Federico Tinnirello (1996) si è laureato in Filosofia e, successivamente, in Scienze Filosofiche all'Università degli studi di Catania discutendo una tesi sul pensiero di Ludwig Wittgenstein. Attualmente è allievo diplomando presso la Scuola Superiore di Catania.
Recensione a
P. Barrotta, Storia del partito liberale italiano nella Prima repubblica
Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 234, € 16,00.
La segreteria Malagodi fu la più longeva e, sicuramente, la più importante all’interno della storia del Partito liberale italiano. Malagodi non cercò soltanto di attuare un progetto politico ben preciso, ma cercò di dare una forma completa e innovativa alle istanze politiche e intellettuali del liberalismo. Giovanni Malagodi fu eletto segretario nel 1952, succedendo a Bruno Villabruna, che, come abbiamo visto, fu uno dei rappresentanti più importanti della sinistra liberale. Qualche anno dopo, nel 1955, si consumò la scissione che portò alla fuoriuscita dei politici vicini alla sinistra e, contestualmente, all’allontanamento dal partito da parte di alcuni intellettuali, su tutti Mario Pannunzio, direttore della rivista Il Mondo.
Malagodi non nutriva molta simpatia per la sinistra, dalla quale ricevette sempre l’accusa di essere pagato per fare gli interessi della Confidustria; un’accusa riduttiva e infondata, poiché, come sottolinea Barrotta, «per comprendere la vera natura del suo rapporto con le associazioni industriali bisogna prima comprendere il terreno politico e sociale su cui Malagodi si volle muovere» (p. 119). Il terreno in cui si muoveva il segretario del Pli era quello di un tentativo di ampliamento del fronte elettorale del partito, e per farlo era necessario godere dell’appoggio politico e finanziario degli imprenditori. Tuttavia, è bene precisare – in contrasto al luogo comune dell’intreccio acritico fra liberalismo e potere economico – che la mossa di Malagodi è del tutto coerente con l’idea secondo la quale il liberalismo favorisce la libera concorrenza imprenditoriale accanto alla possibilità di un intervento statale che non ostacoli la concorrenza stessa.
Queste premesse permettono di comprendere meglio il progetto politico di Malagodi, il quale era deciso a difendere la formula politica del “centrismo”. Quest’ultima per Pli si imponeva quasi come una necessità fisiologica, dal momento che costituiva un’alternativa – alla fine non molto solida – alle istanze di apertura a sinistra da parte della Democrazia Cristiana. Su questo punto è molto chiaro Barrotta quando scrive che «con Malagodi, l’idea di una terza forza cessava di avere un ruolo significativo. Ora, il discrimine era diventato quello tra sinistra e destra; e il nuovo compito dei liberali consisteva nell’impedire ogni spostamento a sinistra della maggioranza di governo, chiudendo con ciò ai socialisti» (p. 124).
L’essenza del progetto politico di Malagodi si può riassumere affermando che la difesa del centrismo era l’unica soluzione contro il centrosinistra, composto principalmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito Socialista Italiano. Come sappiamo, il proposito di Malagodi non si realizzò e il primo governo di centrosinistra – seppur non organico – fu il Fanfani IV, realizzato con l’appoggio esterno del Psi. Il governo Fanfani realizzò le due riforme più importanti dell’alleanza fra Dc e Psi, e cioè la scuola media unica e la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Su quest’ultimo tema l’opposizione di Malagodi fu molto feroce, poiché, da un lato, il segretario del Pli pensava che la nazionalizzazione avrebbe portato «un’ampliamento della corruzione, già presente nel nostro Paese» (p. 139), e dall’altro la possibilità che l’Italia «si sarebbe avviata verso ‘un regime chiuso e oppressivo’» (p. 138).
Nonostante il secondo proposito non si realizzò, le parole di Malagodi sull’ampliamento della corruzione furono profetiche, poiché il centrosinistra «aprì la strada a un peggioramento del costume politico, a pratiche clientelari e a un aggravamento della ‘partitocrazia’» (p. 142). Seppur non bisogna cadere nell’idealizzazione, la battaglia di Malagodi fu sicuramente una battaglia in difesa del liberalismo politico ed economico. Purtroppo, tutti noi paghiamo oggi il prezzo di quella sconfitta, i cui segni evidenti sono un debito pubblico altissimo, i rapporti corruttivi fra politica e impresa e la mancanza di uno sviluppo economico e sociale ben strutturato, soprattutto nel Meridione. Le elezioni del 1963 – nonostante il 6,97% delle preferenze – rappresentarono la fine del progetto malagodiano, dal momento che i successivi governi furono quelli del così detto “centrosinistra organico”, e cioè dell’alleanza stabile fra la Dc e il Psi.
