Jacopo Marzano è attualmente iscritto al secondo anno del Corso di laurea triennale in Scienze politiche per la sicurezza e le relazioni internazionali dell'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT).

Recensione a
G. Bedeschi, La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile
Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 353, € 19.00.

Il testo di Giuseppe Bedeschi illustra le caratteristiche, le fragilità ed i protagonisti della prima Repubblica, riuscendo ad individuare, attraverso una puntuale analisi, le cause storiche e sociali del suo stesso disfacimento. L’Italia, uscita sconfitta nella seconda guerra mondiale e martoriata dalla guerra civile, era un paese da ricostruire a livello morale, politico ed economico. Dopo una breve esperienza, segnata dalle continue esecuzioni illegali dei partigiani, al governo Parri venne tolta la fiducia e al suo posto si instaurò – in quella che sarebbe stata la prima di molte esperienze al governo – Alcide De Gasperi.

 Come aveva ampiamente dimostrato il voto del 2 giugno 1946 per l’Assemblea costituente, la Dc era di gran lunga il primo partito, oltre che l’unico a poter realmente inserirsi stabilmente nel contesto democratico e occidentale. Infatti, mentre il partito di Togliatti non avrebbe facilmente abbandonato le mire rivoluzionarie, ma soprattutto la fedeltà a Mosca e al blocco sovietico, all’interno del Partito socialista le differenze di visione politica tra Nenni e Saragat causavano una importante scissione che ne diminuiva l’elettorato, il reale peso politico e l’indipendenza.

La stabilità raggiunta grazie al centrismo degasperiano consentì una grande quantità di riforme che garantirono all’Italia una grande crescita: il miracolo economico. Crescevano il potenziale produttivo e l’economia nazionale, mentre la comparsa e la diffusione di automobili e televisori rappresentarono una vera e propria rivoluzione culturale di massa. Al contempo, la distanza e lo scontro ideologico tra Pci e Dc si acuivano.

L’improvviso sviluppo industriale, concentrato nel Settentrione del paese, fu accompagnato da una massiccia emigrazione dal Sud che trovò le città del Nord totalmente impreparate. L’inadeguatezza dei centri urbani provocò un grande aumento delle diseguaglianze e un significativo scadimento delle condizioni di vita della classe operaia. A questa improvvisa situazione di emergenza occorreva rispondere con una più che necessaria politica di programmazione. Tale politica richiedeva un allargamento del consenso verso il centrosinistra. Tale esigenza era evidente ad Aldo Moro, che proponeva la politica di centrosinistra attraverso «una cauta sperimentazione senza però rinunciare ai principi fondamentali di atlantismo e anticomunismo», consapevole che la collaborazione con i socialisti avrebbe portato all’isolamento dei comunisti.

Il successo del Pci alle elezioni politiche del 1963 colpiva inevitabilmente la stabilità democristiana: occorreva un ripensamento della politica di centrosinistra. Come disse Aldo Moro durante il IX Congresso nazionale del suo partito, il successo comunista era la naturale conseguenza della vasta emigrazione dal Sud al Nord, che aveva portato alla mancanza di abitazioni e all’insufficienza dei servizi pubblici. Altra conseguenza del miracolo economico fu la grande e disordinata crescita delle città, accompagnata da un inaspettato incremento delle iscrizioni alle università, le cui strutture e organizzazioni erano totalmente impreparate a gestire nuove esigenze e numeri così elevati. Uno dei risultati fu lo sviluppo del movimento studentesco dal quale scaturirono manifestazioni prolungate e violente. La risposta della classe politica fu inadeguata: venne liberalizzato l’accesso alle università, svalutando così la qualità degli insegnamenti e contravvenendo al principio meritocratico, esplicitato all’art. 34 della Costituzione:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Le proteste del Sessantotto passarono presto dalle università alle fabbriche, dove andarono formandosi numerosi sindacati che promuovevano iniziative di lotta radicale. La classe dirigente rispose ancora una volta in maniera inadeguata, veniva promosso lo statuto dei lavoratori – di stampo avanguardistico – ma con alcune lacune critiche. Venivano infatti «vietati gli accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità o infermità per malattia del lavoratore», che favorì il fenomeno dell’assenteismo e aggravò la crisi sociale già in atto. All’“autunno caldo” del 1969 seguirono anni di disordini sociali e terrorismo, le Brigate Rosse, a lungo sottovalutate dal Pci, compirono rapimenti, azioni di violenza ed omicidi, lo Stato cercò di rispondere al clima di terrore attraverso la legge Reale.

