Piero Buscioni (1973) si è laureato in Storia della critica e della storiografia letteraria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Attualmente insegna lettere nelle scuole superiori. Aforista, poeta ed autore di saggi, ha scritto su riviste, quali «Erba d’Arno», «Nuova Antologia», «Hebenon», «La Clessidra», «Caffè Michelangiolo». Nel 2003 ha fondato, con amici, la rivista trimestrale «il Fuoco». È collaboratore de «il Portolano». Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “la Stampa”. Ha pubblicato la monografia Il rabdomante delle acque di Siloe. Studio su Arrigo Levasti (2000), l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge (2004), la raccolta poetica Fa’ luce ti prego fino all’anima (2009), il saggio Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (pref. di M. Guzzi, 2013), le raccolte Aforismi per la fine del mondo (2018; vincitore del Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” – sezione editi) e Tra cielo e terra (pref. di A. Castronuovo, 2021).

«Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime». Partiamo da qui. Da questa vertiginosa sentenza, da questa asseverazione grondante d’infinito. La formula lui, Emil Cioran, in un libretto intitolato Lacrime e santi. Partiamo da qui perché con Cioran, nato in Romania nel 1911 e morto a Parigi nel 1995 – ma trattandosi di Cioran sarebbe forse meglio dire morto in Romania nel 1911 e probabilmente nato a Parigi nel 1995 – un punto vale l’altro. Della sua opera tutto o quasi è citabile, esaltabile, proiettabile come su uno schermo di fuoco, con il rischio di perdersi in un dedalo aforistico dei più sesquipedali e dei meno sistematici, di stordirsi, di sciogliersi nella musica corrosiva e dolcissima della sua prosa, di cui è stato detto – lui rumeno, anzi romeno come molti di quei grandi prediligevano farsi chiamare in omaggio alle proprie origini lontane, ed alcuni altri ricordiamone, evochiamone, frangiflutti nei marosi del Novecento, Mircea Eliade, Vintila Horia, Constantin Brancusi, Eugene Ionesco… – che abbia incarnato il miglior francese, quello cartesiano, classico, terso e trasparente, quello dei grandi moralisti, levigato e prezioso come un cristallo di Boemia o un vetro di Murano.

Un miracolo dunque. E d’altro canto non c’è vero scrittore, artista autentico, grazie al quale non se ne verifichi almeno uno di miracoli. Per questo suo essere una miniera, un giacimento aurifero senza fine né principio, al pari della vita vulcanico e proteiforme, è forse meno arduo scrivere come Cioran che scrivere di Cioran. Mi si perdonino il paradosso e la blasfemia. Si possono tentare delle definizioni, alcune sono già state coniate: angelo sterminatore o squartatore misericordioso, buon Esculapio del Sesto Arrondissement o Nietzsche dei Carpazi, giardiniere dell’Apocalisse o mistico refoulé, represso, come ebbe a scrivere Arnaldo Pini, grande e indimenticabile amico. Potremmo aggiungere un Adamo senza paradiso ma con la sua lancinante nostalgia, una tremante salma di eccelsi apoftegmi incoronata, un sopraffino forgiatore di saette e meraviglie che contempla il cielo sull’orlo di un abisso con il terrore di cadere nel cielo, un eterno innamorato di Dio non sai se più respinto o respingente, un Giobbe che ha perso tutto senza aver mai posseduto nulla, un principe clochard, un accattone dell’assoluto, un moderno sibarita d’ogni dolore come d’ogni incandescente ebbrezza o mai intravista beatitudine, un ubriaco cronico e stupendo di lucidità e di notti insonni, un esule ovunque, un appestato di incomparabile fascino, un eremita imprecante sulla soglia della demonicità, un crocifisso quotidiano, un genio che tutto divora, che tutto getta in pasto a se stesso per poi gettarsi in pasto ai cani, un maestro di bellezza, di scherno e di pietà, senza cattedra perché la sua cattedra è l’infinito, ma soprattutto un amico, tra i più veri e confortanti, per quanto strano possa sembrare a chi lo conosce e chi lo conoscerà dopo questo mio piccolo tributo di sangue.

