Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Verso il centenario dantesco. Da Cavalcanti ad Ulisse

(Prima parte)

La produzione poetica di Guido Cavalcanti è come un diamante purissimo, incastonato nella storia della letteratura europea. Tutti i componimenti a noi pervenuti sono talmente curati ed eleganti da portare la lingua volgare al suo massimo grado di nobiltà e di espressione. Sebbene Cavalcanti sia, anche a parere dei più illustri critici, uno dei più grandi poeti della nostra tradizione, egli non gode di una fama commisurata al suo valore. Il suo nome ha il vizio di perdersi nel noioso elenco scolastico dei poeti stilnovisti, tra i quali spunta solo per la sua controversa amicizia con Dante.

Questo stato di cose è dovuto a due fattori. Il primo è la complessità stilistica e contenutistica della sua produzione. Pertanto le poesie di Cavalcanti sono difficili, secondo una non condivisibile prassi della critica. Si preferisce “chiuderlo” nelle università, piuttosto che promuoverne la conoscenza. Il secondo, e più interessante, fattore è la pesante damnatio memoriae che proprio Dante gli inflisse. Le motivazioni che spinsero l’autore della Commedia ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti del suo “primo amico” sono molto complesse e meritano un’analisi particolare.

L’incontro con Cavalcanti ha, per la formazione di Dante, un’importanza dirimente. Quando, da giovane, vi entra in contatto, Cavalcanti è già un poeta di fama conclamata, con una folta schiera di ammiratori ed una, ancor più folta, di detrattori. La sua appartenenza a una delle famiglie più ricche ed importanti di Firenze gli ha reso possibile dedicarsi allo studio. Frequenta assiduamente l’Università di Bologna, dove entra in contatto con le ricerche più avanzate del tempo sulla filosofia naturale. Siamo alla fine del XIII secolo e, grazie alle traduzioni dall’arabo, le conoscenze europee si sono arricchite di nuovi testi di Aristotele, precedentemente sconosciuti. Fino a quel momento, infatti, le uniche opere del filosofo greco conosciute dagli studiosi erano quelle poche tradotte in latino da Boezio (componenti la cosiddetta logica vetus).

La circolazione di queste opere apre una nuova stagione della filosofia medievale, che ha come centro l’Università di Parigi e come personalità principali Sigieri di Brabante e Duns Scoto, noti oggi con l’appellativo di “aristotelici radicali”. Il loro lavoro ha un’influenza così ampia da arrivare anche al centro universitario di Bologna, dove viene assimilato da Cavalcanti. I principi della filosofia naturale si fanno sentire all’interno della produzione poetica: seguendone rigorosamente i dettami teorici, Cavalcanti compone i suoi versi con armonia e precisione lessicale.

Sono proprio queste caratteristiche ad attirare l’attenzione del giovane Dante, che vede in lui l’unico contemporaneo degno di potergli essere maestro. Il rapporto tra i due è complesso sin da subito: il carattere altero, schivo, la totale mancanza di diplomazia e di umiltà rendono Cavalcanti una personalità difficile da avvicinare; non è un caso, infatti, che conti un ampio numero di nemici personali. Nonostante ciò, tra i due si instaura un legame d’amicizia. Grazie alla guida del suo “primo amico”, Dante abbandona completamente i luoghi comuni letterari legati alla poesia siculo-toscana, assimila il lessico filosofico aristotelico e impara a farne uso nei versi. Ma quella con Cavalcanti non è una collaborazione destinata a durare; ben presto l’amicizia finisce, lasciando posto ad una aperta ostilità. A provocare l’allontanamento dei due poeti, però, non sono questioni di natura personale, bensì filosofica.

L’argomento principale della lirica di Cavalcanti, è l’amore; non si tratta, però, di una poesia sentimentale. Il tema dell’amore era, al tempo, particolarmente sentito dagli studiosi di filosofia, ma non solo: anche i medici, infatti, studiavano con interesse gli effetti che esso aveva sul corpo umano. Il punto della questione era il seguente: l’amore è una “sostanza”, ovvero una delle parti che, secondo il De anima di Aristotele, compongono l’anima immortale dell’uomo, quindi ad esso interna, oppure è un “accidente”, ovvero un fenomeno puramente fisico ed esterno all’uomo?

