Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
C. Lottieri, Beni comuni, diritti individuali e ordine evolutivo
IBL Libri, Milano 2020, pp. 116, €16,00.

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L’esperienza delle antiche comunità di villaggio e delle relazioni residenziali contrattuali delinea due percorsi che possono essere in qualche modo convergenti (uno basato sulla tradizione e sulla storia, l’altro sulla libera scelta del patto), che non si escludono e che vanno entrambi valorizzati al fine di allargare gli spazi di autonomia della società e dei singoli (Carlo Lottieri).

Ne La politica Aristotele fa a breve distanza due considerazioni piuttosto divergenti: «Che gli uomini non abbiano niente in comune è manifestamente impossibile» e poco dopo si può leggere che «di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, nei limiti del loro personale interesse». Proprio da tali passi, posti in esergo al suo ultimo volume, Carlo Lottieri muove alcune riflessioni a favore dei beni comuni da una prospettiva amica della proprietà e della libertà individuale, da un lato, ma senza sottacere, al contempo, una possibile dimensione comunitaria della stessa. In Beni comuni, diritti individuali e ordine evolutivo (IBL Libri 2020, pp. 116, 16 €), infatti, il filosofo del diritto bresciano si premura di mostrare come, contrariamente alla vulgata dominante di impianto collettivistico (benicomunista), i commons possano essere concepiti come una naturale evoluzione dell’assetto proprietario.

Com’è noto, l’idea di proprietà, condizione imprescindibile di una società libera, non gode di buona fama. Del resto, si ricorderà come l’ispiratore della gran parte delle teorie antiliberali e avverse alla proprietà, ovvero Jean-Jacques Rousseau, vedesse in essa la matrice di tutti i mali: da ciò originerebbero le diseguaglianze che, a loro volta, incentivano le ricchezze di alcuni e la povertà di altri. Secondo un modo di pensare tipicamente anticapitalistico la ricchezza è una torta statica, che non può essere ingrandita, e gli scambi economici assumerebbero i tratti di giochi a somma zero, conducendo al lusso e all’ozio, dando vita, il primo, alle arti, e, il secondo, alle scienze. A distanza di qualche secolo ci troviamo ancora lì: l’idea di proprietà è in crisi in tutto l’Occidente, come scrive il cofondatore dell’Istituto Bruno Leoni.

Pur essendo caduto il Muro di Berlino, scrive Lottieri, la tradizione socialista ha visto nei beni comuni il nuovo totem da cui prendere le mosse per scardinare il fondamento della società aperta e rifondare una società antiliberale mediante «un incontro tra egualitarismo, socialismo, protezionismo, welfare, comunitarismo ed ecologia». Fondamentale è stato il lavoro del premio Nobel per l’economia, Elinor Ostrom, Governing the Commons (1990), al fine di mostrare come, in talune circostanze, i beni comuni siano la soluzione economicamente più vantaggiosa di possedere, ponendosi tra stato e mercato. L’Autore, tuttavia, si discosta da tale prospettiva vedendo i commons non come una negazione della proprietà, bensì come una delle sue possibili affermazioni. Infatti egli scrive che «una delle sfide fondamentali che impegneranno la teoria liberale negli anni a venire consisterà proprio nel saper delineare una visione più pluralistica della proprietà, capace di riconoscere la legittimità e l’efficacia dei diversi modi di possedere che possono emergere in virtù dell’interazione sociale». Rifacendosi al giurista americano Wesley Hohfeld, la proprietà di un bene può essere vista alla stregua di un bundle of sticks (fascio di bastoncini), distinguendo in tal modo diversi titoli sul medesimo bene: la proprietà, allora, può avere anche un carattere plurale e, in tal modo, può davvero esistere «un altro modo di possedere», per riprendere un’espressione di Carlo Cattaneo impiegata poi dal giurista Paolo Grossi.

Il fatto curioso è che questa particolare conformazione della proprietà, plurale e condivisa, è storicamente originata in modo spontaneo (si pensi alle varie forme emerse di “vicinie”) e non si configura come un’alternativa ad essa, ma è una sua particolare concretizzazione. Si tratta, certamente, di un più o meno impattante sconvolgimento nel modo di vedere la realtà. E sul punto Lottieri intravede anche il responsabile di un siffatto modo di pensare: statico, rigido, ossificato. Con l’avvento della modernità statuale, infatti, siamo indotti a ritenere, in primo luogo, che tutto sia riconducibile a una diade, stato-individuo, che non mette a fuoco tutta quella serie di associazioni, comunità, corpi intermedi da cui l’individuo trae parte della propria essenza. La differenziazione sociale è nemica dello stato, il quale si erge a padre-padrone della modernità politica, sociale e sovente economica: basti pensare alla mole oppressiva di tassazione e regolazione normativa, per non parlare dell’esproprio. Ma non è tutto. Infatti, essendo monopolista della violenza legittima e, in qualche modo, ritenendosi investito da una sorta di onniscienza, lo stato tende a plasmare una realtà basata sull’idea che le istituzioni sociali non siano altro che ordinamenti costruiti, deliberatamente pensati e così creati. Tuttavia ciò è ben lungi dall’essere plausibile, giacché come mostrato da Menger prima e da Hayek in seguito, la maggior parte delle istituzioni sociali sono di origine evoluzionistica, ivi compreso il diritto, come l’iniziatore della Scuola Austriaca asserì, riprendendo la lezione di Friedrich von Savigny.

Se le cose stanno così, dunque, l’Autore auspica una presa di coscienza del fatto che la proprietà e il diritto sono realtà non già basate su schemi precostituiti e irretiti dalla legislazione e dalla volontà del sovrano statuale, bensì come esse possano assumere forme cangianti, a seconda del contesto storico e della convenienza contingente. La proprietà non è «un semplice attributo legale, che il potere può istituire e dissolvere a suo piacere», come dopo la Rivoluzione francese si sarebbe indotti a credere, ricorda Lottieri. Si tratta, al contrario, di una realtà viva, attiva e dinamica, come lo è la società in cui può prosperare, basata sulla cooperazione sociale volontaria e il diritto “scoperto” dal basso, e non stabilito dall’alto.

«Non soltanto la proprietà è anteriore alla legge, ma essa può conoscere tutta una serie di declinazioni che il rigido interventismo dell’età moderna ha in larga misura dissolto», annota il filosofo del diritto. Ne sono manifestazione concreta le città private organizzate su basi contrattuale negli Stati Uniti, o anche solo quartieri privati che seguono la medesima logica di affrancamento dal potere coercitivo statuale (si veda su questo La città volontaria, a cura di D.T. Beito, P. Gordon, A. Tabarrok,, Facco-Rubbettino 2010). I beni comuni, quindi, potrebbero costituire una fondamentale leva per affrancare gli individui e la società dalla logica statuale coercitiva, opponendo una strenua, solida e pluralistica resistenza al potere politico, dando fiato a logiche responsabilizzanti di autogoverno e ripristinando la vivacità del diritto quale briosa istituzione evolutiva. Tutto ciò a partire dal presupposto che l’individuo, da un lato, è un essere sociale e, come tale, necessita della cooperazione con altri individui, mentre, dall’altro lato, non può che avere una sua dimensione irriducibile e indisponibile alla conculcazione di agenti esterni, il che gli perviene dalla sua proprietà, al singolare o condivisa che sia, tutelata dal diritto.

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