Sarah Dierna (1997) è attualmente dottoranda di ricerca in Scienze dell'Interpretazione - XL Ciclo, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Scrive su varie riviste scientifiche - «Discipline Filosofiche»; «Vita pensata»; «il Pequod»; «Gente di Fotografia»; «Dialoghi Mediterranei».
Recensione a: E. Cioran, Il crepuscolo dei pensieri (Amurgul gândurilor), trad. it. di C. Fantechi, Adelphi, Milano 2024, pp. 238, € 20,00.
La capacità di scrittura di Emil Cioran è impressionante e lo ha accompagnato per tutta la vita. Prima nella lingua romena d’origine poi in quella francese acquisita successivamente, la vasta produzione dell’apolide metafisico è probabilmente il sintomo di un’attività – quella di scrivere appunto – che gli consentì «di fare luce e di istradar[s]i nel cammino verso le altre idee: dolore, redenzione e salvezza»[1]. Il crepuscolo dei pensieri appartiene alla raccolta dei testi pensati ed elaborati in romeno, pubblicato nel 1940 quando Cioran si era ormai stabilito in Francia decidendo, di lì a poco, di restarci.
Volendo adottare il criterio cioraniano di demarcazione della filosofia, questo libro è certamente non-filosofico consistendo la non-filosofia in un esercizio di pensiero in cui «le idee soffocano di sentimento» (154). Cioran si accosta a un tema universale, l’angoscia della vita, ma lo fa in modo come sempre troppo ravvicinato, coinvolto e partecipato. L’autore è avvolto dalla melanconia di cui parla in molti degli aforismi qui raccolti i quali appaiono infatti del tutto riconoscibili e inebriati da una tonalità psicologica di osservare al mondo. D’altra parte, coerentemente con il suo stile, il pensatore considera mediocre una filosofia fredda e distante che riflette «solo a bassa temperatura. Quando si controlla la propria febbre, si ordinano i pensieri come fossero marionette; si tirano le idee con il filo e il pubblico non si sottrae all’illusione» (24).
Cioran appartiene a quella tradizione filosofica che ha stabilito un connubio forte e insolubile tra il dolore e la conoscenza e rispetto alle quale il velo mayco dell’illusione si offre come una dimora tiepida e protettiva. Anche Friedrich Nietzsche, senza il quale non è possibile pensare la filosofia dell’apolide metafisico, ha concettualizzato lo stesso binomio di co-occorrenza che destabilizza l’umana vitalità rallentandone la spinta istintiva e vitalistica appunto ma ha reso tale legame salvifico e, è il caso di dire, nutriente per l’esistenza stessa. Mentre Nietzsche si allontana dalla torpedine nichilistica facendo della conoscenza uno strumento affermativo dell’esistere stesso – capace ancora di sperare in un’autentica gioia –, Cioran ribadisce anche in questo scritto l’aspetto scettico che è basale al suo tentativo di comprendere il mondo. La conoscenza rimane soltanto ciò che l’essere umano si pente di avere raggiunto, acquisito e posseduto dal momento che «niente di quel che sappiamo resta inespiato. Paghiamo a caro prezzo, presto o tardi, ogni paradosso, ogni atto di coraggio del pensiero, ogni indiscrezione dello spirito. Vi è uno strano fascino nel castigo che segue ogni progresso della conoscenza. Hai strappato un velo che occultava l’inconsapevolezza della natura? Lo espierai con una tristezza di cui non sospetterai l’origine» (28). Il sapere dunque, nella prospettiva di Cioran, non riconduce l’uomo nel mondo, bensì ve lo sottrae rendendogli il reale alieno, un richiamo di apparenze che nell’oscurità perde la sua consistenza e mostra invece la sua Nullità. Il mondo come appendice del Nulla e la storia come il movimento di ritorno a questo Nulla.
Per capire il substrato nullificante dell’essere, gli strumenti di cui la filosofia di Cioran si serve sono principalmente due: la tristezza e la noia. La tristezza è il magma dal quale soltanto l’umano accede all’essenza della sua natura poiché in questo sentire egli si ritrova nudo dinnanzi al mondo, spogliato dell’illusione con cui agghinda di consueto il suo modo d’essere affinché l’esperienza nel mondo sia vivificante; la noia è il vuoto dell’io che incontra il vuoto del mondo. In questo stato di vacuità «sappiamo che l’esistenza non era destinata a essere; nelle sue intermittenze, ci dimentichiamo di tutto e siamo» (187). È uno stato di disperazione come lo era per Leopardi o per Schopenhauer ma a differenza di costoro e in accordo con Nietzsche la noia è come una gestazione che prepara a portare alla luce la verità del niente, la futilità dell’essere, l’infausto destino.
Alla tristezza e alla noia si aggiungono, a un livello più basso e intuitivo, la malinconia e il rimorso. Mentre queste ultime sono sensazioni per così dire immediate che danno l’impressione della voragine ma non la meditazione su di essa, la tristezza e la noia invece creano le condizioni affinché l’umano si veda vivere e possa scorgere nella sua esistenza un errore, una breve parentesi del niente, una caduta nel tempo in cui la vita accade ed è. La conoscenza alla quale si approda è una conoscenza negativa. Si potrebbe dire che a essa si giunge per sottrazione poiché il suo contenuto non rivela niente sull’essere della vita ma sul non-essere di cui la vita è un inconveniente.
