Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Erri De Luca con Dopo:
Non quelli dentro il bunker,
non quelli con le scorte alimentari, nessuno di città,
si salveranno indios, balti, masai,
beduini protetti dal vento, mongoli su cavalli,
e poi uno di Napoli nascosto nel Vesuvio,
e un ebreo avvolto in uno sciame di parole,
per tradizione illesi dentro fornaci ardenti.
Si salveranno più donne che uomini,
più pesci che mammiferi,
sparirà il rock and roll, resteranno le preghiere,
scomparirà il denaro, torneranno le conchiglie.
L’umanità sarà poca, meticcia, zingara
e andrà a piedi. Avrà per bottino la vita
la più grande ricchezza da trasmettere ai figli[1].
Si salveranno indios, balti, masai, afferma senza riserve Erri De Luca. Nessuno dentro il bunker né quelli con le scorte alimentari. Tuttavia la tendenza odierna sembra proprio questa ultima; una tendenza che può essere identificata nell’eccessiva rigorosità dei regimi di pratiche.
Dare norma e uniformità allo spazio locale significa adeguarlo ai criteri del dispositivo. Questa nozione introdotta da Michel Foucault (1969), elaborata successivamente da Pierre Bourdieu (1972) e Georges Teyssot (1981), indica un regime di pratiche che vanno a costituire un modo di vita che nel tempo condurrà la popolazione a un habitus. Talvolta il dispositivo subisce un irrigidimento che occlude la porosità naturale e costituzionale dell’assetto socio-culturale di un popolo, di un habitus appunto. Chi viene incaricato di implementare un dispositivo in uno spazio locale non sempre rispetta le tradizioni che già sono presenti nel medesimo spazio. Gli esempi sono innumerevoli, dall’Algeria francese fino alle missioni salesiane in Amazzonia (passando per l’Asia Centrale, di cui si accennava nell’Ouverture). I missionari salesiani capirono da subito che il modo più efficace per convertire i Bororo era quello di trasferirli in un luogo le cui abitazioni erano disposte in modo differente dal villaggio d’origine. Infatti, nel nuovo villaggio costituito da case disposte in file parallele, i Bororo restarono disorientati. Erano abituati alla distribuzione circolare delle loro capanne, che evidentemente aveva un senso condiviso e legato alle pratiche di culto[2]. Ancora: progressivamente andavano perdendo i punti di riferimento, le memorie della comunità.
Oggi accade lo stesso, in altri luoghi, basti pensare alla periferia di Casablanca, alla progressiva trasformazione, in Chefchaouen, di vecchie case in alloggi per turisti; al quartiere Sukhumvit di Bangkok, una volta quartiere ricco di abitazioni in stile tradizionale mentre oggi pullula di grattacieli, negozi di moda e uffici dalle vetrate a specchio. Ma chi insedia questi spazi, rivisitati o forzatamente rivisitati, per lo più non conosce né l’orografia del paesaggio né il significato che nel tempo, le popolazioni che l’hanno abitato, hanno dato all’orografia stessa. Manca un pezzo del vivere nello spazio locale. È in questo senso che Franco La Cecla può sostenere che «nessun osservatore esterno può esperire uno spazio indigeno se non tiene conto delle categorie spaziali indigene; se, per così dire non acquista la percezione e la cognizione che della realtà ha quel particolare gruppo insediato»[3]. Il villaggio non è solo il luogo dove abitano un numero di individui: il villaggio è un centro da dove è possibile lanciare direzioni, traiettorie d’orientamento, maglie su cui circolano segni di un cosmo che si autoregola.
Le linee di forza, oggi, sono tutte rivolte verso l’io che a sua volta le distribuisce sul corpo, il piccolo corpo di organi che cerca con ogni mezzo di mantenersi sano. L’operazione igienica e di benessere rivolta al corpo è una azione per l’azione, fine a se stessa, non getta alcuna traiettoria verso il fuori. In questo senso, al tempo viene sottratta la diversificazione per stratificazione sentimentale: i momenti diventano uguali e indistinguibili, gli spazi sono spazi funzionali all’operazione del benessere. Si perde il senso di comunità perché iniziano ad esistere tanti sensi comunitari quanti sono i cittadini che vivono entro i confini; nessuna sintesi che stabilisce dove si vive e attraverso quali qualità condivise. Alla funzionalità in materia di spazi – architettura funzionalista – segue la funzionalità del quotidiano che consiste nello sradicamento delle “differenze culturali” (anche da quartiere a quartiere) per uniformare a “cittadini”. Lo spazio sembra appartenere sempre meno a chi lo vive; si tratta di quel sentimento che Ernesto De Martino chiamava «angoscia territoriale»[4].
L’angoscia territoriale è in rapporto alla memoria, perché quest’ultima rintraccia i ricordi “sorvolando” lo spazio che era, rintracciando il modo in cui si è stati nello spazio che era. Sono implicate alcune componenti di presenza, in questo modo si passano al setaccio mnestico i pensieri che erano, i movimenti del corpo nelle curve della casa o, più largamente, del quartiere.
