Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
P. Roggi (a cura di), Ugo Spirito a Pisa. Appunti delle lezioni (1932-1935)
Opificio Toscano di Economia, Politica e Storia, Bagno a Ripoli 2018, pp. 277, €25,00.

Il corporativismo assomma, così, in sé, tutte le esigenze politiche e economiche affermatesi dal sec. XVIII in poi (Ugo Spirito).

A cura di Piero Roggi, storico del pensiero economico da poco scomparso, sono uscite nel 2018 le lezioni che Ugo Spirito (1896-1979) tenne presso la Scuola Superiore di Scienze Corporative dell’Università di Pisa negli anni accademici 1932-33 e 1934-35: Ugo Spirito a Pisa. Appunti delle lezioni (1932-1935), edite dall’Opificio Toscano di Economia, Politica e Storia (Bagno a Ripoli 2018, € 25). Conservate presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo de Felice, tali lezioni – a cui viene aggiunta una selezione di lettere scritte negli stessi anni e utili per inquadrare il contesto nel quale le lezioni vengono poi presentate agli studenti – vengono così pubblicate per la prima volta a seguito di un progetto di ricerca durato tre anni, a cui hanno collaborato oltre al curatore – che apre il volume con un saggio introduttivo dal titolo Frammenti di un discorso economico –, Danilo Breschi – a cui si deve il secondo saggio del libro, intitolato L’utopia fascio-collettivistica di Ugo Spirito – e Monika Poettinger, la quale ha elaborato un saggio in chiusura del volume, dedicato ai testi di tematiche economiche presenti nella biblioteca di Spirito – acquisita dalla Fondazione che porta il suo nome – e denominato Ugo Spirito: frammenti di letture economiche.

Fondata nel 1928 e diretta da Giuseppe Bottai, la Scuola Superiore di Scienze Corporative aveva come scopo precipuo quello di formare nuove generazioni di studiosi ed economisti educati all’economia corporativa. Nel 1932 Ugo Spirito venne chiamato a svolgere tale ruolo e lo farà per due anni accademici, fino al 1935, quando si sposterà ad insegnare a Messina. Come scrivono sia Roggi che Poettinger, Spirito, pur di formazione filosofica, in queste lezioni dimostra di aver conoscenze piuttosto approfondite di economia. In particolare, il curatore asserisce che esse costituiscono pur «in modo talvolta caotico uno sforzo consapevole per dare una sferzata vigorosa a quella storia del pensiero economico che Spirito definiva borghese» (p. 15). Infatti il filosofo aretino dà prova della sua conoscenza economica facendoci «girovagare insieme ai suoi studenti fra tombe di sistemi economici e scuole di pensiero» (p. 14), talché, scrive Poettinger, anche considerata la mole di letteratura economica presente nella biblioteca di Spirito, ciò «permette uno sguardo non banale sulla consistenza delle sue conoscenze di teoria “pura”» (p. 234), intendendo con ciò la teoria astratta e pressoché immutabile nei tempi e nei luoghi informata al principio della libera concorrenza (che, per esempio, Spirito riscontra in Luigi Einaudi) e contrapponendovi, al contrario, una teoria concreta, storicista, che doveva cioè collegarsi fortemente alla realtà storica in cui si inseriva.

La critica all’economia liberale è ben esemplificata nel passo seguente: «Laisser faire, laisser passer: detto questo l’economista può chiudere i suoi libri, perché non ha altro da dire o da studiare. Non si può fare scienza delle infinite autodeterminazioni di infiniti individui. I dogmi del liberismo e della libera concorrenza negano l’opera dello scienziato: la scienza economica così concepita pronuncia il dogma dell’arbitrio individuale e muore» (Lezione V, L’ideologia politica, 30 gennaio 1933, p. 42). Essendo, insomma, l’economia individualistica anarchica e caotica, da convinto tecnocratico quale era, come scrive Breschi, considerava il ruolo degli economisti centrale e assertivo nello svolgimento delle proprie funzioni: a essi era demandano il delicato compito, la campale responsabilità di studiare tutti i problemi e porvi rimedio, al fine di evitare quegli errori che avrebbero compromesso la salute della nazione.