Cavalcanti, a tal riguardo, pare non avere alcun dubbio: più volte nelle sue liriche, infatti, nega che l’amore sia una sostanza. Esso è qualcosa di negativo, che disumanizza l’uomo, gli fa perdere il controllo di sé, lo rende un automa alla mercé degli altri. Come può, quindi, essere una delle sostanze che compongono l’anima? La totale fisicità dell’amore è ribadita esplicitamente nella canzone quasi programmatica Donna me prega, assoluto vertice della poesia cavalcantiana, che inizia così:

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente,- ch’è ssovente – fero
ed èsi altero, – ch’è chiamato Amore:
sì chi lo nega – possa ‘l ver sentire! (vv. 1-4)

Una donna (le donne erano considerate portatrici del segreto d’amore) prega il poeta di chiarire, una volta per tutte, la natura di “accidente” dell’amore. Quel che segue è una complessa trattazione scientifica, racchiusa in uno degli schemi metrici più elaborati di tutta la letteratura italiana. Il valore dottrinale della canzone è testimoniato dal fatto che il suo primo commentatore fu un medico, Dino del Garbo (Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus, scritto qualche decennio dopo la morte di Cavalcanti).

Il pensiero di Dante, invece, si sviluppa in tutt’altra direzione. Per l’autore della Commedia, la presa di posizione di Cavalcanti non è accettabile: certamente, alcuni tipi di amore portano solo malessere fisico, ma l’amore nobile, puro, che trova la sua massima espressione nel sentimento che lega Dio agli uomini, non può certo considerarsi un accidente. Un’affermazione del genere andrebbe a minare le fondamenta stesse della religione cattolica. Per questo, Dante già dal prosimetro della Vita nova opera un distacco dal suo maestro, parlando dell’amore come di un «accidente in substanzia», ovvero un elemento fisico che però può ambire a nobilitarsi, fino al punto di farsi sostanza.

Questa differenza di vedute si riverbera anche nello stile dei due autori: la visione di Cavalcanti tende ad un distacco dal mondo, all’introspezione e al negativo. Il suo è un universo chiuso e statico, che si sottrae ai contatti con l’esterno, poiché portatori di corruzione; è fatto di continui, quasi ossessivi, ritorni concettuali e lessicali, volti a creare una cristallizzazione dello stile. Questo è dovuto al pensiero che ciò che nobile non nasce, non può certo diventarlo. Questo vale tanto per l’amore, quanto per la poesia. Così come il primo non può aspirare a diventare sostanza, così nella seconda non è accettabile l’utilizzo di un lessico popolare e rozzo, di uno stile non illustre. La poesia è arte nobile, che deve rimanere accessibile a pochi. Niente di più diverso dalle convinzioni sviluppate da Dante: l’autore della Commedia, infatti, è totalmente proiettato verso l’esterno. Il suo universo poetico è aperto e mobile, tendente sempre di più verso il plurilinguismo.

In generale, non è escluso che ciò che nobile non è possa, nella giusta forma, innalzare la propria condizione. In questo pensiero trovano fondamento la ricerca del volgare illustre del De vulgari eloquentia e la trattazione del Convivio. Quello che ne risulta è una visione del mondo completamente agli antipodi, che provoca attriti decisi nel rapporto tra i due poeti. Non mancano pure velati attacchi personali tra i due: si prenda, ad esempio, la già citata Donna me prega, che sembra, nel suo incipit, fare proprio riferimento polemico alla famosa canzone di Dante Donne ch’avete intellecto d’amore. Addirittura, qualche critico, probabilmente esagerando, indica nella Commedia la risposta di Dante alla canzone cavalcantiana.

Il culmine delle ostilità si ha nel 1300, quando Dante, che al tempo rivestiva la carica di priore della città, vota a favore dell’esilio a Sarzana del suo vecchio amico. La proposta aveva motivazioni politiche, ma è emblematica di quanto i rapporti tra i due fossero irrimediabilmente deteriorati. Da Sarzana Cavalcanti non tornerà più. Muore lo stesso anno dell’esilio, a causa di una malattia contratta proprio in quei luoghi. Da quel momento Dante avrà sempre una certa reticenza a parlare del suo mentore. Nonostante questo, la sua presenza aleggerà all’interno della sua opera più imponente, come una sorta di fantasma.

(fine prima parte)

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