Cioran insiste più volte sul carattere del tutto evidente del mondo che mostra in modo chiaro, lineare e geometrico il dolore della materia. In esso non trova quindi posto l’ottimismo il quale non conserva nessuna coerenza con il tempo della vita. Piuttosto «nello sputo, nell’immondizia, nella mela anonima delle stradine giace una sorgente più pura e infinitamente più feconda che nella comunione benigna e razionale con la vita» (30). In questi elementi l’umanità vi si specchia e in essi soltanto può sperare di imparare qualcosa su se stessa in modo autentico e non ingannevole.
L’altro riflesso dal quale è dato imparare è il volto ‘stropicciato’ dal tempo della vecchiaia. Nella filosofia di Emil Cioran la temporalità non è una categoria del senso interno come lo fu per Spinoza o per Kant e non è nemmeno un affectio indifferente che caratterizza la materia cosmica. Esso è piuttosto la forma cosmica del Male: «Il Male, abbandonando l’indifferenza originaria, ha preso come pseudonimo il Tempo» (22). La temporalità, che come ricorda il titolo di un altro libro costituisce il luogo della caduta, non è altro che la contrazione del Male nella forma individuata dell’esserci che ha tuttavia come «scopo metafisico […] di sgravarci del fardello dell’individuazione. Essere è un’impresa tanto ardua perché saliamo al fine di non essere: un vuoto che si slancia verso una suprema degradazione dell’esistenza. Il tempo è una ascesa verso il non-essere» (194). C’è dunque un progresso anche nello storicismo di Cioran, benché esso si riduca alla riappropriazione del niente.
Il carattere negativo della temporalità dipende dal carattere negativo dell’essere che, in termini plotiniani, si potrebbe pensare come un’emanazione del non-essere. I segni del tempo sono gli spazi in cui si incunea il male di vivere. Le curve geometriche dalle quali si può osservare l’abisso doloroso dell’esistere.
Nella metafisica di Cioran il tempo è l’altro nome dell’individuazione. Alla sostanza individuata è inscindibilmente legata la malattia soggettiva della melanconia che non è il malanno organico, definito e circoscritto a una parte del corpo ma lo stato di malessere che l’io prova nel mondo e dal quale non può guarire in altro modo se non perdendo se stesso. Nella religione di Cioran la conoscenza e il suicidio diventano due fenomeni religiosi. Il carattere religioso del suicidio deriva dal fatto che esso si presenta come una espressione di salvezza; la conoscenza per il pentimento che piega coloro i quali vi prendono parte. Si vede tutta l’essenza nichilistica del pensatore romeno che risponde all’inconveniente della vita non con il sì nietzscheano ma con un no che aliena dal mondo per scivolare nel fondo senza requie della propria esistenza, là dove sorge il pensiero della morte liberato dal timore che più di frequente la accompagna. Il morire assume un significato diverso verso il quale si tende con tranquillità nella prospettiva di un eterno riposo.
Il tempo segna dunque uno strappo rispetto al nulla atemporale e la conoscenza è la visione di questo strappo e delle sue conseguenze. «Gli individui sono organi del dolore» (59) non per la loro tristezza intrinseca ma per la loro disposizione a meditare su tale dolore e sull’essenza più generale della loro breve esistenza. Nel recuperare con lucidità se stesso l’umano perde l’attrito con l’essere, si allontana dall’Assoluto e scivola più facilmente verso quel niente dove più niente diviene. I suoi istinti scemano e la dimensione biologica e vitalistica dell’esistere perde spinta, sfiorisce: «I pensieri sorgono dall’anacoresi degli istinti, e lo Spirito rende vedove le potenze della vita. Così l’uomo diviene forte – ma senza le risorse della vitalità. Il fenomeno umano è la più grande crisi della biologia» (227). L’esperienza vitale osservata nella sua evidenza e senza l’inganno demiurgico suscita ciò che Cioran definisce una nobile tristezza, la quale permette finalmente di vedere nella generazione un fenomeno spontaneo che mai si potrebbe spiegare come alcuni possano volere e desiderare in modo consapevole. Si tratta di un meccanismo inconsapevole che ha come fine il non-essere. L’autore individua infatti una voluttà segreta, un sottile paradiso che sta dietro l’evento del nascere e che è appunto quel nulla perduto e da riconquistare: «L’autodistruzione sia alla base della fecondità» (88).
Rispetto agli scritti francesi, almeno ad alcuni di essi, Cioran richiama qui ad alcuni temi che altrove sono soltanto accennati. Fra questi i temi dell’amore e della musica i quali operano nelle nostre vite per riempire il vuoto e fornendo una pienezza soltanto apparente, illusoria ma necessaria per riuscire a portarsi addosso il peso della propria disperata condizione.
La scrittura di Cioran è certamente coraggiosa e nient’affatto timida, titubante o pacata nell’esprimere con verità ciò che giace al fondo dell’esistenza. Il crepuscolo dei pensieri non viene meno a questa dose di coraggio e di sincerità mediante i quali soltanto è possibile tentare di comprendere il mondo. Non si adatta però alle basse temperature in cui consiste ogni fare filosofico che sia riuscito a guardare la Gorgone senza pietrificarsi. La metafisica di Cioran sembra piuttosto incastrata dalla sua stessa verità, quasi incapace di liberarsi e in grado di liberarsi soltanto forma breve e fulminante dell’aforisma.
[1] E. Palma, De Scriptura. Dolore e salvezza in Proust, Mimesis, Milano-Udine 2024, p. 14.