Il primo significato di un lago, di una pietra, di una nuvola è l’evidenza; poi, accostandosi in modo umano alle evidenze, e cioè con le trasformazioni e le oscillazioni del quotidiano, nascono nuovi “caricamenti” simbolici. Lo spiega Rilke a proposito di Praga: «Ancora nei padri, nei padri dei nostri padri una casa, una fontana, una torre significavano infinitamente più, perfino la loro propria veste, il loro mantello, quasi ogni cosa era infinitamente più familiare, un vaso in cui essi accumulavano ancora altro umano»[5]. E indica un possibile “salvacondotto” nella trasformazione del visibile in invisibile, delle architetture nello spazio, in ragionamenti e afflati che pazientano prima di riproporsi, ridistribuirsi, in estetiche spaziali. Solo in questo modo lo spazio diventa spazio vissuto; a ogni curva i suoi significati, individuali e collettivi. Per fare questo, l’urbanistica dovrebbe rispettare i tempi della psicologia e invece, per delle ragioni di istantaneità e rinnovo, accade l’esatto rovescio. Infatti, anche se il paese non esiste più nella geometria impressa nella mente dei suoi abitanti, questi ultimi, trattengono la maggior parte delle sensazioni che suscitava; si arriva dunque ad avere una doppia geometria del medesimo luogo: una interiore che riflette un paesaggio e una architettura che non trova alcun corrispettivo nella realtà, e una esteriore che è nuova, asettica. Là dove c’era la schiera di alberi ora c’è una palazzina dai vetri che consentono di vedere dentro a ogni stanza. «La mappa mentale del paese non corrisponde più al suo aspetto fisico. Essa né è l’archeologia»[6]. Vengono a mancare delle evidenze caricate simbolicamente in altre epoche, per lasciare spazio a dei luoghi standard, che vanno formando delle menti standard. Questi luoghi vengono sviluppati senza alcuna mediazione e rilettura contestuale, solo al fine di renderli presenti anche qui come lì. Non è solo un cambiamento di forme e linee perché le conseguenze nelle soggettività possono condurre fino alle forme vuote, che dischiudono un tempo disarticolato, disorientato.
Si intravede questo tempo nell’espressione «notte insonne e affannosa» di Adorno: «Notte insonne: si può definire con una formula: ore tormentose, trascinate senza la prospettiva di una fine o dell’alba, nel vano sforzo di dimenticare la vuota durata. Ma a incutere spavento sono le notti insonni in cui il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita […] nella notte insonne e affannosa la durata genera un orrore intollerabile»[7]. In questo scenario, la notte affannosa traduce quanto sta accadendo intorno: lo spazio e il tempo non recano più alcuna formula ordinatrice. Il tempo non ha più alcuna gravitazione capace di contenerlo. Gli atomi di senso si perdono nello spazio che non è più codificabile; ogni atomo in questione segue una propria traiettoria, perdendosi. Le società si adoperano, sostiene Baudrillard[8], ad accelerare i corpi e i messaggi e tutti i processi di senso. L’energia cinetica di ogni posizione storica o culturale viene strappata e proiettata nell’irrecuperabile. In realtà, come già osservato da alcuni autori, tra cui Byung-Chul Han, si potrebbe ipotizzare anche una stasi degli eventi e non una accelerazione smisurata; in questo senso la perdita dei significati non dipenderebbe tanto dalla velocità di liberazione ma dall’assenza o debolezza della gravitazione. La stasi accade in mancanza, anzitutto, dell’orbita che orientava le cose e gli eventi.
Nella Patafisica Baudrillard specifica che, in materia sociale, la perdita dei significati avviene non per mancanza di scambi ma per moltiplicazione e saturazione degli scambi. «Nasce dall’iperdensità delle città, delle merci, dei messaggi, dei circuiti […] La storia finirà per fermarsi e spegnersi, come la luce e il tempo in prossimità di una massa infinitamente densa»[9]. Storia e produzione di senso necessitano di una velocità di scambio capace di tenersi entro le soglie: troppa velocità conduce all’eccedenza di senso e di conseguenza alla sua perdita, poca velocità immobilizza il movimento che si esprime nella dinamica della porosità.
Tuttavia la stasi non è il contrario dell’accelerazione perché non si tratta semplicemente di uno stare immobile, si tratta piuttosto di «non-conoscere-più-il-verso-dove»[10]. In questa sede si scrive della produzione di senso come fenomeno di addensamento degli eventi temporali in una composizione narrativa. Vivere uno spazio è un’esperienza in cui vengono raccolte informazioni e sentimenti attraverso molti sensi, tra cui l’olfatto. Già Marshall McLuhan considerava l’olfatto un senso iconico, epico-narrativo. I profumi forniscono una stabilità, prodromo dell’organizzazione identitaria. Ma nell’epoca dell’affanno, per tornare ad Adorno, non c’è tempo per il discorso di McLuhan; il profumo, e il suo potenziale iconico, dischiude l’esperienza della durata, decisamente in controtendenza rispetto all’odierno regime morbido e diffuso dell’istantaneità.
Note:
[1] E. De Luca, Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 88.
[2] C. Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Plon, Paris 1955 (trad. it. B. Garufi, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 1960).
[3] F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano 1993, p. 27.
[4] E. De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini, in Studi e materiali di Storia delle Religioni, vol . XXIII, n. 1952, ripreso in E. De Martino, Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[5] R. M. Rilke, Lettere da Muzot (1921-1926), (a cura di M. Doriguzzi e L. Traverso, Cederna, Milano 1947, lettera 323).
[6] F. La Cecla, Mente locale…, op. cit. p. 87.
[7] Th. W. Adorno, Minima Moralia – Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Surkhamp, Berlin 1951 (trad. it. R. Solmi, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 194).
[8] J. Baudrillard, Patafasica dell’anno 2000, in L’illusione della fine, o Lo sciopero degli eventi, (trad. it. A. Serra, Anabasi, Milano 1993, p. 10).
[9] Ivi, pp. 12-13.
[10] B.-C. Han, Duft der Zeit. Ein philosophischer Essay zur Kunst des Verweilens, transcript Verlag, Bielefeld 2009 (trad. it. C. A. Bonaldi, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano 2017, p. 33).