Come per quella ragazza giapponese, che persuasa ad uccidersi, scoprì in tempo utile le discettazioni di Cioran intorno al suicidio e anziché mettere in atto il suo – un giornalista direbbe – insano proposito, optò per scrivergli; così da una  comune, innominabile ossessione, da una stessa devastata nicchia dell’anima nacque una bellissima corrispondenza epistolare. O per quell’altra, libanese, che rintanata in una Cantina di Beirut, sotto i bombardamenti, tra il fuoco, la polvere, l’arsura, sotto tutto il male del mondo, leggeva Cioran perché ne trovava «tonico lo spirito e corroborante lo humour». Anch’io al suo posto avrei forse fatto lo stesso, avrei letto Cioran, da lui mi sarei fatto accompagnare, la cosa migliore in una simile situazione, il più appropriato modo di passare il tempo ed eventualmente trapassare, secondo solo ad un altro, il più adatto in assoluto: pregare. Ed è questa l’ennesima prova di una toccante verità; la verità che l’arte, la bellezza non ingenerano mai bruttura, disperazione, morte. Mai, neanche quando sembrano irresistibilmente protendersi sul baratro, tentarlo, cedergli, affiggere il proprio eroico sguardo in fondo al suo indicibile. Al limite possono caderci loro, i martiri della bellezza, dentro il  baratro. Sarà in quel caso un sacrificio d’amore, un olocausto consumato affinché qualcosa di più grande avvenga. Ma non la loro opera, quella no. Quella col baratro contende, fino alla vittoria. Solo la letteratura kitsch, la paccottiglia pornografica speziata di bestialità e infarcita di idiozia – il niente che vocifera e deturpa – finisce nel baratro, anzi no, perché non è degna del baratro. A ben vedere non finisce affatto perché non è mai iniziata.

Cioran non ha mai potuto dimenticare il paradiso, obliare Dio, questo «cancro luminoso», come lo chiama nel Sommario di decomposizione, e quindi non ha mai potuto vivere se non in questa dilaniante nostalgia dell’Altro e dell’alto. In sostanza non ha mai potuto vivere. E non è forse questo il miglior modo di vivere? La memoria del cielo gli scorreva nelle vene, gli albergava in petto. Come nessuno credeva in Dio, pensava a lui, con una specie di estenuato accanimento, di furia coatta. Ma in lui non aveva fiducia, non gli si abbandonava. In ogni sua pagina, in ogni suo sospiro introdotto nell’economia dell’intelletto, in ogni sua lacrima, in ogni sua mirabile sentenza, stanno inesaudita preghiera e inesaudita bestemmia, inno ed epicedio, espressi o virtuali. Mai la pace.

 L’universo di Cioran è un luogo disertato dal Bene. In esso le orme degli dei fuggiti si confondono, sono occultate nella melma dei giorni e delle notti, nell’abominio del tempo in cui siamo gnosticamente caduti. Non un Dio, grande e misericordioso, ma un funesto demiurgo – è questo il memorabile titolo di un suo libro – deve avere atteso prima del primo uomo alla creazione del mondo; con esiti catastrofici. Un turpe logoteta del Supremo è incorso in abuso d’ufficio abortendo la materia e il cosmo.

Che l’esistenza sia stata viziata alla sorgente insieme agli elementi chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come minimo una volta al giorno, avrà vissuto da sonnambulo. È difficile, è impossibile credere che il dio buono, il “Padre” sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato.

Eppure della creazione Cioran non manca di scorgere la bellezza, di intuire la gloria, a sprazzi balenante, tra atomi ed astri. Egli stesso – questo intimo di Pascal e Schopenhauer, questo degno commensale di Giobbe e di Pirrone, di Epitteto e Chamfort (e di Beckett commensale non ipotetico, data la loro bella amicizia, con l’autore di Aspettando Godot che affermava di sentirsi al sicuro tra le rovine del suo Demiurgo), di Baudelaire e Dostoevskij, e della più grande poetessa di tutti i tempi, Emily Dickinson; questo riottoso discepolo dei sommi mistici d’Oriente e d’Occidente, questo adoratore di Bach, che proprio nel Cantor vedeva la più indefettibile prova dell’esistenza di Dio – contribuisce alla bellezza, è un fedele della bellezza e della gloria, aldilà di ogni caduta, di ogni refuso implacabilmente disvelato nella periclitante architettura dell’essere. Disvelato e messo in prosa; prosa divina qualche volta. Anacoreta a corto di deserti, transfuga del consorzio umano, santo misoneista e anche un po’ santo bevitore, asceta con un piede nell’inferno, è sempre lì sul punto di arrendersi, di cadere nelle braccia della verità: «Esaurite le mie riserve di negazione, e forse la negazione stessa, perché non uscire in strada a gridare a squarciagola che mi trovo sulla soglia della verità, dell’unica che valga? Ma quale sia, ancora non lo so; ne conosco solamente la gioia che la precede, la gioia e la follia e la paura». Così nella Tentazione di esistere.

