Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Ogni storia della letteratura che si rispetti abbonda di scrittori e poeti “non canonizzati”, quindi esclusi dal novero dei “classici”. È un processo necessario e inevitabile, quello della scelta, che fa sì che per ogni canone proposto sorga una quantità indefinita di anti-canoni. Se il canone tende sempre a privilegiare gli autori “in luce”, quelli di fama certa e – apparentemente – incrollabile, l’anti-canone, per antitesi, predilige gli scrittori “in ombra”, quelli fuori dai riflettori, e cerca di operarne una rivalutazione. Proprio in virtù dell’incontro/scontro tra canone e anticanone, lo spettro della ricerca e il punto di vista si allargano e si raffinano, così che difficilmente gli autori più rilevanti di un certo periodo riescono a sfuggire all’occhio clinico degli studiosi. Difficile, certo, ma non impossibile, a quanto pare. Si prenda ad esempio lo strano caso di Agostino John Sinadino. Questo nome è semisconosciuto non solo al lettore medio, ma anche a una certa fetta di “addetti ai lavori”. D’altronde, questo non deve stupire: sotto molti punti di vista, infatti, Sinadino è poco più di un fantasma. Poche sono le informazioni pervenuteci su di lui, poche le opere da poter analizzare. Per questo, nella narrazione della sua biografia, mi baserò principalmente su quanto scritto da Margherita Orsino-Alcacer in La destinée singulière d’un poète oublié, saggio contenuto in A.J. Sinadino, Cahiers inédits (1945-1953), Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2006.

Nato il 15 febbraio del 1876 al Cairo, Agostino è figlio di un importante banchiere greco, Ioannis Constantin Sinadino[1], e dell’italiana Carolina Casati. La famiglia Sinadino era molto importante e aveva contatti molto stretti con la famiglia reale egiziana, per la quale Ioannis curava  degli interessi in Italia e in Egitto. Agostino vive, quindi, la sua giovinezza tra questi due paesi. Quando, nel 1890, il padre Ioannis muore, la famiglia si trasferisce stabilmente a Milano, luogo d’origine della madre. È da questa data che, in onore del padre, Agostino si aggiunge il secondo nome “John”, prediligendo la lingua inglese, forse, per darsi un tocco di cosmopolitismo. D’altronde, la formazione di Sinadino andava proprio in quella direzione: abituato sin da piccolo a viaggiare, impara, oltre all’italiano e al greco – lingue rispettivamente materna e paterna – il francese – lingua degli ambienti culturali di Alessandria d’Egitto, dove affronta i suoi studi – e l’inglese – lingua molto di moda, a quel tempo.

Anche se la famiglia si stabilizza, Agostino continua la sua vita nomade. Nel 1895 è di nuovo ad Alessandria, dove entra a far parte della “Società artistica d’Egitto”. Tre anni più tardi, sempre ad Alessandria pubblica la sua prima raccolta di poesie, ovvero Le presenze invisibili, che, secondo Orsino-Alcacer, raccoglie versi di chiara ispirazione simbolista, con influenze dai vari Verlaine, Jammes, Maeterlinck, Rodenbach. A testimoniare la sua irrequietezza, Sinadino nel 1900 pubblica il suo secondo libro, La donna dagli specchi, a Milano, ed il terzo, Melodie, a Lugano. Sempre a Lugano, nel 1901, vede la luce quello che dai suoi pochi critici è considerato il suo capolavoro: La festa. Se le prime sillogi erano molto legate allo stile e alla temperie culturale simbolista, con La festa Sinadino entra nel campo della sperimentazione, non solo del verso libero, ma anche della forma editoriale, con parole di diversa grandezza e carattere, nonché di diverso colore. Queste sperimentazioni, che senza dubbio seguono la scia dell’ultimo Mallarmé, sembrano anticipare di qualche anno gli esperimenti del futurismo e degli avanguardisti francesi. Sinadino si pone subito come un irregolare, quindi i suoi estimatori non possono che essere della stessa pasta. Uno dei primi a notarlo e a scrivere di lui è Gian Pietro Lucini, che ne esprime apprezzamenti in quale epistola. Nel 1906, il poeta italo-greco fa la conoscenza anche di Marinetti, che pubblica qualche suo verso nella rivista Poesia. Nei fascicoli 09/10/11/12, afferenti al periodo che va da ottobre 1906 a gennaio 1907, è presente La morte di Parsifal, di cui si riporta l’inizio:

È lamentazione
Alle fronde: – il Folle
Puro è morto. –
In Monte di Salvazione
– solo – .
Egli è morto nel sacro recinto
Della Foresta e nel succèdere
De’ fili d’erba: poca musica, divino
Incantesimo.
Solo, ma la Donna la Rosa
Cadùca dai petali neri
Con lui.
Moriente, redimeva gli uccelli
Le piante le
Pietre le tremate
Vite che salgono, tremano
Salendo nella luce di Dolore.