E qual era allora la mèta spiritiana? Il corporativismo, con ciò inteso sia il superamento sia la fusione, a un tempo, di liberalismo e socialismo (e nazionalismo). Al liberalismo egli tributa dure e sferzanti parole critiche, ma anche qualche merito. Esso, infatti, ha il merito di «aver messo in luce il valore dell’individuo» (Lezione II, Critica dell’economia liberale, 17 gennaio 1933, p. 33). Tuttavia, concentratosi solo ed esclusivamente sull’“io”, su una individualità completamente disancorata dall’altro, avendo così espulso qualsiasi dimensione cooperativa, egli si è fatto fiera e non più uomo. La “libertà arbitraria” tipica del liberalismo anarchico, egli scrive, deve divenire una libertà ordinata, disciplinata da leggi. Entra qui in gioco lo Stato che regola i comportamenti e dunque i fini dell’individuo. Egli non è più un “io” a sé stante, bensì una parte di un organismo che lo comprende e da cui trae la propria linfa vitale. Così facendo, «quando il liberalismo è tornato di nuovo allo Stato e si accorge che solo con lo Stato può raggiungere la sua libertà è il liberalismo assoluto: è il corporativismo. Se libertà è libertà dell’individuo singolo il corporativismo è antiliberale: se invece è libertà dell’individuo nello Stato il corporativismo è il liberalismo assoluto. Quando l’individuo è giunto a riconoscere la realtà dello Stato come la propria allora l’individuo ha raggiunto un concetto di libertà che è quello stesso del corporativismo» (ivi, p. 35).

Qui entra in gioco l’altro elemento pervicacemente criticato, ma anche compreso poi nella proposta spiritiana: il socialismo. Infatti, al caos e all’anarchia tipica del liberalismo e dell’economia individualistica, scrive il filosofo aretino, si contrappone e reagisce un’economia di tipo socialista, in cui cioè la dimensione social-statuale s’impone sull’individuo. Lo Stato, in tal senso, diviene il «supremo organo della vita economica della Nazione: una società formata da individui in perfetta lotta fra loro non può essere che una società di sopraffatti e sopraffattori; la società deve esser regolata dalla giustizia che emana dall’organismo supremo: dallo Stato» (Lezione III, Critica dell’economia socialista, p. 35). Tuttavia, se il liberalismo ha una visione errata dell’individuo (una monade isolata, in breve), allo stesso tempo il socialismo considera lo Stato «come un insieme di funzionari, come una burocrazia che dal centro gestisce la vita economica di tutta la Nazione» (ivi, p. 36). E i problemi di un siffatto ordinamento sono molteplici, secondo l’allievo di Giovanni Gentile: in primis, il funzionario statale non può in alcun modo avere l’interesse del singolo individuo; in secondo luogo – e qui è straordinaria la casualità che vede la tesi di Spirito anticipare di qualche anno ciò che Friedrich von Hayek, un liberista astratto e dogmatico, avrebbe detto il Nostro, disse in un discorso poi pubblicato col titolo Economia e conoscenza (1936) e scrisse in L’uso della conoscenza nella società (1945) – il funzionario non può assolutamente detenere quelle conoscenze periferiche e decentrate della vita economica, e la sua azione si tramuterà in arbitrio; in terzo luogo, lo Stato così costruito non farà che sopprimere quella vitalità, quella creatività che solo gli individui hanno e, in tal modo, diverrà una gigantesca macchina che tratta gli individui come automi servili.

Allora, scrive Spirito, il socialismo ha cercato di correggere il burocratismo, insito nella sua natura, affermando «nuove forme di vita economica, mediante le quali si potesse affermare la personalità dell’individuo»: «Si volle, pertanto, allargare la sfera dello Stato, scendere, mediante la costituzione di numerosi enti pubblici, aziende, istituti, da una burocrazia statale a burocrazie provinciali e comunali, governare attraverso un ordinamento burocratico sempre più ampio, in una parola, far coincidere Stato e Nazione, Stato e individuo. Ma quando il socialismo arriva a questo punto, vale a dire ad identificare l’individuo allo Stato, esso diventa Socialismo assoluto, cioè corporativismo» (ivi, pp. 36-37).

