Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Michel Houellebecq è indubbiamente uno degli scrittori di punta del nostro tempo. Questo, non tanto per uno status accordato a seguito di un qualche boom d’incassi, o di una qualche aprioristica e fanatica presa di posizione. A decretare la sua rilevanza tra gli scaffali di una qualsiasi libreria, in rapporto a molti suoi contemporanei, è il contenuto delle sue opere, nient’altro. Con questo, si badi bene, non si afferma che il suo lavoro letterario debba essere esente da critiche, o che debba essere universalmente apprezzato e trattato come un “classico in vita”, ma è comunque auspicabile porre una certa attenzione al frutto delle sue fatiche letterarie. Per questo, non è da considerarsi strana o fuori luogo, l’attenzione che i media hanno dimostrato per Annientare, il nuovo romanzo di Houellebecq uscito proprio il 7 gennaio di quest’anno per i tipi della “Nave di Teseo”.
A sembrare fuori luogo, piuttosto, è stata la “chiamata alle armi” che questo evento ha suscitato nel mondo culturale nostrano: già a distanza di pochi giorni dalla pubblicazione – in alcuni casi addirittura con una programmata anteprima – le recensioni hanno cominciato a fioccare copiose in molte testate cartacee ed online. Data l’ampiezza dell’opera – più di settecento pagine – è consentito poter dubitare della puntualità di queste solerti pubblicazioni, confezionate, probabilmente, più per aggiudicarsi l’esclusiva prima degli altri che per zelo letterario. Ora, un atteggiamento simile, prima che per l’autore, è umiliante nei confronti della letteratura stessa, che richiede attesa, contemplazione, analisi. In questo ambito, la rapidità è tutt’altro che una dote, e il concetto di “esclusiva” è qualcosa di trascurabile; il rischio di agire in modo tanto tempestivo è quello di dare informazioni fuorvianti sul testo recensito, ovvero ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe essere evitata. Questo pericolo, poi, è tanto più insidioso quanto più il contenuto dell’opera è esteso.
Annientare di Houellebecq, infatti, per quanto risulti scorrevole nella lettura, è un romanzo denso, ricco, in cui molti temi di attualità – politici, economici, tecnologici – si intrecciano con riflessioni di ordine esistenziale e religioso. Un testo, dunque, oscillante tra considerazioni sulla contingenza e speculazioni metafisiche, difficile da liquidare con formule fisse o con concetti standardizzati, ovvero gli strumenti del mestiere propri degli scrittori di recensioni espresso.
La vicenda è ambientata in Francia a cavallo tra il 2026 e il 2027, dunque in un futuro molto prossimo. Paul Raison, il protagonista, lavora come consigliere e confidente del ministro dell’economia Bruno Juge e, come spesso accade ai personaggi dei libri di Houellebecq, ha una vita devastata: la moglie Prudence è praticamente un’estranea con cui divide la sua abitazione a Parigi, i rapporti con la sua famiglia sono da tempo pressoché nulli. Quando però una grave malattia colpisce il padre Édouard, ex pezzo grosso dei servizi segreti, inizia un lungo e doloroso processo che porta Paul a riallacciare i rapporti con i due fratelli, Cécile e Aurélien, e, parallelamente, anche con la moglie. Sullo sfondo, la campagna elettorale per le elezioni del nuovo presidente della Repubblica, che vedranno Bruno tra i principali protagonisti, e una misteriosa cellula terroristica specializzata in attività di hackeraggio, che minaccia apertamente i maggiori rappresentanti e i luoghi-simbolo del progresso tecnologico con video e attentati mirati.
Possiamo notare, dunque, che la storia si sviluppa su due piani, due veri e propri mondi diversi. In un mondo vediamo lo sviluppo dei fatti interni alla vita privata del protagonista e della sua famiglia, nell’altro lo sviluppo di ciò che riguarda, invece, la cosa pubblica. Quel che si registra è che sembrano divisi da un netto diaframma: gli avvenimenti esterni non hanno alcun effetto su quelli interni, e viceversa. Anche quando gli avvenimenti interni vanno a toccarsi con quelli esterni, gli effetti sono talmente trascurabili da non lasciare che qualche flebile traccia. I grandi avvenimenti mondiali e nazionali, dunque, non hanno alcun effetto sovvertitore sulla vita delle persone, che da parte loro non mostrano nemmeno il minimo interesse a tenersene informate. Ben altri sono i problemi che assillano l’uomo comune, che ne scandiscono l’esistenza; manca dunque il tempo e la voglia di preoccuparsi di qualche strano video che circola su internet, o della distruzione di una nave commerciale cinese. Pure le presidenziali, appuntamento che dovrebbe coinvolgere direttamente la popolazione, sono avvertite come un qualcosa di lontano, astratto, poco più di un gioco. Il distacco, però, non si manifesta solo in ambito politico, ma pure in quello economico.