Nel pezzo riportato si ritrovano molti tratti tipici del tardo simbolismo francese: anzitutto, il tema mitologico-wagneriano della lirica, poi alcuni tratti stilistici come l’uso di maiuscole enfatiche («Folle», «Donna», «Rosa», «Dolore») e di numerosi enjambement, talvolta anche estremi («Le piante le / Pietre le tremate / Vite che salgono»). Si conti, poi, un anisosillabismo che spinge con forza in direzione del verso libero.

Negli anni successivi, pare che Sinadino sia impegnato a coltivare le sue conoscenze culturali in Italia. Si segnala, in questo senso, un tentativo di avvicinamento a Giuseppe Prezzolini, che però sembra non andare oltre lo scambio di qualche opera. Poi, d’improvviso, nel 1906, decide di partire per gli Stati Uniti, destinazione New York. Qui fonda una banca per l’investimento di capitali italo-americani in Italia. L’operazione, però, non ha il successo sperato: Sinadino rimane vittima di un truffatore e, invece di interessarsi all’andamento degli affari, si concentra sulle traduzioni di Wilde – in particolare della Salomé – di Poe e di Walt Whitman.  Quattro anni dopo torna in Egitto, dove collabora a quotidiani locali e frequenta circoli letterari. Nel 1910 ricomincia a spostarsi frequentemente tra Alessandria e Milano. Pubblica la sua quinta opera, Il dio dell’attimo. Primo quaderno. Stringe amicizia con André Gide e, negli anni successivi, comincia un graduale distaccamento dagli ambienti italiani, avvicinandosi a quelli francesi. Rimane assolutamente estraneo, quindi, sia alla contesa tra neutralisti e interventisti alla vigilia della Grande Guerra, sia alle vicende politiche del dopoguerra e all’avvento del fascismo. Secondo Orsino-Alcacer, sarebbe da attribuire proprio a questa distacco verso i dibattiti politici buona parte della sfortuna critico-editoriale del poeta italo greco. Su questo, però torneremo più avanti.

Insediatosi a Parigi, oltre a Gide, Sinadino fa la conoscenza di Paul Claudel e Paul Valery, che scrive pure una lettera introduttiva al suo successivo lavoro: Il dio dell’attimo del 1924 (edizione accresciuta rispetto a quella del 1910). Nel 1929, si decide pure a pubblicare, a Parigi, le sue poesie in lingua francese, scritte tra il 1902 e il 1925. In queste liriche si vede la trasformazione dello stile di Sinadino: dal simbolismo, il poeta si avvicina sempre di più verso le suggestioni orfiche, tanto da sfiorare l’ermetismo. Proprio in quest’ultima temperie sembra crescere il suo ultimo lavoro edito, ovvero Vitae subliminalis Aenigmata. Idillio d’Hyla del 1934, che, con a caso, contiene una dedica pure a Giuseppe Ungaretti – anche su questo punto, però, torneremo più tardi.

Gli anni Trenta sono l’inizio della crisi di Sinadino. Anzitutto, finanziaria; il poeta, infatti, anche dopo il fallimento della banca statunitense aveva continuato impunemente a dilapidare il patrimonio di famiglia, nonostante fosse cospicuo, portando avanti uno stile di vita da vero e proprio dandy. A questo, poi, si aggiungono i drammi familiari: nello stesso anno (1930) Sinadino perde la madre e il fratello Alessandro. A causa dell’indigenza finanziaria e dei lutti, è costretto a rientrare a Milano, dove rimane fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto, il regime lo imprigiona in un campo di lavoro a Bari, non tanto per dissidenza politica, quanto per le sue origini greche. Finita la guerra, Sinadino se ne torna a nord, dove vive i suoi ultimi anni in povertà e solitudine. Alla sua morte, nel 1956, i suoi parenti rifiutano di pagare le sue spese di sepoltura, così i suoi resti mortali vengono sepolti nella tomba del padre, senza alcun nome e alcuna data a commemorarlo.

