meramente esiste, ciò che di male esiste, per esaurirne in sé tutto il veleno. Facendosi, egli stesso, veleno. Perché l’autore de Gli ultimi giorni dell’umanità ha bisogno, per essere, del male, che come uno sciamano evoca. Non è innocente chi conosce il male; e Kraus lo conosce al punto da essere quasi implicato nello scandalo della sua creazione, da rimanerne quasi affatturato. Questo il suo mistero tremendo, che è anche il mistero di ogni poeta. Non si affrontano i demoni con i buoni sentimenti. In altre parole, che ne sarebbe stato di Kraus senza il male, e senza quel suo sinonimo che è la stupidità? l’immensa, tentacolare, accecante stupidità? Kraus battezza il male, e di esso conosce tutti i nomi. Per queste forche caudine passa la via che conduce alla redenzione: «Non c’è un essere così positivo quanto l’artista il cui materiale è il male. Egli libera dal male. Tutti gli altri non fanno che sviare il male e lo lasciano nel mondo, che si trova allora tanto più duramente colpito da un sentimento di derelizione».

Dopo aver letto un aforisma di Kraus la vita non può più essere la stessa. Ovvero, la vita continua ad essere, impunemente, la stessa, ma è il nostro sguardo che riconoscendosi nel suo di fuoco muta nel più inesorabile dei modi. Come nessuno Kraus rovescia il mondo; come nessun’altra la sua lingua incenerisce. E poiché la voce più esatta e più inflessibilmente vera è sempre quella della poesia, ricordiamo i versi con cui Georg Trakl – oltre al necrotico e mistico Salmo a lui dedicato – effigiò Kraus:

Bianco pontefice della Verità, / voce di cristallo, che alberga il respiro ghiacciato di Dio, / irato mago, / cui sotto il mantello fiammante tintinna l’azzurra corazza del guerriero.

I poeti non temono di usare parole come verità.  La scrittura di Kraus obbliga la menzogna a inginocchiarsi, la costringe a deporre la maschera. Sotto l’aereo, coartante peso delle sue proposizioni si flette e cede la massa inerte del mondo. Circondato dalla realtà, Kraus circonda la realtà con la parola. Nella sua implacabile tensione, nella sua perfetta tornitura, la parola di Kraus, rappresa in breve, lancinante folgore o espansa in catafratta, lavica colata, stritola ogni parola che veicoli la menzogna e il nulla. In principio era il verbo, e a quel verbo Kraus è fedele. Non potrebbe non esserlo neppure se lo volesse, perché il linguaggio lo possiede e gli comanda di testimoniare la verità: «Io domino solo il linguaggio degli altri. Il mio fa di me quello che vuole». Gli ingiunge di scrivere bene, il che implica scrivere il Bene. Ancorché attraverso il male. E Kraus scrive in modo eccelso perché dai cieli gli scende la parola.

Gli ultimi giorni dell’umanità – dramma portentoso e immisurabile, fiume che esonda da ogni alveo, inaudito evento naturale, sommovimento tellurico in veste di teatro – riproducono le tenebre, farsesche ed abissali, che inghiottono l’Europa al divampare della grande guerra. Virgolettano un’epoca che inaugura l’infinita fine dell’umanità; l’inizio della guerra perpetua. Ma quando Hitler prende il potere a Kraus non resta che il silenzio. «Io mi intaglio l’avversario sulla misura delle mie frecce», aveva scritto. Nessuna freccia però era della misura di Hitler, poiché Hitler era ciò che non ha misura. Contro il più mostruoso dei nemici, contro il nemico lucifugo e colossale  che oscurava l’orizzonte, il veggente Kraus non aveva alcuna freccia da scagliare. La parola magica di Kraus si infrangeva davanti alla satanica logorrea del niente; alla sua raggelante mutezza metafisica, alla sua ctonia, immane potenza. Fin quando non scocca il miracoloso incipit de la Terza notte di Valpurga: «A proposito di Hitler non mi viene in mente niente». Non viene in mente niente perché viene in mente il Niente. La mano pietosa della morte risparmierà all’ebreo Kraus la metastasi dell’orrore. Di fronte ad Auschwitz, forse, davvero non avrebbe avuto più parole.