Per chi lo ama avviene con Cioran un’alchimia fantastica, una corrispondenza magica, elettiva. Prodigio di passione e com-passione incline a verificarsi più per lui, per sua intercessione, che per quella forse di ogni altro scrittore. Leggere un suo libro equivale a stringergli la mano, scrutare  quei suoi occhi di sconfinata intensità, adagiarsi con lui nella sacra cripta di un pensiero terremotato e folgorante, sfasciare le abborracciate quinte dell’universo per uno sguardo, sterminante ed impossibile, oltre il velo di Maya. Cioran non è semplicemente uno scrittore, è una meravigliosa malattia. E noi uccideremo chiunque ci vorrà curare. Non abbiate paura (lo dice anche il Papa, di lui almeno vi fiderete) della sofferenza e del dolore, non temete il precipizio. Per aspera ad astra. Leggete Cioran, ma non con il cervello, o non con il cervello solamente; non col vostro mezz’etto di ragione e i vostri venti grammi di cultura. Non così, perché ne sareste ostracizzati, presi a calci, irrisi. leggetelo con l’anima se l’avete, con ciò che sempre e sopratutto adesso manca, attingete alle sue «riserve sostanziali d’assoluto», per citare Squartamento. Cioran squarta per guarire, notomizza per la vita. Sua l’arte pietosa del cerusico, la cura più profonda d’anime. Presso i suoi libri un autentico ristoro. Non capiranno gli sciocchi, i ruminanti bipedi, i babbioni, i molti stomaci ed apparati genitali da tutto il resto avulsi, i tanti buchi umani con il niente dentro, ma non capiranno neppure – altra infinita armata, altra pugnacissima ancorché essenzialmente imbelle schiera o legione impiegatizia – gli intelligenti non illuminati, i razionalisti, i materialisti, gli statistici, i giuristi, gli economisti, i demografi, gli storici, i non pneumatici come scrive Ceronetti; e i politici e i pubblicisti e i giornalisti e gli stilisti, e così via… tutti, a migliaia, a milioni, di ogni razza, di ogni sesso e di ogni età, tutti gli uomini seduti, tutti gli uomini inseriti, tutti gli uomini arrivati, burbanzosamente certi di essere casa, dell’esilio ignari, tutti gli uomini sul piano metafisico spacciati…

Cioran è un mistico che per una viziata volontà o per destino ha procrastinato la propria terrena trasfigurazione fino a farsela sfuggire, ma sempre tenendosela davanti, come il possibile orizzonte del sublime da non toccare perché non vada in frantumi o si dissolva, alla stregua di un miraggio nel deserto. Forse, kafkianamente, anche per lui un castello, vicino e insieme lontanissimo, si ergeva, una silenziosa legge risplendeva, ma nessuna via poteva scorgere che là lo conducesse. Nessuna via umana. O la porta era tanto spalancata da risultare intransitabile. O ancora temeva che in nessun luogo fosse la salvezza, nemmeno in Dio. Così non si è mai davvero incamminato. Eppure quale inesausto, struggente, non di rado eccelso dialogo con Dio… anche beffardo a volte, caustico, ingiurioso. E se fatiche di Sisifo ci appaiono le sue scalate al cielo, o simulazioni di scalate, non vuol dire affatto che una fatica di Sisifo sia stata l’intera sua ammirevole esistenza – e quella di ogni uomo e caro Camus… – perché come fulgidamente canta il fulgido Péguy nel suo magnifico poema Il portico del mistero della seconda virtù:

Tutti i giorni, voi dite, tutti i nostri giorni sono gli stessi / sulla terra, sono lo stesso. / Partendo dagli stessi mattini vi portano alle stesse sere. / Ma non vi guidano alle stesse sere eterne. / Tutti i giorni, voi dite, si assomigliano. – Sì, tutti i giorni terrestri. / Ma state tranquilli, bambini, essi non somigliano / all’ultimo giorno, a quello che non somiglia a nessun altro.

