Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
R. Kirk, Enemies of the Permanent Things [1969]
Lockerd, Cluny, Providence 2016, pp. 334, $ 22,95.

Observations of Abnormity in Literature and Politics, così recita il sottotitolo del volume. Ciò sta a indicare la diagnosi kirkiana (che ricorda un volume di Gustave Thibon, non a caso uno dei punti di riferimento di Kirk) del sistema educativo-culturale – da qui l’importanza della letteratura nell’economia del suo pensiero: essa trasmette e veicola per l’appunto norme e standard all’uomo – sistema che se devia dalla normalità, inteso come status normativo duraturo della natura umana, conduce alla mancanza di riferimenti etici e al caos che si riverbera pure sulla tenuta del sistema politico.

Una tale normalità etica, per il pensatore di Mecosta, non segue la massificazione dei comportamenti e il livellamento degli standard, di matrice progressista, né tantomeno piani razionalistici e di stravolgimento dei costumi ereditati. Essa è invece il frutto del filo invisibile ma radicato che tiene unite le generazioni. Nel campo più squisitamente politico, allora, ciò significa attenersi, per quanto, come Burke insegnava, non vi è tradizione senza un minimo di innovazione, alle prescrizioni, ai costumi e alla tradizione politica che è venuta prima del presente. Il nemico principale di una tale visione rispettosa, e talvolta magari eccessivamente reverenziale del passato, è l’ideologia. Essa è, secondo Kirk, l’inversione dei buoni principi ereditati, basati non solo sull’esperienza ma su un principio che orienta l’azione, ovvero la prudenza, giacché l’uomo è naturalmente imperfetto e incapace di creare alcunché di perfetto.

L’ideologia è uno schema onnicomprensivo del presente, imperniato sul superamento concettuale dell’idea di uomo come essere ignorante e fallibile, marchiato dal peccato originale. Il pensiero ideologico, a ben vedere, immanentizza simboli religiosi e divinizza la realtà terrena attraverso la presunzione fanatica di poter redimere l’esistente. Essa è un prodotto, dice Kirk, probabilmente il risultato estremo degli ideali illuministici, in particolare della Dea Ragione. Attraverso di essa, l’uomo si auto-divinizza e non conosce più limiti che non si auto-ponga. Come aveva sostenuto J. Burckhardt, gli ideologi sono dei «terribili semplificatori»: ma può l’uomo comprendere, si chiede Kirk, la realtà nella sua totalità facendone dunque un manichino da sottoporre ai suoi caprici?

Per quanto l’ideologia si sia sovente ammantata di scientificità e oggettività, magari sulla scorta dei profeti della scienza concepita non come metodo o strumento di indagine umile e umano, ma potere in grado di soggiogare e manipolare la natura a proprio piacimento, non tutto secondo Kirk vi potrà mai essere ricondotto né tutto potrà essere catturato da siffatti utensili umani. La ragione rimane per lui uno strumento certo importante, ma che non può affrancarsi dall’esperienza concreta delle generazioni precedenti né, tantomeno, disancorarsi dal principio che vi è qualcosa che la trascende, ovvero Dio. Una tale credenza, riconoscente la limitatezza di tutto ciò che è umano, rende l’uomo essenzialmente libero, relativamente libero: nessuna cosa che riguarda questo mondo può mai avere carattere assoluto. Mentre l’ideologia, per contro, asservisce in nome di idoli mondani:

Ideology is intellectual servitude. And emancipation from ideology can be achieved only by belief in an enduring order of which the sanction, and the end, are more than objective, more than scientistic, more than human, and more than natural (p. 172).

Il nemico dell’ideologia è insomma, sul piano politico, una tradizione che si rifà al poliedrico mosaico culturale ereditato in terra americana e, più in generale, su scala occidentale. Come scriverà qualche anno più tardi in The Roots of American Order (1974, tradotto in italiano per Mondadori nel 1996), ma che in parte si può già trovare nell’agile volumetto The American Cause (1957, da poco tradotto per D’Ettoris), l’ordine, e dunque pure l’ordine politico, ha almeno quattro radici, rinvianti ad altrettanto quattro fondamentali città: Gerusalemme, Atene, Roma e Londra. Certamente, un tale ordine non è immutabile, come potrebbe esserlo invece per l’ideale spartano di società chiusa. Nondimeno, i principi che derivano da tali radici sono sempiterni: la fede e l’ideale religioso, lo spirito critico di matrice filosofica, un’idea di libertà ordinata incardinata sulle leggi e il senso di virtù, lo spirito prudenziale e il rispetto per il passato. Tale patrimonio concorre alla creazione di un ordine sano, duraturo e stabile, essendo un perenne patrimonio da cui attingere per contrastare quell’ingegneristico spirito di innovazione e cambiamento contemporaneo che non accetta compromessi.

Come ha scritto M.E. Bradford, «these reverend patrimonies, religious and traditional, reach so far back into our composite past and have so nourished our identity that we are loath even to think of them unless they begin to lose their hold». E proprio lo spirito ideologico-giacobino che si fa strada, sostiene Kirk, è ciò che va sostituendosi a un tale patrimonio culturale. Quello che Michael Oakeshott chiamò “razionalismo in politica” è per l’appunto quello spirito di sostituzione dell’esistente, frutto del passato, su basi eminentemente nuove. Ciò conduce al sospetto, per non dire al ripudio totale, di ciò che non è stato coscientemente e deliberatamente pensato e posto in essere, di ciò che ha anche solo un vago contatto con le tradizioni precedenti e i costumi che si sono spontaneamente affermati e sedimentati col passare del tempo. Il punto cruciale è che, come aveva notato José Ortega y Gasset essere uomo significa essere, stare, vivere in una tradizione. Così scrive Kirk:

Civilized man lives by authority; without some reference to authority, indeed, no form of truly human existence is possible. Also man lives by prescription – that is, by ancient custom and usage, and the rights which usage and respected freedom have established. Without just authority and just prescription – conclude il pensatore di Mecosta – the pillars of any tolerable social order, genuine freedom is not conceivable (p. 311).

Chi nega, insomma, saldi, duraturi, radicati principi, in nome di fluttuanti e aleatori sistemi elaborati razionalisticamente o scientificamente, ritenendo di liberare l’uomo lo costringe invero a tornare in più tenaci e resistenti catene. La vita senza norme e principi non può durare a lungo. Ma se si sostituisce la saggezza del passato, per quanto imperfetta, sostiene Kirk, si pongono in essere le basi per una schiavitù che non conoscerà limite alcuno.

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