Federico Tinnirello (1996) si è laureato in Filosofia e, successivamente, in Scienze Filosofiche all'Università degli studi di Catania discutendo una tesi sul pensiero di Ludwig Wittgenstein. Attualmente è allievo diplomando presso la Scuola Superiore di Catania.

Recensione a
P. Barrotta, Storia del partito liberale italiano nella Prima repubblica
Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 234, € 16,00.

Nelle prime pagine della sua brillante introduzione al liberalismo[1], Nicola Matteucci si chiede, riprendendo Thomas Hobbes, a chi spetta il gravoso compito di definire l’essenza del liberalismo. Se prendiamo alla lettera uno dei fondamenti del pensiero liberale: e cioè che non esistono dogmi ma tutto deve essere argomentato razionalmente, ne segue che non c’è nessuna auctoritas in grado di definire esattamente e indiscutibilmente che cos’è il liberalismo.

Questa premessa è centrale per leggere correttamente la Storia del partito liberale italiano scritta dal filosofo della scienza Pierlugi Barrotta. L’intento dell’Autore, dunque, non è quello di sostenere che il Pli abbia incarnato una sorta di liberalismo ufficiale; al contrario, Barrotta vuole mostrare che la storia del Pli è la storia della complessa attuazione del liberalismo politico.

Infatti, all’interno del libro l’autore dà largo spazio ai dibattiti teorici, proprio perché il Partito liberale non è stato un organo autoritario a cui i suoi membri dovevano adeguarsi, ma piuttosto è stato il luogo in cui si è cercato di mettere in pratica i principi liberali.

Tuttavia, sarebbe scorretto – sia storicamente che intellettualmente – fermarsi a questa descrizione, dal momento che il Pli fu un partito e dunque si comportò da partito, e cioè prese decisioni, si presentò alle elezioni e votò in un certo modo alcune leggi. Questo punto è molto importante, altrimenti non sarebbe la ricostruzione storica di un partito, ma qualcos’altro. A questo proposito, Pierluigi Barrotta è molto chiaro e sostiene che la visione politica liberale risiedeva nel fatto che

in estrema sintesi, per tutti loro il Pli doveva essere il partito che più di ogni altro difendesse le prerogative di uno Stato che fosse autorevole […] Per i liberali, la difesa dell’autorevolezza dello Stato è tutt’uno con la difesa dello Stato di diritto[2].

In questo passo, Barrotta propone una lettura concreta della prassi e dell’azione politica dei liberali, i quali hanno sempre difeso una precisa idea di Stato e non – come si pensa solitamente – gli interessi del mercato, di una classe o di un ceto. Al contrario, questa è l’accusa che i liberali hanno sempre fatto agli altri partiti e, in un certo senso, a ragione, poiché alcuni problemi endemici dell’Italia sono dovuti, per i liberali, a due motivi a) mancanza di cultura liberale e b) il soddisfacimento da parte dei vari partiti di interessi particolari piuttosto che gli interessi della collettività. Senza questi presupposti è impossibile comprendere l’azione dei liberali e, secondo chi scrive, il motivo della ricostruzione storica da parte di Pierluigi Barrotta.

Nella seguente recensione, prenderemo le mosse dalla lettura indicata da Barrotta per cercare di capire come i liberali italiani hanno declinato questa visione nei vari momenti della storia repubblicana. Prima, però, è necessario soffermarsi sui presupposti teorici a cui si rifaceva il Pli. Barrotta, a questo proposito, descrive il ruolo fondamentale – sia da un punto di vista politico che intellettuale, ricoperto da Benedetto Croce e Luigi Einaudi.

Croce ha rivestito un ruolo politico centrale nel partito, dal momento che fu il promotore della riorganizzazione liberale all’indomani della caduta del fascismo e poiché influenzò la maggior parte delle scelte politiche dell’immediato dopoguerra come l’apertura alla Democrazia Cristiana[3] e l’appoggio al Patto Atlantico. Da un punto di vista strettamente teorico, Croce concepiva il liberalismo come «una concezione totale del mondo e della realtà»[4], e cioè uno «svolgimento, che, mercé la diversità e l’opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato»[5]. Come è possibile notare da questi passi, Croce sembra scindere la teoria politica dalla prassi concreta, poiché il liberalismo è concepito come una visione che regola la storia e le azioni umane. Tuttavia, non bisogna vedere una contraddizione tra l’aspetto filosofico e l’impegno politico di Croce, dal momento che il filosofo napoletano influenzò la prassi del Partito liberale su due punti molto importanti.

In primo luogo, l’idea che il Pli doveva essere un «pre-partito», cioè «non poteva legarsi ad un alcun programma, di natura economica o istituzionale che fosse»[6]. In secondo luogo, per Croce il Partito liberale doveva sì organizzare la pratica politica, ma soltanto dopo essersi definito come il partito della libertà, ovvero dopo aver fatto sua l’idea che la libertà si riferisce sempre alla sfera morale e non a quella economica o utilitaristica. Su questo punto il giudizio di Barrotta è inequivocabile, nonostante non intenda minimamente sottostimare l’importanza che Croce ebbe per il Pli: «la concezione del Pli come “pre-partito” […] non giovò ai liberali, che furono da essa ostacolata nella preparazione di un programma politico all’altezza dei tempi»[7].