Di seguito si delibino i titoli non ancora evocati dei suoi libri: Esercizi di ammirazione, Storia e utopia, Sillogismi dell’amarezza, La caduta nel tempo, L’inconveniente di essere nati. Ma i monumentali Quaderni, sedici anni di diari parigini usciti postumi, rappresentano il libro in cui con la più grande  ebbrezza mi sono sprofondato. Ricordo di averli letti in meno di due giorni, di insonne e lucida passione, di semi-anestesia dei sensi, di feroce veglia dell’intelletto e dello spirito. Quello del diario è una genere bellissimo, che dell’anima riflette il respiro quotidiano, purché a tenerlo sia una grande scrittore. Qui, più che altrove, nei meandri delle sue fitte pagine, di verità vergate e d’abbandono, nella carne logora e splendente di ogni tramonto e di ogni alba, di ogni mattino, meriggio, sera e notte, sentiamo la commovente prossimità, la vicinanza feriale e prodigiosa dell’artista. Il diario non è perfetto, e alla perfezione non tende. Della creazione letteraria non ha la compiutezza, il rigore, la struttura e il disegno sapienti, la necessità incontrovertibile e oggettiva. Eppure a suo modo è necessario, intimamente, sommessamente necessario, al suo estensore in primo luogo, ma anche a noi che con trepidazione lo leggiamo, altresì amandone il più modesto lessico, la sintassi meno sfolgorante, la non avvenuta limatura, la bellezza aurorale e intrecciata di sospiri, di dubbi, di paure, le lacrime e i silenzi, le parole effimere, la voce querula e melodiosa, supplichevole e veemente, che ci giunge come il lento e pazientemente reiterato e mai uguale frangersi delle onde sulla riva, che ci incanta come il transito delle nuvole nel cielo, come una duna di sabbia che all’infinito il vento del deserto scolpisca e poi dissolva. Il diario è l’altra faccia dell’opera, il suo prosaico contrappunto, il suo volto più tenero e tremante. Ed è anche la nostalgia dell’opera, la sua speranza. Nel diario, con se stesso e con noi, lo scrittore parla, spera, prega, sorride, odia, ama, soffre, tace. Come nel diario, in nessun altro luogo di parole il genio si fa domestico ed amico.

E i Quaderni di Cioran, di quest’uomo tanto terribile nella scrittura quanto affabile nella vita, non sono steppe siberiane, ma giardini di delizie, molto più paradisiaci che infernali. Tutto brucia e illumina. Tutto, dal pensiero siderale intorno a Dio al comico diverbio con la fruttivendola, dal giudizio letterario svagato e affilatissimo alla notte insonne, dall’invereconda sbornia all’aforisma sgomentante sulla natura umana.

l’acuminata riflessione storica, laddove si dichiara potenziale apologeta della Prussia, ultimo caduto bastione contro le orde sovietiche, e dei prussiani, meno crudeli di tanti altri popoli, infinitamente meno spietati degli austriaci, dei bavaresi, dei renani, dei tedeschi del sud, i veri padri del nazismo.

O la disarmata confessione, il palpitante anelito di un’anima braccata dall’assoluto, di uno spirito la cui sovrana malinconia è la reminiscenza del Bene, la sua ineffabile speranza. L’inquietudine di chi sente la brezza dell’infinito, avverte il suo bisbiglio, per riecheggiare Romano Guardini e il suo preziosissimo libro Ritratto della malinconia, proprio da Cioran, nei Quaderni, elogiato.

Il devoto ascolto della Passione secondo San Giovanni lo appaga al limite dell’estasi, ma poi prega così «Signore, fa che non debba soccombere a questo fuoco, al mio o al tuo – chi lo sa?».

Dai Quaderni può anche essere secreta una cauterizzante pirotecnia di motti: «Combatto la disperazione con l’ira e l’ira con la disperazione. Omeopatia?». E se Hitler, al funzionario che nel bunker di Berlino prima di congiungerlo in matrimonio con Eva Braun gli chiese se fosse ariano, avesse detto no, sarebbe stata la più fenomenale risposta della storia.

E ancora: «Sade non è né uno scrittore né un pensatore. (I surrealisti, Blanchot, Bataille, Klossowski si sono completamente sbagliati su di lui)». Del resto, lo afferma lui stesso, della generazione Sartre-Bataille gli interessa solo Simone Weil. E più oltre, «ho appena letto un articolo di Klossowski su Nietzsche privo di senso, che vorrebbe essere profondo ed è solo arzigogolato. Non si capisce dove l’autore voglia andare a parare; e questa è la cosa più grave che si possa rimproverare a uno scrittore. D’altronde l’indeterminatezza e il mistero sono molto apprezzati dai giovani, che incapaci di un pensiero chiaro, inconsciamente si rallegrano di ritrovare i loro stessi difetti nei maestri».                