Un altro elemento che contribuì alla fine della visione di Malagodi fu il sessantotto, il quale rappresentò un punto di rottura notevole all’interno del Pli sia da un punto di vista della pratica teorica sia per quanto concerne la prassi politica. Le istanze di apertura ai diritti civili e sociali fomentati dai movimenti sessantottini influenzò il liberalismo al punto da proporre un’integrazione fra «libertà formali (libertà di parola, di associazione, i limiti del potere del governo) con libertà sociali» (p. 151). Dunque, il liberalismo non doveva essere soltanto la difesa di un sistema e di una pratica di governo, ma doveva porre attenzione ai diritti sociali e civili richiesti dalle minoranze e dai singoli individui. Fu in questa rinnovata cornice teorica che nel Partito liberale italiano si formarono delle correnti – come “Presenza liberale” o “Rinnovamento liberale” – che si ponevano in aperto contrato con la segreteria Malagodi. Nel 1976, Malagodi lasciò il suo incarico di segretario del Pli, lasciando il posto a Valerio Zanone, il quale incarnava questa nuova forma di liberalismo che venne chiamata «lib-lab», e cioè laburism and liberalism. Zanone, dunque, fece proprio il rinnovamento del liberalismo formatosi dopo il sessantotto, che prendeva forma in una sorta di liberalismo sociale. Quest’ultimo, però, non fu soltanto una teoria filosofica o di scienza politica ma rappresentò, come sottolinea Barrotta, «il retroterra culturale che consentì al Partito liberale di rientrare nei giochi politici» (p. 163).
Il liberalismo sociale diede la possibilità al Pli di uscire dall’emarginazione che Malagodi e il compromesso storico gli avevano dato, poiché la nuova teoria liberale rappresentò il punto di incontro fra i liberali e il nuovo socialismo proposto da Bettino Craxi, segretario del Psi dal 1976 al 1993. Craxi decise di liberare il Psi dalla subalternità teorica e psicologica del Partito comunista italiano e nel famoso articolo Il vangelo socialista, Craxi criticò apertamente il leninismo e il marxismo aprendo all’incontro propizio fra socialismo e libertà, e cioè all’avvicinamento fra i due partiti. Da un punto di vista della prassi politica l’incontro fra il Pli e il Psi si realizzò nella formula del «pentapartito», che segnò la storia della politica italiana negli anni Ottanta.
Tuttavia, il Partito liberale non riuscì ad avere all’interno della coalizione un ruolo determinante nell’azione di governo, soprattutto a causa degli esigui risultati elettorali; fu in questa cornice poco consolante che nel 1985, Zanone presentò le sue dimissioni, convinto che la sua visione del liberalismo fosse poco consona e soprattutto rischiasse di divenire subalterna a quella del Psi.
Gli ultimi due segretari furono Alfredo Biondi e Renato Altissimo, i quali non furono altro che epigoni sia del sistema dei partiti che iniziò a crollare sotto i colpi della magistratura sia della mancanza di un progetto politico chiaro e pregnante da parte dei liberali: questi due elementi si rivelarono fatali per il Pli e lo condussero verso lo scioglimento nel 1994.
In conclusione, è difficile dare un giudizio pieno ed esaustivo sul Partito liberale italiano: sulle sue scelte, sui suoi progetti politici e sulle sue prospettive. Sicuramente – sul piano storico – la difficoltà più gravosa fu quella di costruire un elettorato liberale che fosse critico e consapevole, ma accanto a questo è forse possibile affermare che l’Italia di oggi ha molto da imparare da questa storia di una sconfitta, non soltanto su chi sono stati i liberali, ma soprattutto su cosa potranno fare i futuri liberali – se ce ne saranno – per migliorare il nostro Paese. Ma questa è un’altra storia.