I tre libri di aforismi di Kraus, Detti e contraddetti, Pro domo et mundo e Di notte, sono tra le opere miliari del secolo ventesimo. Appartengono a quel novero di capolavori senza aver letto e profondamente amato i quali è velleitario voler parlare di letteratura. O meglio, è velleitario voler parlare tout court. E questa non è una nostra opinione, ma semplicemente la realtà dei fatti. Poiché non siamo, per fortuna, nel campo delle scienze esatte, non possiamo dimostrarlo. Ma ci sono evidenze più abbacinanti di qualunque dimostrazione. È probabile che in Kraus l’arte aforistica attinga il suo culmine. L’idea platonica stessa di aforisma, ciò che questo deve essere nelle praterie iperuranie, nel cielo delle idee, ha forse qui la sua più perfetta incarnazione. Gli aforismi di Kraus assomigliano al giudizio di Dio. Una quasi sempre tracimante intelligenza non intorbida mai una profonda, adamantina vocazione etica; una sete inestinguibile di luce. Non capirli è un male. Ma capirli fino a un certo punto è un autentico delitto. Kraus non è uno scrittore per intellettuali, ma più modestamente uno scrittore per illuminati. O quantomeno per illuminandi. Se evochiamo il più pop degli aforisti, Oscar Wilde (per altro grande, da Il principe felice al De profundis a La ballata del carcere di Reading), possiamo affermare che sta a Kraus come uno spogliarellista al seduttore di Kierkegaard. Come in certe raffigurazioni medioevali il mondo è alla rovescia. Kraus, che addomestica demoni e parla con le sfere, rovesciandolo di nuovo rimette il mondo nella sua posizione naturale: «Una antitesi ha l’aria di essere semplicemente un capovolgimento meccanico. Ma quale contenuto di esperienze, sofferenze e conoscenze bisogna aver acquisito, prima di poter capovolgere una parola!». Assunto questo di scintillante evidenza agli occhi di chiunque sia destinato a capirlo; ed anche altrove così magistralmente declinato:

Un professore di letteratura opinò che i miei aforismi sarebbero soltanto il rovesciamento meccanico di certi modi di dire. È senz’altro esatto. Solo che non ha còlto il pensiero che regge la meccanica: e cioè che nel rovesciamento meccanico dei modi di dire vengono fuori più cose che nella loro ripetizione meccanica. Questo è i segreto del giorno, e bisogna averne fatto esperienza. Con tutto ciò il modo di dire si differenzia comunque a tutto suo vantaggio da un professore di letteratura, dal quale non viene fuori niente, sia che lo si lasci riposare in pace sia che lo si rovesci meccanicamente.

Qui, come spesso in Kraus accade, l’argomento che il mondo impugna contro di lui diviene l’argomento con il quale Kraus distrugge il mondo. Perché Kraus è fedele al linguaggio, attinge alle sue stesse scaturigini. Il linguaggio parla per bocca sua, e coloro per bocca dei quali il linguaggio parla, non possono fallire, sebbene esso venga quotidianamente violentato dagli uomini massa:

Il linguaggio è il materiale dell’artista letterario, ma non appartiene a lui solo, mentre il colore appartiene esclusivamente al pittore. Perciò si dovrebbe impedire agli uomini di parlare: la mimica è più che sufficiente per i pensieri che la gente ha da comunicarsi. È forse permesso che ci imbrattiamo continuamente gli abiti con i colori a olio?

E ancora: «Lo sciocco, che non riesce a passare davanti a un enigma cosmico senza scusarsi ricordandoci che si tratta della sua opinione di incompetente, si intasca le lodi per la sua modestia. L’artista che fa pascolare i suoi pensieri su un tombino è un arrogante». Gli aforismi di Kraus non sono soltanto geniali, sono anche supremamente comici. E come potrebbe essere altrimenti? Dal genio comicità e tragedia sono secrete per natura. E fame e sete di giustizia. E implacabile brama d’assoluto.