La gravità dei problemi del paese richiedeva un fronte politico molto ampio che potesse assicurare stabilità e promuovere riforme, occorreva dunque una alternativa democratica: il compromesso storico. Nelle intenzioni di Enrico Berlinguer, l’incontro tra le due chiese, la comunista e la cattolica, era l’unico modo per tentare di sbloccare la democrazia italiana. Furono numerosi i suoi tentativi di dialogo con Moro, il quale però, pur riconoscendo la necessità e la legittimità della proposta comunista, riteneva di primaria importanza conservare l’unità del proprio partito e rispettare gli accordi di politica estera.

Dc e Pci si accordarono per un governo di solidarietà nazionale, presieduto nuovamente da Andreotti, senza la presenza comunista ma con un programma concordato. Il voto di fiducia era fissato per il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro. Il caso Moro fu uno dei molti episodi di violenza e terrorismo ad opera delle Brigate Rosse, con le quali lo Stato, nonostante i vari appelli dello statista pugliese, decise di non trattare. Favorevole ad una linea più umanitaria che potesse salvare Moro era Bettino Craxi. Giunto alla segreteria del partito nel 1976, attraverso una leadership ambiziosa e grazie ad una forte personalità, seppe conferire un ruolo autonomo al Psi, differenziandolo nettamente dal Pci. Ribadendo i tratti democratici e laici del socialismo e cambiando il simbolo del proprio partito – al posto di falce e martello scelse il garofano rosso – prese nettamente le distanze dall’ideologia marxista-leninista. La ritrovata identità del suo partito satellite portò il Pci ad una collocazione isolata all’opposizione, accompagnata da una perdita di consenso verso il crescente Partito Radicale di Marco Pannella.

Ad aggiungersi ad una situazione di fragile instabilità sociale, lo scandalo della P2 ed il conseguente sorgere della “questione morale” denunciavano il colpevole immobilismo della classe dirigente. Nel 1983, a seguito della sconfitta elettorale della Dc di De Mita, Craxi ebbe la sua occasione, era il primo socialista nella storia italiana a diventare Presidente del consiglio. Il governo pentapartito di Craxi fu il più longevo della prima Repubblica. Durante la legislatura furono attuati interventi per combattere l’inflazione, rilanciare il “made in Italy”, riaccreditare il Paese sullo scenario internazionale, fino a diventare nel 1987 la quinta potenza industriale al mondo (escludendo l’Urss dal computo). Inoltre, Craxi propose con forza l’elezione diretta del Capo dello Stato, ipotesi che non si tradusse mai in realtà.

Il clima di sfiducia nei confronti della classe politica cresceva sempre più, l’opinione pubblica indicava la corruzione e le tangenti come il principale problema politico del paese. Le lega di Bossi raccoglieva consensi attraverso una decisa critica antipartitica e la legge Mammì confermava il duopolio del settore televisivo, tra la Rai e la Fininvest di un giovane Silvio Berlusconi. Il Pci, investito dall’onda della modernità e delle trasformazioni sociali, non seppe stare al passo con i tempi, che vedevano peraltro il declino inarrestabile dei regimi comunisti al di là del Muro di Berlino, prossimo al crollo.

Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, cercava di risvegliare il tossico immobilismo della classe politica tramite un inasprimento dei toni. Le sue “picconate” denunciavano le manchevolezze della classe dirigente, colpivano le infiltrazioni del Consiglio superiore della magistratura (Csm) nel territorio della politica e rispondevano alle accuse, a lui rivolte, riguardo un suo possibile coinvolgimento nell’operazione Gladio.

Nei primi anni Novanta, l’Italia era profondamente segnata dall’inadeguatezza della classe politica e da una pericolosa mentalità antimeritocratica, figlia del Sessantotto. Le stragi di mafia uccidevano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, colpendo il più concreto e profondo senso dello Stato. Tangentopoli si abbatteva sui protagonisti della Prima Repubblica, crollavano i partiti e l’intero sistema politico. Tangenti e corruzione mostravano il lato incancrenito e corrotto delle istituzioni, svuotate dai loro soggetti politici.

L’analisi di Giuseppe Bedeschi ripercorre le complesse dinamiche della Prima Repubblica, rintracciando le cause del suo crollo e ripercorrendone le tappe di maggior valore.

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