Bruno è un ottimo ministro dell’economia: nel corso del suo mandato è riuscito a risanare il bilancio statale e a dare una nuova spinta alla produzione nazionale, facendo tornare la Francia ad un livello di influenza e rilevanza estera più che accettabile. Eppure, questi risultati così positivi non sembrano aver migliorato significativamente il benessere ed il tenore di vita degli abitanti; il tasso di disoccupazione resta altissimo soprattutto nelle periferie, ci sono poi intere zone del suolo francese praticamente abbandonate a loro stesse.
Insomma, considerando il divario che sta formandosi tra i piani alti e la base, tra operazioni economiche di portata mondiale e le piccole economie locali, pare proprio che il modello di democrazia francese si stia evolvendo in qualcos’altro, una sorta di post-democrazia, con caratteri non molto dissimili da quelli di una monarchia assoluta. Non è un caso che una delle volontà del presidente in carica, sia quella di modificare la costituzione, in modo tale da rendere la repubblica francese pienamente presidenziale, eliminando così la figura del presidente del consiglio e ponendo tutto sotto il controllo diretto della più alta carica dello Stato.
Tutto questo, però, non pare avere una consistenza reale – è come un mondo virtuale, pericolosamente somigliante a quello dominato dagli attacchi degli hacker terroristi. Sono questi, in effetti, i due ambiti che si intrecciano, ovvero quello del web e quello delle istituzioni; chi vi partecipa e vi è dentro, come Bruno e Paul, finisce per alienarsi dal resto del mondo, come accade a certi videodipendenti. A costringere Paul a rimettere piede sulla terra, è la già citata malattia del padre. Quest’uomo è una delle figure più interessanti di tutto il romanzo: uomo di stato integerrimo, professionista impeccabile che pure in famiglia ha sempre rispettato il suo impegno alla segretezza. Conservatore e lettore appassionato di Joseph de Maistre, rimane vedovo a tarda età, ma nonostante questa perdita riesce comunque a trovare un nuovo amore. Risvegliatosi dal coma, si ritrova ad essere completamente immobilizzato, ad eccezione delle palpebre degli occhi, che diventano l’unico mezzo per comunicare. Nonostante le ingenti difficoltà che la vita gli ha riservato, il padre Édouard continua a dimostrare una insolita vitalità, una calma che pare non intaccarsi di fronte a niente. Questo contrasta apertamente con la passività propria dei due figli, Paul e Aurélien.
Il primo, seguendo solo l’ambizione, si è trovato a svolgere per lungo tempo un lavoro che detestava. Per quanto la situazione, passando sotto le dipendenze di Bruno, sia migliorata, la sua condotta di vita lo ha portato a fare terra bruciata attorno a sé, a circondarsi di incomunicabilità. Aurélien, invece, è l’ultimo dei tre fratelli, nato fuori dai piani familiari. Molto più giovane di Paul e Cécile, era particolarmente affezionato alla madre, tanto da seguire, una volta adulto, il suo percorso professionale, diventando un restauratore specializzato in arazzi medievali. Di carattere debole, si sposa con una giornalista a caccia di notorietà, che pare divertirsi ad umiliarlo. Per quanto Paul dimostri di avere per più carattere del fratello, questi due personaggi sono tra loro fortemente accomunati: entrambi mostrano una certa difficoltà nella conduzione della loro esistenza, hanno un riflesso meccanico che li spinge verso l’autodistruzione. Questo stimola in loro un certo rifiuto nei confronti della vita, una volontà di nascondersi perché questa non li tocchi. Il riflesso autodistruttivo li porta inevitabilmente verso il compimento di un destino tragico, per quanto esso si manifesti, nei due, in maniera differente.
Questo istinto nichilista non sembra toccare la sorella, Cécile, la favorita del padre, e che pare, come lui, aver trovato la sua dimensione e la sua parte nel mondo. La felicità del suo nucleo familiare non è intaccata dagli ingenti problemi economici dovuti alla disoccupazione del marito, e nemmeno dalla sua predisposizione a sobbarcarsi i problemi di tutti. Non ha continuato gli studi, dopo il liceo, e si trova a suo agio nello svolgere mansioni da casalinga. Per quanto ritratto possa suggerire un quadro sociale problematico, solo raramente Cécile perde la sua serenità, e sempre per eventi che non dipendono direttamente da lei. Si crea, dunque, un nuovo diaframma: da una parte Paul e Aurélien, dall’altra Cécile ed Édouard. Qual è la cifra della loro differenza?
