Piero Buscioni (1973) si è laureato in Storia della critica e della storiografia letteraria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Attualmente insegna lettere nelle scuole superiori. Aforista, poeta ed autore di saggi, ha scritto su riviste, quali «Erba d’Arno», «Nuova Antologia», «Hebenon», «La Clessidra», «Caffè Michelangiolo». Nel 2003 ha fondato, con amici, la rivista trimestrale «il Fuoco». È collaboratore de «il Portolano». Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “la Stampa”. Ha pubblicato la monografia Il rabdomante delle acque di Siloe. Studio su Arrigo Levasti (2000), l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge (2004), la raccolta poetica Fa’ luce ti prego fino all’anima (2009), il saggio Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (pref. di M. Guzzi, 2013), le raccolte Aforismi per la fine del mondo (2018; vincitore del Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” – sezione editi) e Tra cielo e terra (pref. di A. Castronuovo, 2021).

A costo di dispiacere agli attuali egalitaristi dello spirito, affermiamo che tra le opere dell’ingegno umano esiste una gerarchia; che una scala dei valori è perennemente possibile ed anzi doverosa. A tal riguardo, procediamo a rilevare e quindi a dissipare un errore dei più tipici emanante dallo zeitgeist, o spirito del tempo: la confusione, pervicacemente alimentata, tra canzone, ancorché d’autore, e poesia. Canzone d’autore che peraltro abbiamo amato ed amiamo. E come non amare, per mentovarne soltanto alcuni, Franco Battiato, Giovanni Lindo Ferretti e Paolo Conte, le tre corone italiane, o, tra i non italofoni, citati in ordine di apparizione in questo mondo, Leonard Cohen, Tom Waits e Nick Cave? Ma dichiarare, come, in tono stentoreo ed attoriale, fece Paolo Villaggio a beneficio di telecamere in occasione della scomparsa di De André, «È morto il più grande poééta del novecento» (con la e un po’ chiusa e strascicata, al modo dei liguri) è semplicemente una sciocchezza. Per l’eccellente, tautologica ragione che De André non era un poeta ma un cantautore. Ed ora cominciamo. I punti che seguono sono naturalmente interconnessi.

La poesia, se è poesia, attinge a profondità cui la canzone non può pervenire; e non già per una qualche deficienza dei suoi interpreti (quantunque non pochi canzonettari siano effettivamente deficienti), bensì per il suo stesso statuto ontologico di canzone, in ragione del quale essa è e non può non essere letteralmente più superficiale, più epidermica della poesia.

«Più passa il tempo e più mi rendo conto della grandezza di De André». Così si espresse una persona di nostra conoscenza (e così si esprimerebbero molti intellettuali italiani), non sprovvista peraltro di intelligenza e di cultura. Ecco, questo è del tutto impossibile; dacché la canzone si esplica interamente non appena viene alla luce per poi restare come confitta nel suo tempo, senza residui o metamorfosi o implementazioni di senso venture. È la poesia –  quella vera, ça va sans dire – a risuonare oltre se stessa, ad essere come una sonda lanciata nel tempo, a fiorire per messi future, o addirittura invisibili.

Il cantautore lavora sull’emozione; ma oltre l’emozione non va. E questo semplicemente perché, pur bravissimo, oltre non può andare. La poesia autentica produce anche emozione (e non potrebbe essere altrimenti), ma è soprattutto pietrificata bellezza e durevole valore. Orazianamente è, o aspira ad essere, più duratura del bronzo.

Il cantautore piega, comprime, manipola il linguaggio. Il poeta si pone in ascolto del linguaggio. Se ne fa ricettacolo e quasi strumento.

La canzone, scevra della sua musica, quasi non sussiste. E da ciò l’effetto un po’ penoso che sortiscono le citazioni di versi (che in realtà versi non sono) di canzoni. Provatevi, per esempio, a togliere la musica a La guerra di Piero o a Bocca di rosa e vedete che belle poesie rimangono. No, non ce l’abbiamo con De André (semmai, con i suoi trasmodanti cultori, gente per cui Gesù Cristo è degno di rispetto perché Faber gli ha dedicato un album); è che coltiviamo una passione: la verità.

