Sarah Dierna (1997) è studentessa del Corso Magistrale in Scienze Filosofiche dell'Università di Catania, dopo essersi laureata in Filosofia con una tesi dedicata all'eutanasia. Scrive su varie riviste scientifiche - «Discipline Filosofiche»; «Vita pensata»; «il Pequod»; «Gente di Fotografia»; «Dialoghi Mediterranei» - e sta preparando una tesi sull'antinatalismo di David Benatar.

Recensione a: E. Mazzarella, Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Carocci, Roma 2022, pp. 212, € 22,00.

Per vivere l’essere umano ha bisogno della storia ma anche dell’oblio, della verità ma anche della dimenticanza, dell’apollineo ma anche del dionisiaco. Questi ‘esistenziali’ accompagnano la vita, vale a dire «il tema di fondo, l’orientamento direttivo del “contesto”, del “sistema” Nietzsche» (p. 20).

Nel suo Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Eugenio Mazzarella riprende con Nietzsche questi elementi per porsi contro Nietzsche, e cioè mettendo in risalto come l’itinerario del pensatore di Röcken muoverebbe da un’ontologia della vita come universale a un’ontologia della vita come finita e individuata per arretrare poi di nuovo verso un’ontologia/metafisica della volontà.

A questi tre diversi momenti corrisponde anche l’articolazione del libro, il cui risultato è un percorso non didattico bensì teoretico dentro le opere del filosofo inattuale. L’Autore lascia parlare Nietzsche tutte le volte che è necessario, fa dialogare i suoi testi tutte le volte che è necessario e indica al lettore come lo studio di questo pensatore sia molto più complesso, articolato e nascosto di quanto possa sembrare.

L’esistenza è essenzialmente storica. Il modo di essere dell’esserci è fatto di memoria, di ricordo, di storia appunto, elementi questi che per una somatica del tempo non collocano l’organismo biologico nel passato ma nel futuro. Infatti è soltanto la rimemorazione di ciò che è appena stato che rende possibile l’apertura verso ciò che sarà; che, come specie, ci consente di sopravvivere; che evita il dispendioso sforzo cognitivo che sarebbe altrimenti necessario.

La storia si pone insomma al servizio della vita. Affinché tale servizio sia tuttavia funzionale e non disfunzionale, fisiologico e non patologico, trofico e non ipertrofico, occorre che alla storia si accompagni l’oblio, che all’elemento storico si affianchi un elemento non-storico.

Da un punto di vista “storico” come consapevolezza del sé di essere inserito in un divenire temporale e di dipenderne fin nelle sue più intime fibre, quest’oblio […] salvaguarda la determinazione vitale, l’impulso a vivere in ogni vivente, dall’inibizione a vivere che può prodursi in quel vivente che vive storicamente […]. È questa atmosfera non storica che valorizza l’agire, […] è necessaria alla vita, a quel suo modo che è la vita storica dell’uomo, la sua essenza accertata nella sua fenomenologia (p. 35).

Durante il cosiddetto periodo illuministico, ma con i suoi prodromi già nella stagione metafisica della Tragedia «sotto l’egida di Apollo» (p. 24), Nietzsche elabora dunque una teoria della storicità. Tale teoria ‘detta’ le condizioni (storiche) di possibilità dell’esistenza stessa distinguendo i caratteri di utilità e di danno delle dimensioni storiografiche della coscienza storica; ribadisce come l’elaborazione di ciò che chiamiamo ‘verità’ sia sempre prospettica, illusoria e tuttavia necessaria. L’esito di questa densa analisi è construens ma anche destruens, benché da queste ‘macerie’ dell’io si edificherà una nuova identità, stavolta all’insegna della volontà.

In senso ‘costruttivo’ diremo che l’esserci ne esce fondato come animal interpretans poiché se la sua ontologia è essenzialmente storica, la sua gnoseologia diventa fecondamente prospettica: «Questo essenziale far leva della dottrina prospettica nietzscheana dell’interpretazione sulla determinatezza, sulla finitezza costitutiva dell’interpretante e dell’interpretazione, perché è proprio in questo punto, che coinvolge insieme la teoria della storicità e l’ontologia della vita di Nietzsche» (p. 56).

Siamo dispositivi semantici perché abbiamo bisogno di dare un senso e un significato al mondo che abitiamo, «l’impulso alla “verità” sorge primieramente in questo quadro determinato al “successo vitale” dell’individuo dotato di questa “funzione”» (p. 45); in esso «“vero” e “falso” sono designazioni di enunciati sulla base della loro rispondenza all’interesse vitale dell’organismo sociale, di quell’individualità meta-individuale che è ogni società; la loro connotazione “morale” è una sustruzione derivata» (p. 46).