Ad altri, saggiamente, lascia la più pomposa fama; lo scacco, il fallimento in attimi di grazia gli dischiudono o gli fanno presagire iperuranici tesori. Le forche caudine del tempo e dello spazio: bisogna passarci attraverso, in tutte le fibre del proprio essere patire l’entropia dell’universo, la dispersione, lo sfacelo, l’infinita vanità del tutto, per tutto guadagnare, per tutto vincere nell’ordine supremo dello spirito. La derota es el blason de l’alma bien nacida; La sconfitta è il blasone dell’anima ben nata. Non so se Cioran conoscesse questo proverbio spagnolo che esalta la morale aristocratica dell’hidalgo. Di certo l’avrebbe amato. Ecco la sua idea della gloria: «Camminare in un bosco tra due siepi di felci illuminate dall’autunno: questo sì che è un trionfo. Che cosa sono a paragone le lodi e le ovazioni?». E cosa il denaro, e cosa il possesso che a tal punto egli detestava da non avere, lui, Cioran, una sua propria biblioteca.

Se la profonda necessità è ciò che distingue una vera opera d’arte e ciò che nell’arte più manca, soprattutto oggi, Cioran è anche questo, un maestro di necessità. Perché di talento, di intelligenza, di tenacia sono dotati quasi tutti. Ma non di luce. Torturato dall’insonnia, dal suo nulla senza tregua, Cioran, giovanissimo, scrive a Sibiu in Transilvania, un libro il cui stesso titolo testimonia di un coraggio e di una necessità assoluti: Al culmine della disperazione. Lo scrive nella sua lingua d’origine, il romeno. È una catarsi, una liturgia iniziatica e liberatoria, una specie di «esplosione salutare». Se non l’avesse scritto, lo dice lui stesso, certamente avrebbe posto fine a quegl’antri di veglia coatta, a quelle caverne crudeli, a quelle bolge di buio interminabili e senza quiete che dovevano essere le sue notti. Da tale immacolata necessità nasce il suo libro; da una simile immacolata necessità dovrebbe nascere ogni libro. Al culmine della disperazione, libro, com’è naturale, meno perfetto di altri, più maturi e magistrali, più formalmente impeccabili nel loro superbo francese, tocca ed incendia in modo unico. Il suo epilogo mi resterà inciso dentro per sempre.

La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore. E se molti  hanno finito per trasformare in banalità quest’asserzione, è perché non hanno mai amato veramente. Aver voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco che cosa significa salvarsi attraverso l’amore, la sola fonte di speranza.

Per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all’amore neppure se la disperazione e la tristezza occultassero la fonte luminosa del mio essere, dislocata in chissà quali angoli remoti della mia esistenza.

In questo mondo ogni cosa può farmi cadere, tranne l’amore. E anche se al tuo amore si rispondesse con disprezzo o indifferenza, anche se tutti ti abbandonassero e la tua solitudine fosse senza appello, i raggi del tuo amore che non sono potuti penetrare negli altri per illuminarli o rendere la loro tenebra più misteriosa si rifrangeranno per ritornare in te, perché nell’istante dell’ultimo abbandono il loro fulgore ti faccia luce e le loro vampe ti riscaldino. Allora le tenebre non saranno più un’attrazione irresistibile, e la visione delle profondità smetterà di darti le vertigini.

Ma per accedere a questa luce totale, all’estasi dell’assoluto splendore, al culmine e ai confini della beatitudine, smaterializzati dai raggi e purificati dalla serenità, occorre essere sfuggiti definitivamente alla dialettica della luce e delle tenebre e pervenuti all’autonomia della prima parola. Ma chi può essere capace di tanto amore?

Questa non è soltanto “letteratura”. O è letteratura che trascende se stessa, che compie se stessa, che scioglie se stessa in un miracoloso inno alla carità. Letteratura che sta ad un passo dalla rivelazione. E poco importa se questo passo non sarà mai fatto, se ignoto rimarrà il Bene. Poco importa, perché sta tutto in quest’attesa, oltre quest’attesa non c’è nulla. Solo Dio.                                                                   

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