La poesia è intrisa di fatum e tende all’esattezza, cioè alla verità. La canzone è sempre, o è spesso, per sua natura, leggermente vaga; e, per dir così, eventuale. Prendiamo un brano di Guccini (sebbene, invero, non tra i suoi più belli), che è senz’altro un autore eccellente:  Auschwitz. L’abbiamo cantata tutti. Ascoltandola, tutti ci siamo emozionati. E tuttavia, cosa ci dice davvero questa canzone di Auschwitz, di quel supremo mysterium iniquitatis che è stato il nazismo? Pressoché nulla. Per restare in tema: «Questo amore è una camera a gas». Così, scomposta e assai popolarmente plaudita, cantava la ben nota urlatrice di Siena. Non ci abbassiamo a chiosare questo crimine linguistico; averlo virgolettato è sufficiente. Vero è che Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, scrive che «essere innamorati è come essere ad Auschwitz». Ma, in primis, questa frase si sostiene nell’economia di un libro magistrale; in secundis, quod licet Jovi non licet bovi. E ancora: Dio è morto. Non stiamo, naturalmente, citando Nietzsche (peraltro anticipato da Mainländer); bensì la canzone di Guccini interpretata dai Nomadi (ci auguriamo di non sbagliare, ed altresì auspichiamo che venga presto istituita una cattedra di filologia canzonettistica). Tra le varie cose che si dicono in questo celeberrimo pezzo, spicca quanto segue: «nelle auto prese a rate Dio è morto […] Nei campi di sterminio Dio è morto». Ci chiediamo se qualcuno abbia percepito l’enormità di questo accostamento involontariamente non indegno di Ionesco. D’accordo, prendere una macchina a rate non è il massimo; meglio, potendoselo permettere, saldare subito. Ma giustapporre i pagamenti rateali a Chelmno, Belzec, Treblinka e Sobibor, irrefutabilmente suona, dispiace rilevarlo, tra le note del demenziale e dell’osceno.

La poesia, invece, può dire tutto; anche Auschwitz. Per suffragare questa tesi, ricorriamo a un poeta contemporaneo, grande ed oscuro, e tuttavia, nel minimo specimen trascelto, chiarissimo: Alessandro Ceni. Così recitano due versi di una sua potente poesia:

E gli alacri fornai di Auschwitz

bianchi sui cadaveri dopo la notte insonne.

Versi perspicuamente esemplificanti il concetto di esattezza poetica, ossia di verità, prima enucleato. Perché questo i nazisti erano: fornai. Ancorché non pane producessero ma morte. Morte senza segreto, pornografica, spogliata dell’intimità del morire. Morte come anonimo e brutale annientamento. Non quella cantata da Rilke:

O Signore concedi a ciascuno la sua morte:

frutto di quella vita

in cui trovò amore, senso e pena.

Dunque, le tredici soprascritte parole di Ceni dicono l’indicibile; evocando Michelstaedter, stornano dalla rettorica e persuadono alla verità. Che poi, ad affaccendarsi «bianchi sui cadaveri», nelle camere a gas da sbrattare e presso i forni, non fossero tanto i nazisti quanto i sonderkommandos, perlopiù ebrei, i «corvi neri del crematorio» (secondo la definizione di Primo Levi ne I sommersi e i salvati; laddove il nero percepito dallo scrittore e il bianco visto dal poeta riescono alla stregua di realizzazioni cromatiche opposte e purtuttavia entrambe affatto pregnanti del medesimo abominio), non inficia la terribile giustezza dei versi di Ceni; ché una cosa è la verità storica, una cosa la verità poetica.

Sia dato dunque alla canzone quel che è della canzone e alla poesia quel che è della poesia. Naturalmente intendendo, per canzone, quella d’autore, ché all’altra occorre non sia dato nulla, e per poesia quella vera, quella rara; quella invocata da Rèbora in un suo catartico, alto ed elevante, metapoetico inno, di cui, per concludere, riportiamo alcuni lacerti, e che è non soltanto tra i suoi più stupendi Frammenti lirici ma tra le più memorabili poesie del nostro novecento tutto:

O poesia, nel lucido vero […]

O poesia nel verso inviolabile […]

O poesia di sterco e di fiori,

Terror della vita, presenza di Dio,

O morta e rinata

cittadina del mondo catenata!      

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