Questo esile e spericolato saggio non può purtroppo fungere da antologia. Ma un’antologia di Kraus è vergata, con lettere di fuoco, nella nostra anima. Qui nulla più è dato riportare che uno sparutissimo diadema d’aforismi; esortante però ad una lettura infinita. Le antitesi di Kraus, i suoi folgoranti paradossi, le sue ordalie verbali sono la porta stretta tramite cui si accede alla verità, (ancorché l’aforisma non coincida mai con la verità; «o è una mezza verità o una verità e mezzo»). Egli non conosce ideologia poiché letteralmente e miracolosamente vede: «L’uno scrive perché vede, l’altro perché sente dire». Non opina, non pensa per categorie, non media, non procede dialetticamente. Si limita a vedere. E ad ascoltare. Questi sensi gli bastano per raggiungere il cuore della verità; per profetare anche. E infine, o in principio, scrive; come se ogni parola avesse a che fare con la vita e con la morte, come se il Giorno del Giudizio – senza le virgolette che tanto piacciono ai contemporanei e con le iniziali rigorosamente maiuscole – fosse già tra noi. Forse rientra nei compiti del genio quello di anticipare il Giorno del Giudizio: «Con la maggior parte degli uomini io non riesco a spingermi fino all’anima, ma comincio a dubitare già delle viscere. Perché non posso credere che questo mirabile meccanismo sia stato creato per mettere insieme un commendatore, e soltanto l’autopsia può convincermi che un usuraio abbia una milza».

Della parola priva di aura, mùtila di senso metafisico; della parola scevra d’anima e di suono; della parola putrida da cui non goccia l’essere ma il niente, dunque di quasi ogni parola detta e stampata, Kraus è stato il più sottile, il più inesorabile, il più enorme dei nemici. «Ciò che è stato stampato in un solo giorno degli ultimi cinquant’anni ha avuto più forza nel distruggere una civiltà che non le opere complete di Goethe nel difenderla». Oppure:

Io credo che noi dobbiamo fondamentalmente una cosa alla stampa, la quale di recente è apparsa ai ministri “indispensabile come interprete dei punti di vista diffusi nella popolazione”: e cioè che un caffettiere vivo ci è ogni giorno più presente di Grillparzer, Schubert e Stifter. Il che d’altra parte dovrebbe coincidere con i punti di vista diffusi nella popolazione.

Questa è la Vienna di Kraus, ma è anche tutto il mondo. È ciò che era quando il bianco mago dalla corporatura minuta e dagli occhiali ovali prendeva la penna in mano e ordinava al destino di non nuocergli fintanto che la sua vindice frase non fosse terminata, e ciò che adesso, ancor più rovinosamente, è. Come tutti i grandi scrittori, Kraus non è stato solo un diagnosta del proprio tempo, ma anche un profeta.

Per Kraus l’artista è colui che sta dall’altra parte della vita. Colui che salvando dalla vita, salva la vita. Il suo odio è in realtà un’epifania d’amore. Benché in esilio, la sua voce inconfondibile e furente, venefica e lenitiva, ci fa sentire a casa. Benché sia notte, un aforisma di Kraus spalanca le porte dell’anima e invita il giorno ad entrare.

Tutta l’arte mi sembra essere soltanto arte per l’oggi, se non è arte contro l’oggi. Fa passare il tempo – non lo caccia via! Il vero nemico del tempo è il linguaggio. Esso vive in una intesa immediata con lo spirito indignato del proprio tempo. Qui può nascere quella congiura che è l’arte. La compiacenza, che ruba le parole dal linguaggio, è nelle grazie del tempo. L’arte può venire soltanto dal rifiuto. Solo dal grido, non dalla rassicurazione. L’arte, chiamata a consolare, abbandona con una maledizione la stanza dove l’umanità è morta. Il suo compimento è la dove non c’è più speranza.

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