Luigi Einaudi, invece, ebbe un ruolo molto più concreto, dal momento che indirizzò il partito verso una precisa visione dell’economia, suggerendo in che modo il Partito liberale avrebbe dovuto agire nella ricostruzione economica del dopoguerra. Einaudi, in sintonia con Ropke e con la scuola austriaca di economia[8], partiva da una critica al così detto «capitalismo storico», e cioè il modo con cui si era sviluppata l’economia di mercato in Italia. Per l’economista torinese era necessario che lo Stato legiferasse al fine di «consentire a tutti di usare al meglio i propri talenti nel processo concorrenziale»[9], senza scadere però nel dirigismo collettivista. Dunque, era necessario che lo Stato favorisse lo sviluppo di un capitalismo «dal volto umano», e cioè che arginasse, da un lato, il laissez-faire e, dall’altro, il fatto che lo Stato diventasse dispensatore di favori e di monopoli, accentrando su di sé la vita economica della nazione.

Le idee di Croce e di Einaudi ebbero un ruolo molto importante nella concreta dialettica politica interna al partito, nel quale si fronteggiarono dal 1946 fino agli anni del centro-sinistra due diverse visioni del partito e del liberalismo.

La prima viene chiamata «sinistra liberale», la quale riteneva che il Partito liberale dovesse costituirsi come «terza forza», in opposizione ai socialcomunisti e alla Democrazia Cristiana, verso la quale però ci fu comunque un’apertura. La sinistra liberale faceva proprie le idee di Croce e Einaudi, ovvero un partito di centro laico e a favore di uno Stato autorevole in economia. La sinistra liberale fu dominante nel partito in due momenti storici molto importanti. In primo luogo, quando il Partito liberale costituì la coalizione chiamata Unione democratica nazionale che ottenne l’8,3% alle elezioni politiche del 1946. In secondo luogo, durante la segreteria di Bruno Villabruna, in cui alcuni esponenti del partito parteciparono al V governo De Gasperi. Tuttavia, lo scontro interno al partito portò gli esponenti della sinistra liberale insieme ai giornalisti de Il Mondo – intellettuali come Pannunzio o Panfilo Gentile da sempre vicini alla sinistra – ad uscire nel 1952 dal partito per fondare il Partito radicale dei liberali e democratici italiani.

In opposizione alla sinistra liberale, vi erano gli esponenti della destra che avevano un progetto politico differente. La destra concepiva, piuttosto, la politica italiana alla luce del bipolarismo, nel quale da un lato c’erano i socialcomunisti e dall’altra parte lo schieramento conservatore; per la destra «il Pli doveva farsi promotore dello schieramento conservatore […] [cioè] doveva raccogliere tutte le forze anticomuniste, “educandole” al liberalismo […] e svuotare al contempo l’elettorato della Dc»[10].

Un progetto radicalmente diverso da quello della sinistra e che assunse due forme assai diverse. In un primo momento, la destra iniziò a divenire egemone in seguito alla decisione, stabilita nel congresso del maggio del 1946, di sostenere la monarchia al referendum istituzionale. La scelta monarchica provocò una frattura con la sinistra, la quale si realizzò quando venne eletto segretario il monarchico Roberto Lucifero, il quale fu l’artefice del Blocco Nazionale, e cioè l’alleanza fra Partito liberale e il Fronte dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. L’intento di Lucifero, appunto, era quello di formare una grande destra conservatrice, cattolica e monarchica che emarginasse i socialcomunisti e svuotasse l’elettorato della Dc. Tuttavia, ciò non si verificò, e infatti alle elezioni del 1948 il Blocco Nazionale prese solamente il 3,8% e Lucifero fu costretto a dimettersi. L’eredità della destra rimase sepolta fino al 1952, quando divenne segretario Giovanni Malagodi, con il quale si aprì una nuova stagione del Partito liberale italiano.

Note:

[1] N. Matteucci, Il liberalismo, il Mulino, Bologna 2008.

[2] P. Barrotta, Storia del partito liberale italiano nella Prima repubblica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 11-12.

[3] Su questo punto, Pierluigi Barrotta sostiene che il saggio di Benedetto Croce, Non possiamo non dirci cristiani, abbia avuto un ruolo centrale, infatti «il saggio crociano indicò ai liberali la strada da seguire, suggellando, rendendola evidente, la necessità di superare le ostilità risorgimentali tra liberali e cattolici» (ivi, p. 31).

[4] B. Croce, Elementi di politica, RCS Quotidiani, Milano 2001, p. 86.

[5] Ibidem.

[6] P. Barrotta, Storia del partito liberale italiano nella Prima repubblica, cit., p. 32.

[7] Ivi, p. 35.

[8] Sulla scuola austriaca di economia e in particolare sul suo fondatore, Carl Menger, si consiglia: G. Camardi, Critica allo storicismo e fondazione dell’epistemologia in Carl Menger, «Archivio di storia della cultura», Anno X, 1997, pp. 421-445.

[9] P. Barrotta, op. cit., cit., p. 54.

[10] Ivi, p. 69.

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