Ma se così è, se cioè il valore di verità di un predicato dipende dall’interesse vitale dell’organismo sociale, e se l’organismo sociale è per sua natura storico, allora anche ciò che si considera interesse vitale sarà costitutivamente storico, temporale, finito, soggetto alla morsa del cambiamento, determinazioni che poco si confanno alla nozione di verità il cui statuto si considera di solito assoluto, oggettivo e condiviso dalle comunità quale che sia il loro tempo. Ma assoluta, oggettiva e condivisa si può pensare la verità di qualcosa solo perché accanto alla memoria, come si è detto, esiste l’oblio che permette all’essere umano di approdare prima sensibilmente alla conoscenza di qualcosa e di saltare poi al grado più elevato (concettuale) e stabile. La verità non è che un punto di vista, un’interpretazione sul mondo soggetta, dunque, al tempo e alla dimenticanza.

Questo vale non soltanto dal punto di vista gnoseologico perché il fondamento di tutto resta sempre l’ontologia della vita (individuata). Dire questo però, equivarrà a stabilire la dissoluzione «non solo [del]la “sostanzialità” delle cose, ma [del]la stessa “sostanzialità” dell’io [che] si dissolve sotto i ferri del prospettivismo; anzi, la prima vera “finzione” è proprio l’“io”, la “realtà interiore”» (p. 76).

Da qui, la pars (provvisoriamente) destruens del discorso nietzscheano che prepara con Zarathustra alla Kehre, all’esodo della volontà di potenza secondo l’analisi condotta da Mazzarella. Proprio perché la Kehre consiste in «un cammino del pensiero che si sostanzia di trasformazioni che nulla negano e invece sempre più confermano l’inizio»[1], e dal momento che questo inizio è ancora quello di un’ontologia della vita che per procedere ha bisogno di un sé a cui fare riferimento, ne segue allora la necessità – per garantire ancora una fisiologia del vivente – di rifondare questa identità dell’io.

Questa nuova identità non poggia stavolta sull’intelletto, bensì sulla volontà che, a differenza della prima, sarà capace di cogliere il mondo non come fenomeno rispetto a una X che resta pur sempre ignota – allontanandosi in questo modo dall’educatore Schopenhauer e dunque dal trascendentalismo kantiano – bensì in se stesso. In questo modo: «proprio il prospettivismo che aveva dissolto il “metafisico intelletto superlativo” […] come volere incondizionato, assoluto, ripropone alla fine della sua corsa una volontà incondizionata, assoluta, come superamento del nichilismo» (p. 89).

Il vivente, che è interpretazione e come tale è volontà a nient’altro ancorata o ancorabile che a sé, può assicurarsi di sé solo coincidendo con la totalità dell’essere, cioè della vita; ma per fare questo la vita, la volontà, l’interpretazione, non possono più essere una sezione, indefinita nella sua dinamica, ma finita, nel mare del divenire, bensì devono coincidere con il divenire stesso, con il proprio orizzonte non come limite sincronico-diacronico della propria esplicazione, ma come totalità del divenire (p. 90).

Questa totalità include non soltanto ciò che è e ciò che ha da essere, ma anche ciò che è stato in quello che Mazzarella definisce un ‘eccesso anamnestico’ dell’io nella sua coestensività rispetto al divenire che nullificando «ogni eteronomia tra tempo e volontà, meglio, tra temporalità della volontà, dell’“io che crea, vuole e valuta” e temporalità come “tempo” del divenire» (p. 114) nullificherebbe anche il trofismo tra storia e vita dell’Inattuale. Superando inoltre il nichilismo della fase illuministica la volontà autosupera anche la propria finitudine poiché diventa adesso capace di abbracciare il tempo dell’avvenire essente-stato-presentante. «Quest’anamnesi è nel senso di una penetrazione conoscitiva che pone l’essenza, di una volontà che conseguendo la ratio cognoscendi del divenire Sé ne consegue altresì la ratio essendi» (pp. 138-139).

Il Nietzsche di Mazzarella così facendo retrocederebbe alla stagione giovanile di una metafisica dell’ontologia universale che risolve in modo nuovo alcune delle sue iniziali considerazioni. Una svolta che dunque rimane sul perimetro del proprio stesso pensare e il cui ritorno è un arretramento ma può essere anche un ritorno a un livello teoretico più profondo, maturo e consapevole. Un ritorno, quello del Nietzsche della stagione zarathustriana, in cui l’identità del Sé, autoidentificando sé stesso e identificando il mondo, si «identica con il tempo» in una «protensione coestensiva alla sua totalità» (p. 112) ritrova, sì, la propria identità ma appunto nel tutto e come parte del tutto.

NOTE

[1] A.G. Biuso – E. Moncado, Metafisica del Dasein in Eugenio Mazzarella e Martin Heidegger, in «Vita pensata», n. 26, gennaio 2022, p. 20.

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