Perché da una parte troviamo il rifiuto della vita, e dall’altra, se non la felicità, almeno la perseveranza dell’istinto conservativo? Ad un’analisi superficiale, si potrebbe dire a causa dell’amore: d’altronde, Cécile vive un matrimonio felice e appagante, Édouard è teneramente e sinceramente amato dalla compagna, che si dedica con dedizione certosina alle sue cure. Ma pure a Paul e Aurélien è dato di conoscere le gioie dell’amore: il primo si riconcilia perfettamente con la moglie, il secondo comincia a frequentare con trasporto un’infermiera del padre; questo, però, non basta a salvarli dal tragico e, come vedremo, l’amore avrà addirittura effetti distruttivi su di loro. Il marchio che li segna in maniera indelebile, e che impedisce loro pure di godere della felicità che ricevono, è piuttosto la consapevolezza di essere completamente disarmati di fronte a quel drago enorme e malefico che è l’esistenza. Le loro sono vite senza scopo, senza direzione, senza punti fermi, assillate da domande e dubbi irrisolvibili. Questo è evidente nel caso di Paul: molte volte si trova davanti alla sua libreria, preso dallo strano istinto di leggere un qualche saggio filosofico, qualcosa di vagamente metafisico; sconsolato, non può che constatare la mancanza di volumi del genere: nel suo percorso di formazione non c’è mai stato troppo spazio, per quell’ambito di studi. L’assenza di basi rende insicuri, tendenti all’isolamento in sé stessi, passivi. È vero, infatti, che nel corso del romanzo Paul riallaccerà diversi rapporti, ma mai a seguito di sforzi da parte sua: nel matrimonio, è la moglie Prudence a muovere i fili del riavvicinamento; per il resto della famiglia, è il padre che, indirettamente, svolge la funzione di deus ex machina.
In questo, dunque, si trova la distinzione cruciale, dato che sia Édouard che Cécile possiedono basi esistenziali solide: il primo, si può dire abbia vissuto con profonda convinzione una vita da servitore dello Stato, al servizio della Repubblica e della conservazione dell’ordine sociale della società in cui vive – la passione per de Maistre è emblematica, la seconda si caratterizza per una incrollabile fede cattolica, che la porta ad affrontare con forza d’animo e vigore le situazioni difficili. Per quanto gli ostacoli siano duri, per quanto la vita pure con loro mostri un conto impietoso, non sono presi dallo sconforto, dal rifiuto.
Assieme a loro, pure la moglie di Paul, Prudence, compie un viaggio verso la vita: unendosi, nel corso del libro, a una strana setta religiosa di gusto primordiale, legata ai cicli della natura e all’esistenza di due principi divini generatori, uno maschile e l’altro femminile, dallo stato di semi-automa che la contraddistingue nelle prime pagine, riuscirà infine a riscoprire pienamente la sua femminilità, la sua voglia di esistere. Tutto questo, però, richiede forza, tenacia, coraggio, qualità che Paul non possiede, e che nemmeno il rinnovato amore di Prudence riesce a infondergli. Anzi, sarà proprio questo rinato sentimento ad annientarlo – per l’appunto – in maniera definitiva.
Spieghiamoci meglio: come si è detto, Paul è portato a fuggire dalla vita reale, per questo il lavoro al ministero, nel mondo “virtuale”, era il suo rassicurante rifugio. Il distacco da esso, dovuto a cause di forza maggiore, ha portato Paul a riaffacciarsi nel mondo reale. L’amore di Prudence ha creato un legame con la realtà, che gli impedisce, poi, di fare ritorno nel suo mondo virtuale. Non è un caso che, verso la fine del romanzo, Paul decida di non esprimere il suo voto al secondo turno delle presidenziali. Il legame con la realtà, però non è così forte da riallacciarlo alla vita, vista ancora come un drago spaventoso pronto a trascinarlo nel nulla. Così, il protagonista si trova esiliato dai due mondi, impossibilitato a far parte di entrambi, annientato da uno spirito dei tempi che non è stato ideato da lui, ma che neanche fa niente per contrastare. Cosa similare accade anche ad Aurélien, talmente avvezzo alla prospettiva del nulla da ritenere immeritato ogni minimo sintomo di felicità. In conclusone, sono esseri senza futuro, cresciuti in una società che non ha saputo offrirne alcuno.