Non si tratta, secondo il filosofo aretino, di conciliare semplicemente liberalismo e socialismo, «affermando che l’uomo è libero sino a un certo punto, dopo il quale interviene lo Stato che disciplina la vita economica» (ivi, p. 37), giacché, in tal modo, rimarrebbero intonsi tanto gli inconvenienti della prima quanto della seconda soluzione: «A questa prima timida ed inaccettabile soluzione del problema noi opponiamo una soluzione radicale, che, teoricamente, si incardina sul principio dell’identità di individuo e Stato e, praticamente, dà luogo al regime corporativo. Essa comprende, in tutta la loro assolutezza, socialismo e liberalismo: concede, cioè, all’individuo più libertà di quella che non gli conceda lo stesso liberalismo e, inoltre, la possibilità di affermare la propria personalità in una cerchia sempre più vasta; nello stesso tempo propugna uno Stato totalitario, più forte ed organico di quello concepito dal socialismo, quindi uno Stato inteso non come classe, ma come totalità, come organismo assoluto» (ibidem).

La soluzione spiritiana porta insomma ad una libertà vissuta e concepita come ordine, disciplina e gerarchia, un ordinamento in cui individuo e Stato divengono, per mezzo della corporazione – la quale «fa scendere lo Stato all’individuo e fa salire l’individuo allo Stato» – una sola, indivisibile e inossidabile entità. «Le esigenze fondamentali del liberalismo erano date dall’individuo e dalla libertà, quelle del socialismo, invece, dallo Stato e dalla collettività. Il corporativismo, inteso come liberalismo assoluto e socialismo assoluto sarà una concezione politica che concilierà le opposte esigenze, identificandole. Se l’individuo non è tutto, ma ha accanto a sé lo Stato, trova nello Stato un limite; e lo Stato, se non assomma in sé ogni cosa ma ha accanto a sé, sullo stesso piano, l’individuo, trova un limite in questo. Perché si possa concepire il corporativismo è necessario arrivare all’identità di individuo e Stato», afferma il Nostro (Lezione XVII, 2 maggio 1933, p. 67).

Come ha ben notato Breschi nel suo saggio, quella di Spirito non solo è un’utopia, ma forse, e ancor meglio, una pretesa prometeica e perfezionistica di «autogoverno collettivo e individuale al contempo» (p. 23). Si tratta ancor più «dell’espressione di un credente, o ancor meglio di uno che ‘vuole’ credere» (p. 24), il quale ritiene che, eliminando l’economia di mercato e la (presunta) anarchia individuale, da un lato, e la burocrazia centralistica, dall’altro, si possa dar vita a una soluzione in cui l’individuo sia al contempo libero e ordinatamente inserito in un contesto a lui imposto. Nella meta corporativa del filosofo aretino, insomma, l’eliminazione del burocratismo socialista centralizzato in realtà si tramuta nel suo contrario, ovvero nel suo massimo inveramento: statizzando la società capillarmente, sebbene in modo periferico, il corporativismo non fa che pianificare tutto; detenendo in buona sostanza ogni mezzo, saranno determinati tutti i fini, annullando di fatto le individualità stesse che Spirito, criticando il socialismo, avrebbe invece voluto tutelare.

Sebbene, come nota Poettinger, la pars costruens sia alquanto debole nel pensiero dell’Autore, rimane di profonda attualità il pensiero di questa figura intellettuale assai eccentrica – la cui eccentricità si evince, ad esempio, dal fatto che, come ricorda Danilo Breschi, il suo fu un pellegrinaggio ideologico che lo vide prima fascista, poi comunista (passando da filosovietico a filomaoista) e sempre tecnocratico: la sua originalità, in realtà, rivela quanto abbia rappresentato una figura tipicamente novecentesca, impregnata di spirito ideologico – : «Ma, più che altro – scrive Giuseppe Parlato nell’introduzione alla monografia che il medesimo Breschi dedicò a Spirito, con un titolo che volutamente richiama il carattere paradigmaticamente novecentesco del pensatore, Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. XVIII – il fascino è dato da quel senso di eterna provvisorietà che il suo pensiero emana: è la “vita come ricerca” che lo rende particolarmente vicino ai nostri tempi. La ricerca continua e ossessiva di un assoluto, sapendo di non trovarlo».

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