Ora, sia il percorso biografico che quello bibliografico fanno ben comprendere la figura di Sinadino: esempio emblematico di flâneur, poeta simbolista che racchiude nei suoi versi la prova più eclatante del fervore sperimentale di inizio Novecento. Una figura, in sostanza, capace di aggiungere un tassello importante agli studi letterari sul periodo, non solo sulle avanguardie, ma anche sull’evoluzione della poesia simbolista in senso orfico e successivamente ermetico. Ma allora, come mai il nome di Sinadino è così avvolto nell’oblio? Le cause sembrano essere molteplici. Anzitutto, la stampa delle sue opere: tutti i lavori da lui pubblicati, infatti, hanno una tiratura limitatissima, spesso attorno alle cento copie. Un numero così basso di volumi, sparsi tra l’Italia, l’Egitto e la Francia non hanno certo favorito la fama dell’autore. A questo, ci si aggiunga anche la quasi totale assenza di ristampe – l’unica riguarda La festa, riedita in anastatica dalla Società Editrice Fiorentina nel 2006, ma non più disponibile. Tutto questo ha fatto sì che, nei decenni, il nome di Sinadino si perdesse nei meandri della storia della letteratura. Ma non basta questo, a spiegare il fenomeno. Certamente, Orsino-Alcacer ha delle ragioni ad indicare la totale assenza di impegno politico tra le cause della ghettizzazione del poeta. Si sa che in Italia la politica ha sempre un certo peso, soprattutto nelle questioni letterarie. Trovarsi davanti un poeta né neutralista né interventista, né fascista né antifascista deve aver disorientato tanto i posteri, quanto i contemporanei: su quale base, quindi, giudicare i suoi versi? Anche questo discorso, però, può avere validità fino a un certo punto. Oltre alle reticenze critiche, infatti, si devono considerare anche le omissioni di altri poeti. Non ci riferiamo, ovviamente, a D’Annunzio, che non rispose mai alle lettere che il poeta italo-greco gli inviò (il Vate non era certo nuovo a queste cose, visto l’ ampia quantità di posta che riceveva ogni giorno), quanto a Giuseppe Ungaretti, a cui pure andò la dedica dell’ultimo libro di versi di Sinadino.

Nel leggere la biografia di Sinadino, è impossibile che la mente non vada istintivamente a Ungaretti: la sensibilità poetica, i luoghi visitati, le frequentazioni, la formazione dei due sono troppo simili per poter pensare che non si conoscessero. Eppure, Ungaretti mai nomina, in uno dei suoi scritti, Sinadino. Pure la dedica contenuta in Vitae subliminalis cade nel vuoto. Per capire i motivi di questa reticenza, non ci si può appellare al discorso delle tirature – dato che almeno la silloge con la dedica è lecito pensare che l’abbia ricevuta –  e anche la questione politica non sembra convincente. Si potrebbe pensare, come ultimo argomento, a un non apprezzamento da parte di Ungaretti dei versi del poeta. Eppure, secondo Mladen Machiedo, nella pagina ungarettiana è presente qualche possibile “prestito” dai versi di Sinadino. Per arrivare a una spiegazione esaustiva sarebbe necessario, probabilmente, uno studio organico dell’opera, a oggi materialmente impossibile.

Così, Sinadino si aggira nella storia del primo Novecento come un ectoplasma, allo stesso tempo presente e assente. Dandy raffinato e cosmopolita, lirico apprezzato nelle nicchie più ombrose d’Italia e di Francia. Recuperare la sua opera non deve essere solo una questione di studio, ma anche una missione: restituire la memoria di un poeta a cui non hanno usato neanche la cortesia di scrivere il nome sulla lapide.

 

[1] Al suo debutto letterario, il poeta si firmava come «Agostino John Sinadinò» e così è rimasto conosciuto fino alla fine degli anni Settanta, quando è stato accertato che il cognome della famiglia era, in verità, «Sinadino». Forse, lo stesso autore si era “ossitonato” il cognome in ossequio a un certo gusto francese.

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